di Fabio Dei [*]
1. Dialoghi Mediterranei è forse l’unica rivista di dibattito che esiste oggi nell’antropologia italiana: agile, deanvurizzata, non impone standard rigidi e consente di porre problemi senza bisogno di eccessive formalizzazioni, di esercizi di equilibrismo e diplomazia, etc. Aiuta insomma a pensare, cosa che non sempre si può dire dei prodotti levigati e uniformati – ma non di rado più piatti – delle riviste accademiche. Approfitto allora della cortese e appassionata disponibilità del suo Direttore per porre uno dei problemi che spesso mi frullano in testa, e forse non solo a me: uno di quelli “che avreste sempre voluto sapere, ma non avete mai osato chiedere”. Che uso possiamo fare in antropologia della nozione di progresso? Parto dal constatare che si tratta di uno di quei termini che tutta la nostra socializzazione disciplinare ci ha abituato a evitare, o al massimo a usare fra virgolette, come espressione di una concezione della storia o della diversità umana ingenua, etnocentrica, superata (lo stesso vale per termini come “civiltà” o “civile”, e i suoi contrari “barbaro” o “primitivo”).
Consideriamo di solito “progresso” come un concetto ottocentesco, radicato nel positivismo (se non settecentesco e illuminista), basato su una fiducia nella illimitata perfettibilità della conoscenza umana, della tecnologia e delle forme di vita sociale – fiducia che oggi non possiamo più coltivare, da un lato perché abbiamo alle spalle la Shoah, dall’altra perché spaventati da un futuro denso di minacce di distruzione dell’ambiente, di esaurimento delle risorse, di guerra di tutti contro tutti; convinti che l’Antropocene sia un passo indietro e non in avanti nella storia naturale del pianeta Terra. Ma, soprattutto, il “progresso” ci pare inaccettabile perché implica una considerazione qualitativa delle culture umane: chi ci autorizza a dire che una cultura (una società, un “popolo”…) è più progredita di un’altra? Abbiamo fatto un grande sforzo per superare la visione colonialista per cui “noi” siamo progrediti e “loro” primitivi o arretrati: presupposto fondatore di un ciclopico impianto etnocentrico che ha a lungo compromesso la nostra possibilità di comprendere gli altri, commisurandoli a scale di valutazione gerarchica che semplicemente non corrispondono ai loro princìpi, ai loro valori, o come si direbbe oggi alle loro ontologie. Insomma, non possiamo assumere come punto di partenza dell’intelligenza antropologica una filosofia della storia che ci dica da che parte sta il progresso: semmai, si potrebbe dire che compito dell’antropologia è studiare le differenti filosofie della storia sottese da culture o civiltà diverse, i modi in cui intendono il trascorrere del tempo, il fatto che pongano l’età dell’oro nel passato oppure nel futuro e così via. E, di conseguenza, si potrebbe analizzare la stessa concezione occidentale-moderna di progresso come un’ideologia folk – insomma, come un oggetto e non come una risorsa della nostra conoscenza.
