Il canto
Le passioni che conducono gli Achei nella piana di Troia a vendicare l’offesa recata da un figlio di Priamo a Menelao sovrano, saranno «anche in futuro, / per la gente di là da venire, materia di canto» [1].
Che cosa narra tale canto? Narra degli umani che sono incapaci «di vedere insieme il prima e il dopo» (II, 343; 143) mentre sapienza e saggezza consistono anche nel sapere «le cose che furono, sono e saranno» (I, 70; 121). Gli umani costituiscono la fragilità stessa della materia, sono come foglie che «il vento ne sparge molte a terra, ma rigogliosa la selva / altre ne germina, e torna l’ora della primavera: / così anche la stirpe degli uomini, una sboccia e l’altra sfiorisce» (VI, 147-149; 383). Tutte le generazioni rimangono composte da «miserabili, che simili a foglie una volta si mostrano / pieni di forza, quando mangiano il frutto dei campi, altra volta cadono privi di vita» (XXI, 464-466; 1093). Ciò accade perché «gli dei stabilirono questo per gl’infelici mortali, / vivere in mezzo agli affanni; loro invece sono sereni» (XXIV, 525-526; 1249). E dunque «non c’è niente di più miserevole di tutti gli uomini fra tutti gli esseri / quanti respirano e arrancano sulla faccia della terra» (XVII, 446-447; 925).
Di tale condizione affannata, effimera e miserabile, l’Iliade mostra forme, ragioni e struttura. Esse si condensano nel πόλεμος, nel conflitto che – afferma Eraclito – è «πάντων μὲν πατήρ ἐστι, πάντων δὲ βασιλεύς, καὶ τοὺς μὲν θεοὺς ἔδειξε τοὺς δὲ ἀνθρώπους, τοὺς μὲν δούλους ἐποίησε τοὺς δὲ ἐλευθέρους, origine di tutte le cose, padre di ognuno, capace di disvelare gli umani e gli dèi, capace di rendere liberi e servi» [2].
La guerra intride quindi tutto. È uno dei due archetipi che fondano la letteratura europea, l’altro è il viaggio, è l’Odissea.
La guerra. Rovinosa (κακοιο, II, 284; 137) e terribile (κακόν, XIII, 225; 692). Che fa ribollire il fiume Xanto «di spuma, di sangue e di morti» (XXI, 325; 1083), che eleva al cielo e ovunque «il lamento e il tripudio degli uomini / che uccidevano ed erano uccisi, grondava di sangue la terra» (IV, 450-451; 299 e VIII, 64-65; 451). In questo poema i guerrieri muoiono a frotte, con estrema facilità, in poco tempo colpiti e annientati da chi è più abile di loro, vale a dire da coloro la cui mano è guidata dalla volontà di qualche dio. Guerrieri che non vorrebbero morire, che arrivano a temere la fine sino a fuggire, mandando in malora onori e obiettivi, «a tutti un tremore prese le membra, / e si studiava ognuno da che parte sfuggire a morte immediata» (XIV, 506-507; 773). Morire, infatti, vuol dire andare nell’Ade, «dimora umida, spaventosa, di cui pure gli dei hanno orrore» (XX, 65; 1029).
Guerrieri la cui ψυχή facilmente li abbandona, uscendo dalle ferite aperte dal bronzo, lasciando soltanto una tenebra. Perché in Omero ψυχή non vuol dire per nulla anima o qualcosa di simile ma significa semplicemente la vita, l’indistinta unità del corpomente che esiste nello spazio e nel tempo.
Omero non è un ‘primitivo’ rispetto alle successive elaborazioni teoretiche di Platone. Una lettura attenta delle concezioni del mentale nell’Iliade, nell’Odissea e nei tragici mostra, al contrario, che «i nostri modelli mentali potrebbero esser più vicini alla poesia epica greca che alla filosofia greca» [3].
La ragione è abbastanza chiara e consiste nella profonda unità psicosomatica dei personaggi omerici, la cui identità «è interamente corporea o fisica» [4]. Nessun dualismo tra σῶμα e ψυχή agita la vita, le passioni, le decisioni dei guerrieri che combattono sotto Troia né quelle di Odisseo. I mortali sono tali – βροτοί – in opposizione agli Ἀθάνατοι, gli immortali – proprio perché la loro esistenza si conclude con la morte. Essi sono «Leib ganz und gar; corpo in tutto e per tutto» [5], sono enti che abitano il tempo che la Necessità ha loro concesso, sono esseri incarnati, collettivi e temporali, «la loro vita è per il qui e ora» [6]. Ciò che di tali personaggi rimane dopo il morire è un triste ologramma, un’ombra inconsistente. La ψυχή omerica è questo spettro; il sé non coincide con essa ma con il θυμός, con l’‘animo’, con l’energia del corpo, il respiro dei polmoni, con la consapevolezza che il corpo ha di esserci.
