di Michela Buonvino, Beatrice Ugolini [*]
Antropologia, patrimonio culturale e decostruzione delle categorie di analisi
Nel corso della V edizione del Festival “Nella Terra di Diana” sono stati discussi i processi di patrimonializzazione delle “tradizioni popolari”. Si tratta di un tema complesso, che chiama direttamente in causa sia i molteplici fenomeni di costruzione, decostruzione e ricostruzione del patrimonio sperimentati da una pluralità di gruppi, artefici di tutta una serie di “posture patrimoniali” (Iuso 2022: 27), sia le procedure di formazione e di aggiornamento della strumentazione teorica e metodologica (come pure epistemologica) degli antropologi e delle antropologhe che si occupano di beni culturali (materiali e immateriali). Da questi processi emerge, dunque, un «mondo di azioni plurali» (Clemente 2022: 14) e creative, permeato da conflitti: un insieme di conoscenze e di concezioni del mondo che si definisce nell’intersezione di sguardi diversi, in questo caso, nello specifico, nell’incontro/scontro (De Certeau 2000) tra le “comunità” implicate e gli antropologi e le antropologhe culturali che debbono essere in grado di elaborare e di gestire sia i processi di ricerca sia i progetti di tutela e di sviluppo del patrimonio (nonché i progetti di intervento culturale e sociale), a partire da una riconsiderazione critica degli strumenti normativi.
Tutti gli interventi che si sono svolti al riguardo durante il convegno sono stati attraversati e animati da un unico obiettivo: quello di comprendere fenomeni proprî della nostra contemporaneità, accogliendo convintamente la sfida di un ripensamento ragionato e consapevole delle categorie analitiche e interpretative delle discipline demoetnoantropologiche e storico-religiose, proprio alla luce dell’eterogeneità e della plasticità dei processi indagati. A questo ultimo proposito, i relatori hanno presentato concreti esempi di ricerche interdisciplinari e, soprattutto, collaborative, esiti di processi di negoziazione di obiettivi e di modalità d’intervento, processi tanto “delicati” e articolati quanto assolutamente necessari.
Potremmo dire, in altre parole, recuperando e adattando ai nostri scopi un’espressione utilizzata da Ignazio Buttitta durante il suo intervento, che i volumi di cui si è discusso hanno tutti il pregio di porsi le giuste domande, rinunciando alla pretesa di offrire a tutti i costi delle risposte univoche e definitive; anzi, questi riescono nell’impresa giacché rifiutano la suddetta pretesa, in nome di un’esigenza impellente: non quella di preservare intatte le grandiose categorie dell’etnografia, che si rivelano oggi in misura sempre maggiore «ottuse e malconce» (Geertz 1995: 23), ma quella di fare i conti con una realtà radicalmente mutata, complessa, costantemente in divenire, riconsiderando, in ultimo, il ruolo stesso del ricercatore, il suo modo di posizionarsi e di relazionarsi con i suoi interlocutori, dunque la pratica etnografica come anche, in ultima istanza, il concetto stesso di cultura, muovendosi verso la de-essenzializzazione delle categorie e verso la costruzione di un’epistemologia condivisa, oltre gli assunti del cosiddetto paradigma dei “Peoples & Cultures” (Gupta – Ferguson 1997).
Sono, queste, riflessioni di cui abbiamo oggi, noi “addetti ai lavori” in primis, un bisogno ancora ingente e urgente; è stata, perciò, una preziosa occasione per ribadire, in maniera non astratta, ma, al contrario, attraverso la condivisione di particolari esperienze di ricerca, una cruciale lezione teorica ed epistemologica: «I resoconti vengono confezionati a partire dalle nozioni disponibili, dall’attrezzatura culturale che si ha a portata di mano. Ma come qualsiasi altra attrezzatura, anche questa entra a far parte del compito; il valore è aggiunto, non estratto. Se si vuole arrivare all’oggettività, alla correttezza e alla scienza non si deve pretendere che esse siano indipendenti dal lavoro concreto che le produce o le distrugge» (Geertz 1995: 9).