2. D’accordo. E tuttavia c’è qualcosa che non convince in tutto questo. Davvero non è legittimo trovare un accordo su un criterio di valutazione qualitativa delle culture? Si ricorderà che proprio questo sta al centro dello Statement on Human Rights del 1947 della AAA, che richiama «the scientific fact that no technique of qualitatively evaluating cultures has been discovered». Affermazione che da un lato è difficile da confutare, dall’altro fonda un relativismo etico che entra in palese contraddizione (discussa ormai fino alla noia) con l’universalismo dei diritti. Anzi, entra in contraddizione con gli stessi obiettivi di Herskovits e dei proponenti, i quali volevano denunciare una cultura discriminante e distruttiva a favore di una tollerante e protettiva nei confronti della diversità. Quindi volevano denunciare una cultura peggiore a favore di una migliore. Tutta la storia degli studi dimostra in realtà che il rifiuto di un’idea troppo ingenua di progresso non significa che non sia attiva nello sguardo antropologico, in modo esplicito o implicito, una qualche diversa concezione del progresso, che ne orienta la ricerca e le impostazioni teoriche di fondo. Proprio le scuole novecentesche che hanno abbracciato l’atteggiamento relativistico, e si sono opposte alla univoca filosofia della storia di stampo più o meno hegeliano come criterio di valutazione delle culture umane, sono state apertamente e consapevolmente guidate da valori progressisti. L’antirazzismo, i diritti umani e la difesa dei popoli indigeni per la tradizione boasiana, una certa idea di socialismo per Durkheim e per Mauss (un tendenziale egalitarismo prodotto dall’irruzione della morale nella sfera dell’economia); in quanto al funzionalismo, se oggi ci colpisce una sua “complicità” con il colonialismo, dobbiamo anche storicizzarlo e ricordarne l’impegno in chiave antirazzista e persino emancipativa (in una fase storica, certo, in cui l’emancipazione non si identificava necessariamente con la decolonizzazione). Non è banale ricordare che anche il marxismo è progressista, vuole cioè migliorare la società eliminando le classi e costruendo un “uomo nuovo”; e, pur contrapponendosi al “progresso” liberale e capitalistico, lo considera una tappa intermedia verso il fine o la fine della storia.
3. Nella storia culturale del Novecento, a questi indirizzi si contrappongono semmai quelli che vedono il male nella modernità in sé: un filone anti-illuminista che rimpiange la Tradizione o la Verità, che denuncia la tecnologia come causa della perdita di un rapporto diretto con l’Essere o con la Natura, e nella democrazia la fine dell’autonomia dell’Individuo. Spengler, Heidegger, Evola, volti diversi di un “pessimismo culturale” (Bennett 2001) che profetizza, se non auspica, la caduta di un Occidente ormai abbandonato dallo Spirito. Nella prima metà del secolo le posizioni sono molto chiare: il progressismo sta a sinistra (in una versione liberal-democratica, oppure in una socialista-comunista, l’antimodernismo sta a destra e si impianta nel fascismo e nel nazismo). Ci si potrebbe chiedere in che misura le scienze antropologiche ne siano contagiate. Non molto, direi: fino agli anni Sessanta sono rare le tentazioni irrazionaliste o primitiviste all’interno della disciplina. Un filone di conservatorismo neoromantico si manifesta semmai nella storia delle religioni, con gli indirizzi fenomenologici che insistono sull’esperienza ineffabile di incontro col Radicalmente Altro come fondamento della vita religiosa, e sul mito come espressione di una più autentica conoscenza precategoriale, di un rapporto diretto fra parole e cose. Nell’ultimo terzo del secolo le cose si fanno più complesse e intrecciate. Il pessimismo culturale entra prepotentemente nel repertorio della sinistra, dei movimenti di contestazione e controculturali, e trova piena espressione in alcuni aspetti della protesta sessantottesca, occupando progressivamente il campo della teoria sociale critica e ibridandosi in vario modo anche con i marxismi. Mi sembra che in