Inoltre, le ricerche presentate, legate a questo filone, si sono rivelate una spinta a riflettere criticamente sull’oggetto di studio delle nostre discipline. Pensiamo, ad esempio, agli originali casi di studio esplorati da Anna Iuso e in particolare a quello della patrimonializzazione della storia a Fiorentino, nell’agro di Torremaggiore, in cui l’appropriazione della figura di Federico II diviene l’occasione per una «rifondazione storica del paese» (Iuso 2022: 29) e stimola, al contempo, la valorizzazione patrimoniale delle tradizioni contadine. Questi esempi ci consentono di riflettere su una questione nodale, trasversale: quella dell’uso sociale della storia, per cui la storia stessa diviene uno specifico tipo di patrimonio.
Più in generale, la riflessione riguarda la costruzione sociale del passato in funzione del presente. Difatti, la memoria, nella sua dimensione collettiva, istituisce legami con il passato che sono sempre di natura ricostruttiva, per cui il passato non è mai preservato immutato ma sempre reinventato e riorganizzato in relazione ai quadri di riferimento presenti. I soggetti manipolano una storia non intesa come evento canonico, bensì spesso percepita come incerta, al fine di rifondare storie locali e di legittimare gli assetti sociali e politici presenti. L’uso della storia può costituire, e spesso di fatto costituisce un fertile terreno di confronto, in cui i cittadini diventano a tutti gli effetti attori protagonisti, e questo agire performativo può provocare un mutamento della coscienza storica dei soggetti implicati.
Infine, la restituzione di queste ricerche ha dimostrato come, a fianco alle istituzioni che spesso detengono un ruolo di primo piano nella produzione, nella conservazione e nella trasmissione delle conoscenze sul passato e che pertanto producono discorsi egemonici sul passato, è possibile individuare (e studiare) una vasta serie di usi “popolari” del passato. Per definire un tale processo, Fabio Dei ha parlato di «democratizzazione della memoria culturale» (Dei 2018). Questa operazione di distribuzione della produzione memoriale presso una gamma diversificata di gruppi è avvenuta di pari passo con una duplice erosione tendenziale del monopolio memoriale statale, ad opera delle agenzie sovranazionali e in seguito alla comparsa e all’affermazione di rappresentazioni del passato sostenute da specifici gruppi interni alla società.
Il legame tra femminilità, magia e sfera religiosa
Uno dei fili conduttori che si possono rilevare negli interventi che hanno avuto luogo durante la V edizione del Festival di Antropologia e Storia delle Religioni, è stato quello del rapporto tra femminilità, magia e sfera religiosa, nelle sue diverse declinazioni.
Se prendiamo le mosse dalla presentazione del libro di Ignazio Buttitta, Una è la forma, molti sono i nomi. Scenari del sacro femminile tra la Sicilia e Creta (Buttitta 2022), possiamo notare come il mito di una presunta Grande Madre, quale divinità primordiale presente in area mediterranea fin dal paleolitico e poi incarnatasi negli aspetti delle divinità femminili effettivamente attestate in epoca storica, si sia diffuso nel corso dei decenni in diversi ambiti, dall’archeologia all’antropologia, dalla storia delle religioni alla psicologia analitica, per arrivare agli studi di genere e influenzare anche parte dei movimenti femministi (Eller 2001). Se storicamente l’idea di una Grande Dea nasce all’interno del processo di sacralizzazione della natura che ha caratterizzato il Romanticismo tedesco (Pisi 2010), per poi assumere diversi aspetti, a volte anche nettamente opposti – si pensi solo come le bellicose società ginecocratiche di Bachofen siano di fatto l’esatto opposto delle pacifiche società matrifocali delle Grande Europa ipotizzate dalla Gimbutas (Baglioni 2022: 110) –, rimane comunque indubbio che tuttora nel pensiero del grande pubblico, e di almeno parte del mondo accademico attuale, la Grande Madre sia in verità esistita e si caratterizzi per il suo legame con i simbolismi relativi ai cicli naturali e cosmici di nascita, crescita e morte, come con quelli connessi alla Terra, alla Luna e alle Acque (Eliade 2008).