chiave di storia delle idee questo aspetto cruciale sia ancora da approfondire. Si può pensare che, una volta esaurita la spinta del modello del socialismo reale, i movimenti antagonisti abbiano ripiegato completamente sulla critica del sistema capitalistico esistente – anche in assenza di alternative. I movimenti si concentrano sulla “dialettica negativa”, sul valore autonomo della critica al “reale” (lo slogan hegeliano “ciò che è reale è razionale” è il principale obiettivo polemico di Adorno e Horkheimer, come per Marcuse lo è il freudiano “principio di realtà”): e in questo contesto recuperano il repertorio antiprogressista della destra. È così possibile che Heidegger e gli heideggeriani divengano i principali teorici del movimento del 1977, e che lo “sciamano” (figura costruita, nella sua accezione odierna, da un anti-illuminista di ferro come Eliade) si faccia emblema di un soggetto finalmente liberato; liberato dalle costrizioni di una Ragione plasmata dal sistema politico-economico dominante, o da una scienza vista come sottoprodotto del potere borghese. Il cosiddetto post-strutturalismo eredita questa impostazione, e la trasmette all’approccio postcoloniale, che influenza a sua volta in modo decisivo la teoria antropologica a cavallo tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo. La cosiddetta svolta ontologica, che rispolvera il vecchio mito dell’unità precategoriale con il Mondo (anzi con i Mondi), e quello della metamorfosi come modello di conoscenza, con tutto il connesso repertorio primitivista, è il risultato di questi passaggi: e sancisce la rinuncia a ogni concetto universale di ragione umana e dunque di progresso scientifico e sociale. Il radicalismo politico connesso a questa teoria ha una sua teleologia, espressa dalla locuzione “un altro mondo è possibile”. Un motto che attrae tanto le giovani generazioni, e comprensibilmente, perché sembra rappresentare l’unica via di uscita rispetto alla passiva accettazione di una realtà imperfetta: ma che resta definito ex negativo. Sappiamo quello che non vorremmo, ma non è tanto chiaro come dovrebbe essere quest’altro mondo possibile e come realizzarlo.
4. Ma qui mi lascio trasportare dalla mia passione per la critica della teoria antropologica contemporanea, e non vorrei parlare di questo ma tornare al problema: possiamo valutare diverse forme di vita umane in termini di maggiore o minore “qualità”? E dunque, disporle su una scala di progresso? In altre parole: ci sono modi di giudicare una cultura o una società come migliore e peggiore, che non si possono semplicemente relativizzare e che si impongono invece come universalmente validi e ineludibili? Da un lato, a noi ripugna dire ad esempio che la “civiltà occidentale” è superiore a quelle “primitive”: non ci sarebbe neppure spazio per l’antropologia se dovessimo dogmaticamente affermare questo. Dall’altro, però, siamo fermamente convinti che una società democratica, egalitaria, rispettosa dei diritti umani e delle diversità, che abbia eliminato la violenza dalle relazioni interpersonali etc. è migliore di una di tipo nazista, basata su violenza, discriminazione e razzismo, assenza di libertà, relazioni umane basate sulla minaccia e la paura e così via. Meglio/peggio, superiore/inferiore, più giusto/meno giusto, per non parlare di vero/falso: non si sfugge al giudizio (Consideriamo che quando l’antropologia ha “difeso” le culture primitive, lo ha fatto cercando di mostrare come per certi aspetti esse sono superiori a quella occidentale: ad esempio per un rapporto più organico con la natura, per una maggiore “saggezza”, per relazioni di scambio basate sul dono e sull’etica piuttosto che sulla merce e sul profitto, perché guidate da un pensiero non oggettivante e via dicendo, secondo un intero repertorio di argomenti neoromantici). Come definire allora i criteri del progresso? Mi ha colpito il modo apparentemente semplicistico, ma al tempo stesso difficile da eludere, in cui Steven Pinker ha avanzato una risposta a questa domanda nel suo Enlightment Now, un libro