Ora, la spiritualità contemporanea ha accolto credenze e ritualità della tradizione religiosa e magica che oltre ad essere oggetto di rielaborazione e di reinvenzione, hanno contribuito anche alla formazione di nuovi percorsi e identità. Tra queste, un ruolo rilevante ricopre quanto è stato variamente attribuito alla Grande Dea. L’attenzione al sacro femminile, infatti, è attuale e continua a conferire senso, ad esempio, alle molteplici esperienze riconducibili a quella che, nel mondo anglosassone, è nota come feminist spirituality o Goddess spirituality, una corrente della spiritualità odierna riconducibile al composito e complesso mondo del neopaganesimo. L’opera ritenuta centrale per questo movimento è The Language of the Goddess. Unearthing the Hidden Symbols of Western Civilization dell’archeologa e linguista lituana Marija Gimbutasche, con questo lavoro, sperimentò un nuovo metodo da lei definito “archeomitologia” (Gimbutas 1989).
Nonostante le accese polemiche suscitate, soprattutto in ambito accademico (Baglioni 2022: 108-113), l’opera della Gimbutas rimane tuttora uno dei punti di riferimento per i movimenti della “spiritualità della Dea” che oppongono una concezione egualitaria della Dea Madre all’ordine gerarchizzato e patriarcale del Dio Padre, in cui l’accesso al sacro avviene senza la mediazione di istituzioni. Oltre all’influenza delle teorie della Gimbutas, nella genesi della spiritualità della Dea convergono l’affermarsi di teologie (o meglio, “tealogie”) che reinterpretano i testi sacri con un approccio femminista e l’interesse verso le popolazioni indigene nell’ambito di movimenti ambientalisti. Nelle diverse manifestazioni della Goddess spirituality, rimane sempre centrale la sacralizzazione del corpo femminile e dei suoi processi fisiologici, riconosciuti e onorati sia come veri e propri eventi rituali, sia come occasioni di liberazione dai tabù imposti dalla famiglia e dalla società (Palmisano – Pannofino 2021: 101-103).
In Italia, la spiritualità della Dea si esprime in una costellazione di centri, associazioni e gruppi come, ad esempio, il Tempio della Dea di Torino, che si richiama esplicitamente agli insegnamenti della Gimbutas; la Cerchia delle Dakini, che si ispira agli insegnamenti sciamanici di Vicki Noble (Noble 2005); il Tempio di Ara, che segue la via della Wicca tracciata dalla statunitense Phyllis Curott (Curott 2012); il movimento delle Tende Rosse, incentrato sui misteri del sangue mestruale, in cui si celebrano le tappe fisiologiche della vita femminile, in un contesto di condivisione e sorellanza (Palmisano – Pannofino 2021: 104-108). Riguardo alla correlazione tra Wicca e Goddess spirituality, è da rilevare anche la presenza, in Sicilia, dell’organizzazione Domina Lunae, fondata da Cristina Pandolfo, che segue la Tradizione Dianica “ri-svegliata” in California nel 1970. La Divinità principale del culto dianico è la Dea o Grande Madre dai diecimila nomi, concepita come trina nei suoi aspetti di Vergine, Madre e Crona. La Tradizione Dianica è riservata alle donne, nate biologicamente femmine, ed è incentrata su un percorso di riscoperta della propria autentica e selvaggia natura e di guarigione dagli effetti schiavizzanti del patriarcato, nonché sulle pratiche magiche correlate ai diversi presunti aspetti della Grande Madre. A differenza di altre correnti della Wicca, la Tradizione Dianica non contempla una polarità tra Dio e Dea, poiché la Grande Madre conterebbe in sé, riunendoli, entrambi i principi (Pandolfo 2015).