del 2018 – dunque prepandemico, che però ho letto solo ora. Bisogna specificare che Pinker è un autore che di solito non si legge in antropologia, forse anche a ragione, perché pretende di parlare delle cose umane come se fossero un semplice prolungamento delle scienze naturali, e come se non esistessero la dimensione della storia e quella del significato. Personalmente, ero stato parecchio irritato qualche anno fa da un suo precedente lavoro sulla violenza, tutto volto a sostenere che “noi”, l’Occidente moderno, siamo la società più pacifica e meno violenta dell’intera storia umana. Cavolo, come se “noi” non avessimo prodotto le carneficine delle due guerre mondiali, la Shoah e i genocidi coloniali, la bomba atomica e molto altro. Argomenti da non credere: per lui un singolo omicidio in un gruppo di cacciatori e raccoglitori di 50 persone è equivalente, per ragioni statistiche, al genocidio di un milione di persone in un Paese moderno di 50 milioni di abitanti. Del tutto fuorviante mi appariva (e mi appare) anche la sua idea che la violenza sia riconducibile alla “natura umana” e a cinque suoi interni “demoni” (l’istinto predatorio, la volontà di dominio, la vendetta, il sadismo, l’ideologia), che l’Occidente moderno e liberale avrebbe progressivamente posto sotto controllo, attraverso i suoi strumenti principali che sono lo Stato e il Mercato. Un approccio, insomma, che non sa distinguere fra storia e evoluzione e rilancia un determinismo naturalistico che a torto avevamo dato per superato – e che rappresenta per così dire l’altra faccia del post-strutturalismo “critico” di cui sopra (Dei 2013). Ma qui mi distraggo ancora. Era solo per dire che arrivavo a Pinker molto prevenuto. Per quanto ritrovi gli stessi difetti in questo libro sull’attualità dell’Illuminismo, mi sembra però più difficile dismettere complessivamente il suo argomento, che in estrema sintesi è questo: preferireste vivere in una società pacifica, democratica e ricca, con livelli bassissimi di mortalità infantile e un’ampia aspettativa di vita, disponibilità di beni alimentari, di assistenza medica e di servizi educativi per tutti, presenza ridotta della violenza nelle relazioni interpersonali e scarsa propensione alla guerra come strumento di risoluzione dei conflitti, una politica democratica e una forte attenzione per i diritti umani, che sono gli stessi per uomini e donne, per bianchi e neri etc., oppure in una società povera, con bassa aspettativa di vita, dittatoriale, nella quale la sopravvivenza è difficile per ampie fasce di popolazione e la violenza domina i rapporti umani, in cui categorie di cittadini sono discriminate sulla base di razza e genere, e così via? Se preferiamo il primo modello, dobbiamo ricordarci che esso non rappresenta una sorta di condizione naturale dell’umanità, ma è il frutto di un percorso di progresso che trova il suo fondamento negli ideali della scienza, della ragione e dell’umanesimo (e non di quelli della magia, della fede religiosa, del romantico Volksgeist). Riporto solo un passo di Pinker:
«Diamo per scontati i loro [della ragione, della scienza, dell’umanesimo e del progresso] doni: neonati che vivranno più di otto decenni, mercati che traboccano di cibo, acqua potabile che compare con il tocco di un dito e rifiuti che scompaiono con un altro, pillole che eliminano una dolorosa infezione, figli che non vengono mandati in guerra, figlie che possono passeggiare per le strade senza pericolo, critici dei potenti che non vengono incarcerati o uccisi, conoscenza e cultura del mondo a disposizione nella tasca di una camicia. Ma queste sono realizzazioni umane, non diritti di nascita cosmici. Nei ricordi di molti lettori di questo libro – e nell’esperienza di quanti vivono in parti meno fortunate del mondo – guerra, penuria, malattia, ignoranza e minaccia mortale sono una componente normale dell’esistenza. Sappiamo che i paesi possono scivolare nuovamente in queste condizioni primitive, e quindi ignoriamo a nostro rischio le conquiste dell’illuminismo» (Pinker 2018: 23-4).
5. A questo argomento si obiettano di solito due cose. Primo, che questo progresso ha riguardato una parte privilegiata dell’umanità, ed è avvenuto a spese di una parte “subalterna” (la classe operaia, i popoli coloniali etc.). In altre parole, il modello illuminista produce disuguaglianza, e continua a produrla. Se c’è un luogo comune nell’antropologia contemporanea, è che le disuguaglianze sono in costante aumento nel mondo di oggi. La seconda obiezione riguarda il fatto che il modello difeso da Pinker, che trova nella rivoluzione industriale le sue basi, sta oggi distruggendo il mondo, esaurendo le risorse, insomma rendendo il pianeta invivibile per tutti. Sul primo punto, la risposta dell’autore è che il benessere prodotto dalla scienza e dalla tecnica è stato nel lungo periodo a favore di tutti. Non si tratta cioè di un gioco a somma zero. Se è vero che la logica dell’impresa privata e del mercato non è egalitaria, tuttavia essa ha avuto successo nel mettere a disposizione un sempre maggior numero di beni a un sempre maggior numero di persone. Quando Pinker parla di teorie economiche, ho l’impressione che si dia la zappa sui piedi. Sembra credere nella “mano invisibile”, e non problematizza affatto le diverse forme che il mercato e il liberismo hanno assunto nella storia. Ma non è questo il punto. Il dato su cui insiste (riprendendo le posizioni di Hans Rosling, 2018), è che negli ultimi decenni una componente altissima della popolazione mondiale, che si è ampliata fino a raggiungere gli 8 miliardi, ha conquistato livelli di qualità della vita (in termini di reddito, di alimentazione, di aspettativa di vita, accesso a servizi basilari, ai trasporti e all’informazione, parità di diritti per le donne) impensabili prima degli ultimi decenni del Novecento. Questo non significa che non resti il problema di una disuguaglianza rispetto allo stile di vita opulento dei Paesi più ricchi; e soprattutto quello di centinaia di milioni di persone che vivono in aree in cui quella qualità minima non è garantita, a causa di guerre, siccità, regimi violenti e oppressori, e che si trovano dunque in condizioni di povertà estrema. Ma storicamente il dato cruciale è l’ingresso di miliardi di persone in una fascia economica di medio reddito, e in condizioni di vita che sono paragonabili e forse superiori a quelle delle classi sociali più ricche nell’Europa di un secolo fa (basti pensare, ad esempio, al fatto che più di metà della popolazione mondiale possiede uno smartphone, un bene che solo quindici anni fa avremmo considerato di lusso, e i due terzi hanno accesso a Internet). Dunque, l’esistenza delle disuguaglianze non implica l’aumento della povertà assoluta, anzi è compatibile con un maggior benessere anche degli strati meno ricchi (una tesi che entra in evidente contrasto con quella che vede la creazione di ampie sacche di povertà e sottosviluppo come una caratteristica strutturale del capitalismo). Il fatto che restino disuguaglianze che giustamente ci appaiono scandalose (gli immigrati raccoglitori di pomodori, i waste-pickers indiani, i precari della gig economy etc.) non si traduce immediatamente nella constatazione del fallimento di un modello che ha prodotto benessere per masse di persone: la soluzione sta in una sempre maggiore inclusività, non nell’allineamento di tutti verso il basso. Non dovremmo dimenticare che gli “altri mondi possibili” possono essere anche quelli del ritorno alla povertà generalizzata, all’oppressione politica, alla discriminazione di genere e così via (non sono solo mondi distopici, ma ne abbiamo esempi attuali molto concreti).