La correlazione tra il femminile e il mondo della magia si ripresenta in modo evidente nella rinnovata attenzione verso il fenomeno del tarantismo, in particolare nel Salento, dove, da espressione di precarietà esistenziale, è oggi divenuto, spettacolarizzato e depurato dagli aspetti di sofferenza, risorsa identitaria di promozione e valorizzazione del territorio, come emerge dai volumi di Vincenzo Santoro presentati nell’arco del Festival (Santoro 2021a e 2021b). Nell’opera del 1961, La terra del rimorso, considerata un classico dell’antropologia e dell’etnologia, Ernesto De Martino spiega che il maggior coinvolgimento delle donne era riconducibile alle restrizioni e preclusioni a cui erano sottoposte in ambito sentimentale e sessuale. Alla musica, alla danza e ai colori vengono attribuiti un’efficacia terapeutica ed esorcistica che consente di fronteggiare il morso del ragno, sintomo di una crisi che riguarda, in prevalenza, la componente femminile della società (De Martino 2023).
Il connubio tra femminile e arti magiche rappresenta un’associazione simbolica che, ancora oggi, nell’opinione comune e nell’immaginario collettivo, affiora in modo quasi spontaneo. Ciò che renderebbe la donna particolarmente incline alla magia risiederebbe nella sua peculiarità corporea: secondo Marcel Mauss «i mestrui, le azioni misteriose del sesso e della gestazione non sono che i segni delle qualità loro attribuite» ed è proprio durante questi periodi della vita che le capacità magiche femminili sono potenziate (Mauss 1991: 23, 122). Nel 1959, in Sud e magia, De Martino annota come l’uomo, per la sua maggiore libertà sociale, può affidare la riuscita dei suoi disegni a mezzi più realistici e alle forme normali del corteggiamento; la donna, invece, per la sua condizione di elemento tradizionalmente passivo e per il rigore delle usanze, si affida più facilmente ai filtri amorosi e agli incantesimi, soprattutto per custodire le nozze e la consumazione del matrimonio, per proteggere la gravidanza e i neonati, esposti non solo a fame, malattie e miseria, ma anche a invidie e rivalità (De Martino 1983: 17-20). Su tutto aleggia il potere della “fascinazione”, una forza occulta e soggiogante che può assumere, tra le varie forme, quella del malocchio, in caso provenga da uno sguardo ostile, fino ad arrivare alla temibile “fattura a morte” che presuppone un rito intenzionale e strutturato.
Nell’ambito della storia europea, si sono sempre delineate notevoli differenze tra l’uomo e la donna nel modo di praticare la magia e nelle finalità per cui veniva messa in atto. Qualsiasi rito compiuto dal mago rinascimentale, ad esempio, presuppone un sapere onnicomprensivo, codificato astrologicamente, strutturato secondo complesse catene di richiami simbolici e presenta stretti legami sia con le tecniche che con la scienza. La magia, infatti, nel suo essere “arte del fare”, opera in modo analogo alla medicina, alla meccanica, alla chimica. La “magia maschile”, nell’intento di conoscere la natura per dominarla, mette assieme un pionieristico repertorio di tipo astronomico, fisico e naturalistico. In questa prospettiva, «la magia ha nutrito la scienza e i maghi hanno fornito gli uomini di scienza» (Mauss 1991: 23, 122). Nel Rinascimento, infatti, chi si dedica alla magia è ritenuto il sapiente per eccellenza, poiché essa racchiude in sé e porta a compimento tutte le discipline.