In quanto ai disastri ecologici prodotti dal progresso industriale e dal capitalismo, Pinker non intende negarli (anzi, considera il negazionismo rispetto ai mutamenti climatici e ad altri problemi ambientali un aspetto dell’oscurantismo irrazionalista che affligge oggi ampie componenti della politica e dell’opinione pubblica all’interno dello stesso Occidente (il trumpismo negli Stati Uniti, in primo luogo). Il suo argomento qui è che si può rispondere alla crisi ambientale con gli strumenti della scienza e della ragione, non certo con il loro rifiuto a favore di vecchie o nuove religioni dell’unità con la Natura (religioni ecologiste che fra l’altro, come ben mostra un recente pamphlet, hanno origine in movimenti di estrema destra dei primi decenni del Novecento, spesso confluiti nel nazismo [Santolini 2024]; il che rimanda al precedente accenno sulle radici antimoderniste di un certo radicalismo militante di oggi). Primitivismi, “ritorni” alla natura, adorazioni della Dea-pianeta vivente etc. non ci portano da nessuna parte (un equivoco, questo, in cui era caduto anche uno dei più grandi antropologi italiani, Vittorio Lanternari, con la sua ultima opera Ecoantropologia: pur saldamente razionalista (e in questo buon “alleato” di Ernesto de Martino, come lui stesso si definiva), in quel libro Lanternari (2003) aveva concesso un po’ troppo all’idea che i culti indigeni di una Terra Sacra potessero salvarci, o comunque si saldassero naturalmente alla migliore coscienza ecologica dei critici di un modello di sviluppo insostenibile. Per inciso, anche molte reazioni filosofiche alla pandemia ci hanno portato nei paraggi di simili scenari, più indigenisti che indigeni (Amselle 2012), più New Age che etnografici. In che cosa un ecologismo scientifico si differenzi da uno ideologico o pseudo-religioso è un problema dalle molte implicazioni, anche e soprattutto pratiche, che ci porterebbe lontano. Mi sembra però una questione ineludibile per tutte le antropologhe e gli antropologi che si occupano d’ambiente.
6. Per riprendere e concludere la principale linea di riflessione: una valutazione delle culture in termini di maggiore o minor progresso dipende ovviamente da scelte etiche, e non può mai esser giustificata in modo assoluto. Né Dio né l’epistemologia possono offrire soluzioni esterne e neutrali rispetto a specifiche tradizioni culturali o morali. D’altra parte il puro relativismo non funziona e lo sappiamo bene. Non funziona non solo normativamente, ma neppure descrittivamente. Perché nella storia umana, quando popoli o persone si sono trovate a dover scegliere fra una vita più lunga, più agiata e più libera e una più dura, breve e piena di minacce e violenze, di solito non hanno avuto dubbi; quando hanno potuto scegliere fra una biomedicina accessibile ed efficiente e lo stregone, non hanno avuto dubbi; quando hanno potuto scegliere tra recarsi ogni giorno in moto al mercato piuttosto che ogni giorno a caccia nella foresta, tra usare macchine che alleviano la fatica del lavoro o mantenere una tecnologia neolitica, non hanno avuto dubbi. Sì, certo, queste scelte sono avvenute spesso nel contesto della violenza coloniale: ma solo un’inguaribile romanticismo può credere che, se avessero potuto, i popoli indigeni avrebbero scelto di non avvalersi degli strumenti del progresso al fine di mantenersi più autentici. Il colonialismo contro cui si sono battuti è semmai quello che gli impediva di accedere a questi beni e ai relativi diritti (basterebbe pensare al caso dei cargo-cults), costringendoli a restare “selvaggi”. Certo, noi antropologi siamo quelli che hanno cercato di scorgere la razionalità delle tecnologie neolitiche e del ricorso allo stregone, affermando persino che quest’ultimo può avere una sua efficacia simbolica: e sosteniamo, a ragione, che nella scienza o nella biomedicina moderna questo aspetto simbolico e sociale è trascurato. Questo è ad esempio il lavoro dell’antropologia medica, la cui critica alla biomedicina però non è di essere troppo scientifica, ma di esserlo troppo poco, per il fatto di trascurare aspetti socio-culturali che incidono invece fortemente sulle pratiche riguardanti il corpo, la salute, la malattia, la guarigione.
Questi aspetti sono del tutto assenti negli approcci naturalistici à la Pinker, per il quale in effetti il concetto di cultura non esiste, e che per spiegare gli “errori” di buona parte dell’umanità non sa fare di meglio che parlare di ignoranza o superstizione. Fra i pochi antropologi a confrontarsi direttamente con Pinker ci sono stati David Graeber e David Wengrow, in quel loro bestseller (uscito dopo l’improvvisa scomparsa di Graeber) dal titolo L’alba di tutto. Una nuova storia dell’umanità – vero e proprio manifesto di chi ha fiducia – come si diceva sopra – in un “altro mondo possibile”. I due autori se la prendono con le tesi di Pinker sulla violenza, e con buone ragioni, come si è visto. Ma sono soprattutto infastiditi dalla sua insistenza nel voler dire che cosa è meglio e cosa peggio, attribuendo il peggio al mondo “primitivo” e il meglio alla tradizione “europea” o “occidentale”, nella incrollabile convinzione che «la vita moderna è superiore a ciò che l’ha preceduta» (Graeber, Wengrow 2022: 64). Ok, non possiamo non condividere questo loro fastidio, per le ragioni intrinseche all’esistenza stessa dell’antropologia di cui ho già detto. Ma a loro volta Graeber e Wengrow sembrano non poter fare a meno di cadere nel gioco relativista e neoromantico dell’inversione, sfoderando tutto il classico repertorio. Prima di tutto, affermare che la modernità ha elementi di progresso equivarrebbe a dire che «tutte le forme significative del progresso umano prima del XX secolo si possono attribuire esclusivamente al gruppo di esseri umani che si denominava “razza bianca” (e che ora, generalmente, usa il sinonimo più accettato di “civiltà occidentale”)» (Ibid.: 62). Quindi, credere in un progresso che sarebbe maturato nella storia e in un processo di civilizzazione che ha trovato nell’illuminismo la sua espressione più chiara sarebbe intrinsecamente razzista: un’equazione che mi sembra difficile da accettare. E poi, di fronte alle statistiche portate da Pinker per dimostrare i miglioramenti concreti e diffusi ad opera della modernità nell’ambito della sanità, della sicurezza, dell’istruzione, del comfort etc., non trovano di meglio che chiedersi come si possa misurare la felicità umana: sostenendo, attraverso aneddoti episodici (lo stesso metodo che poche pagine prima rimproverano a Pinker) che vi sono stati casi di persone che hanno preferito la vita in gruppi indigeni “primitivi” dotati di forte coesione sociale a quella nelle anomiche città occidentali – come nelle storie otto-novecentesche di coloni americani rapiti o adottati dai nativi, che hanno deciso di restare con loro piuttosto che tornare nella “civiltà”. Poveri ma belli, insomma, due cuori e una capanna o come preferite. Graeber non è mai stato un antimodernista (valgano ad esempio a testimonianza di questo le sue polemiche con Viveiros de Castro). In questo libro però sono forti le tentazioni di costruire una filosofia della storia al rovescio, dove la modernità appare come un ininterrotto percorso di decadenza rispetto a una umanità delle origini come modello di solidarietà sociale e democrazia diretta. Una storia, per inciso, completamente ipotetica: perché i due autori hanno buon gioco nel far risaltare le fragilità documentarie delle visioni correnti del passaggio tra Paleolitico e Neolitico (quelle à la Gordon Childe, diciamo), ma a loro volta non possono far altro che instillare dubbi e avanzare ipotesi (al massino non incompatibili con le evidenze archeologiche e paletnologiche) su come potrebbe esser stato quel mondo delle origini.