Se, per il mago, il sapere è potere, non si può affermare altrettanto per ciò che riguarda la donna. Benché la conoscenza di erbe, filtri e incantesimi da parte delle streghe sia indubitabile, tuttavia essa non sembra acquisita attraverso la via dello studio utilizzata dagli uomini. La donna che si dedica alle arti magiche non ha bisogno di studiare la natura per impadronirsi dei suoi segreti: possiede già questo sapere, quasi corporalmente, attraverso un legame con la Terra che presenta un carattere fortemente ancestrale. La strega è la donna che, quindi, non conosce razionalmente, ma “sa” intimamente i cicli cosmici e, nell’azione magica, sfrutta tali ritmi in modo istintivo e immediato. Gli stessi maghi e filosofi del Rinascimento, d’altra parte, dichiarano la loro estraneità al mondo magico delle donne e ne prendono le distanze in modo netto: Cornelio Agrippa afferma, nel 1510, che «sono note le depravazioni della stregoneria, in cui la debolezza e la follia femminile sogliono tradurre in atto vergognosi eccessi» (Agrippa 1972: 4-6); analogamente, Giordano Bruno precisa, nel 1589, che la magia è scienza di persone intellettuali che nulla hanno a che vedere con il sabba, i diavoli e quella che, in generale, egli definisce come la “magia dei disperati” (Bruno 2000: 35-39)
La “magia femminile”, dunque, non appare colta e riguarda soprattutto chi, nella società europea, ha un ruolo marginale. Relegata dietro le quinte della storia, la donna utilizza i saperi nascosti della magia per esercitare un potere di scelta e decisione sulla propria sopravvivenza, sulla propria prole e sulla propria vita affettiva e sessuale. Tale sapere non si basa sulla tradizione codificata nei libri, ma su quella trasmessa oralmente, da una generazione femminile all’altra, al di fuori di istituzioni e riconoscimenti ufficiali. Un esempio significativo è quello di Gostanza, guaritrice e levatrice della Toscana rinascimentale, sottoposta a un processo per stregoneria dall’Inquisizione e, alla fine, lasciata libera. Rimasta vedova e in difficoltà economiche, Gostanza si trova in una situazione contradditoria: donna sola ed emarginata, ma, nonostante questo, dotata anche di una certa influenza e di un ambiguo prestigio che le derivano dalle sue, vere o presunte, capacità taumaturgiche. Una figura alla quale molti sono spinti a rivolgersi nei momenti di maggiore necessità, come i parti o le malattie, ma che, proprio per questo suo ruolo, suscita timore e diffidenza nella comunità in cui vive (Cardini 1989). D’altra parte, chi ha la prerogativa di dare la vita, e in questo caso, anche di guarire, può sempre procurare il suo contrario, ossia la morte.
Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023
[*] La manifestazione è stata promossa dal Museo delle Religioni “Raffaele Pettazzoni” con il patrocinio dei comuni di Ariccia e Velletri. Hanno collaborato all’organizzazione dell’iniziativa l’Associazione Italiana di Cultura Classica – Delegazione “Antico e Moderno” e l’ISMEO – Associazione Internazionale di Studi sul Mediterraneo e l’Oriente. I seguenti enti culturali hanno conferito il loro patrocinio: Associazione Italiana di Sociologia – Sezione di Sociologia della Religione; Fondazione “Ignazio Buttitta”; ICSOR – International Center for the Sociology of Religion; Scuola di Specializzazione in Beni Demoetnoantropologici dell’Università degli Studi di Perugia; SIAC – Società Italiana di Antropologia Culturale; SISR – Società Italiana di Storia delle Religioni. La direzione scientifica del Festival era a cura di Igor Baglioni, direttore del Museo delle Religioni “Raffaele Pettazzoni”.
Il primo testo è a firma di Michela Buonvino, il secondo è di Beatrice Ugolini.
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Michela Buonvino, dottoressa di ricerca in M-DEA/01 (Sapienza Università di Roma), è attualmente cultrice della materia. Dal 2018 porta avanti una ricerca sul campo a Sefrou e a Fès (Marocco). La sua tesi di dottorato concerne le relazioni tra performance culturali, politiche dell’identità e processi di formazione di una sfera pubblica islamica nel Marocco contemporaneo. Si occupa, inoltre, di processi di patrimonializzazione, eventi festivi, pratiche religiose e migrazioni. Dal 2017 svolge una ricerca sul campo presso la comunità peruviana di Roma, indagando i nessi tra esperienze di fede e traiettorie della migrazione.
Beatrice Ugolini, dottoressa di ricerca in “Teorie del diritto e della politica”, è docente a contratto presso l’università “N. Cusano”. Laureata in Filosofia e specializzata in Criminologia, è stata docente a contratto in “Metodologia della ricerca filosofica” presso l’Università di Bologna, con seminari riguardanti la storia della magia. Si occupa di riti e simboli, in particolare di tipo esoterico, e di culti distruttivi. È socia della Società Italiana di Criminologia, della AIS-sezione Sociologia della religione e dell’International Center for the Sociology of Religion.
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