In ogni caso, Pinker non vuole affermare la supremazia dell’Europa o dell’Occidente in sé, ma di alcuni aspetti nello sviluppo delle società umane cui attribuisce un valore universale e non relativizzabile di progresso, e che non sono in sé necessariamente europei, occidentali, bianchi o che altro. Tutto il gioco di Graber e Wengrow, in effetti, consiste nel cercare di riportare alle società indigene di cacciatori e raccoglitori quei valori e quella saggezza che associamo alla razionalità, alla democrazia, all’umanesimo. Benissimo, se è possibile dimostrarlo (certo, il loro argomento per cui lo scetticismo razionalistico e la critica alla monarchia assoluta e al dogmatismo religioso sarebbero stati portati nella Francia del Settecento da alcuni nativi americani come Kondiaronk è un tantino, come dire, ardito). Resta il fatto che non si vede perché dovremmo lasciare a quelli come Pinker la “difesa della ragione, della scienza, dell’umanesimo e del progresso”. Perché non rilanciare un dibattito antropologico sul progresso, più attento alle differenze e ai significati, a una visione non positivistica della scienza, a un umanesimo che con de Martino possiamo chiamare etnografico? Un dibattito che si muova nella tensione fra la necessità di riconoscere i modi diversi in cui le culture danno senso al mondo, e quella, dall’altra parte, di tenere ferma l’idea di una ragione umana che, passata attraverso tutte le sue “crisi”, resti però lo strumento e la garanzia della conoscenza pubblicamente condivisa, di un’azione volta al miglioramento delle condizioni della vita umana attraverso la scienza e la tecnologia, e all’eliminazione da essa della violenza, dell’oppressione e dell’ingiustizia. Non dovrebbero essere questi gli obiettivi di quell’“antropologia militante”, o almeno “impegnata”, che oggi quasi tutti auspicano? Al contrario, prevale un orientamento che vede nella scienza, nella ragione e nell’umanesimo dei costrutti “borghesi”, dei sottoprodotti del capitalismo da un lato e del dominio (post)coloniale, nonché razziale, di genere etc. dall’altro; mentre la magia, l’estasi psichedelica e il ritorno alla mistica unità con la natura sarebbero strumenti di liberazione. Sarà…
Dialoghi Mediterranei, n.69, settembre 2024
[*] Questo articolo è stato prodotto nell’ambito del progetto Science and Ideology Today. Environmentalism, Primitivism, and Sexuality (ZID) presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Zagabria, approvato dal Ministero della Scienza e dell’Istruzione della Repubblica di Croazia e finanziato attraverso il National Recovery and Resilience Plan 2021-2026 dell’Unione Europea – NextGenerationEU.
Riferimenti bibliografici
Amselle, J. L., 2012, Contro il primitivismo, trad. it. Torino, Bollati Boringhieri (ed. orig. 2010).
Bennett, Oliver, 2001, Cultural Pessimism. Narratives of Decline in the Postmodern World, Edinburgh, Edinburgh University Press.
Dei, F., 2013, Recensione a S. Pinker, Il declino della violenza, «Studi culturali», X (3): 561-2.
Graeber, D., Wengrow, D., 2022, L’alba di tutto. Una nuova storia dell’umanità, trad. it. Milano, Rizzoli.
Lanternari, V., 2003, Ecoantropologia. Dall’ingerenza ecologica alla svolta etico-culturale, Bari, Dedalo.
Pinker, S., 2018, Illuminismo adesso. In difesa della ragione, della scienza, dell’umanesimo e del progresso, trad. it. Milano, Mondadori
Rosling, H., 2018, Factfullness. Dieci ragioni per cui non capiamo il mondo, trad. it. Milano, Rizzoli.
Santolini, F., 2024, Ecofascisti. Estrema destra e ambiente, Torino, Einaudi.
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Fabio Dei, insegna Antropologia Culturale presso l’Università di Pisa. Si occupa di antropologia della violenza e delle forme della cultura popolare e di massa in Italia. Dirige la rivista Lares e ha pubblicato fra l’altro Antropologia della cultura materiale (con P. Meloni, Carocci, 2015), Terrore suicida. Religione, politica e violenza nelle culture del martirio (Donzelli, 2016), Antropologia culturale (Il Mulino, 2016, 2.a ed.), Cultura popolare in Italia. Da Gramsci all’Unesco, Il Mulino, 2018). Con C. Di Pasquale ha curato i volumi Stato, violenza, libertà. La critica del potere e l’antropologia contemporanea (Donzelli, 2017) e Rievocare il passato. Memoria culturale e identità territoriali (Pisa University Press, 2017), James G. Frazer e la cultura del Novecento. Antropologia, psicoanalisi, letteratura (Carocci 2021). Dirige la Rivista di antropologia contemporanea e dal 2017 Lares, Quadrimestrale di studi demoetnoantropologici.
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