Si tratta di qualcosa di simile al sé nucleare di cui parla Antonio Damasio, una descrizione ancora non verbale – pur se consapevole – delle relazioni fra l’organismo e un qualsiasi altro ente. Senza Körper non si dà coscienza nucleare e senza quest’ultima non c’è coscienza estesa, non si dà Leib, non c’è il corpo consapevole di sé [7]. Un sé che esiste e funziona in relazione all’intera corporeità e a ciascuno dei suoi organi. Ancora una volta si tratta di una totalità psicosomatica.
Spinti e determinati dalla potenza del σῶμα / ψυχή, i guerrieri omerici piangono spesso, con voluttà, senza alcuna vergogna, come accade anche nel conclusivo dialogo tra Priamo e Achille: «Immersi entrambi nel ricordo, l’uno per Ettore massacratore / piangeva a dirotto prostrato ai piedi di Achille, / mentre Achille piangeva suo padre, ma a tratti anche Patroclo: il loro lamento echeggiava per la casa» (XXIV, 509-512; 1247). Un pianto che tutti accomuna e dopo il quale l’uccisore del figlio e il padre dell’ucciso gustano infine «il piacere di guardarsi l’un l’altro» (XXIV, 633; 1257).
Il conflitto è pertanto ovunque e universale. Non soltanto tra nemici di stirpe e di terre ma anche all’interno delle stesse comunità, famiglie, tribù. Il risentimento e l’ira di Achille verso Agamennone sono ben noti. Meno lo è quanto Ettore dice a proposito del fratello Alessandro Paride, fonte per Ilio di tante sciagure: «Se lo vedessi discendere dentro i recessi di Ade, / direi che un brutto malanno avrebbe scordato il mio cuore» (VI, 284-285; 395).
Odio e vendetta sono per queste culture realtà del tutto ovvie e naturali. E questo vale per l’intera Grecità, da Omero ad Aristotele, secondo il quale «τὸ τοὺς ἐχθροὺς τιμωρεῖσθαι καὶ μὴ καταλλάττεσθαι· τό τε γὰρ ἀνταποδιδόναι δίκαιον, τὸ δὲ δίκαιον καλόν, καὶ ἀνδρείου τὸ μὴ ἡττᾶσθαι. καὶ νίκη καὶ τιμὴ τῶν καλῶν· αἱρετά τε γὰρ ἄκαρπα ὄντα, καὶ ὑπεροχὴν ἀρετῆς δηλοῖ. vendicarsi dei nemici è più bello anziché riconciliarsi; infatti è giusto il ricambiare, e ciò che è giusto è bello, ed è proprio di un uomo valoroso il non lasciarsi sopraffare. Vittoria e onore sono tra le cose belle: esse sono preferibili, anche se infruttuose, e manifestano una superiorità di virtù» [8].
Nell’Iliade la ferocia è continua. Non è davvero possibile definire i Greci (almeno quelli omerici) ‘umanisti’, quando nel poema si descrivono come del tutto comuni i sacrifici umani; Achille sgozza sulla tomba di Patroclo dodici ragazzini troiani fatti da lui prigionieri a tale scopo: «Con me rallegrati, Patroclo, sia pure in casa di Ade: / perché manterrò tutto quello che poco fa t’ho promesso, / di trascinare Ettore qui e darlo crudo in pasto ai cani, / di sgozzare davanti al tuo rogo dodici figli scelti / dei Troiani, perché sono adirato che t’abbiano ucciso» (XXIII, 19-23; 1147). Achille non ha nessun rispetto per il cadavere di Ettore, che non soltanto viene da lui trascinato ogni giorno nella polvere ma che gli altri guerrieri colpiscono ridendo: «eppure nessuno s’accostò senza colpirlo. / E così ciascuno diceva rivolto al vicino: ‘Ehilà, adesso a toccarlo è molto più morbido Ettore, di quando appiccava alle navi il fuoco vorace!’» (XXII, 371-374; 1133). Ettore, da parte sua, vorrebbe di Patroclo ucciso «issarne / la testa mozzata dal tenero collo sulla punta d’un palo» (XVIII, 176-177; 961).
Per cercare di comprendere un mondo e delle culture così complesse e così lontane dalla sensibilità contemporanea, come esse emergono dal poema omerico, bisogna in ogni caso ricordare che è in gran parte con l’Iliade che nasce non soltanto la vicenda letteraria dell’Europa ma anche e soprattutto l’autocomprensione dei popoli mediterranei.
Per capire è dunque necessario allontanarsi dalla scrivania e percorrere non soltanto i luoghi dove il poema è ambientato – lo stretto dei Dardanelli, l’Egeo, l’attuale costa occidentale della Turchia – ma anche i territori abitati da popoli asiatici che ancora oggi raccontano e declamano oralmente le proprie storie, vicende, credenze e tradizioni. Perché è così che secondo Robin Lane Fox è nata l’Iliade, dalla recitazione di varie versioni del poema «per un uditorio residente nella Ionia o nei suoi immediati dintorni, sulla costa egea dell’attuale Turchia» [9].
Anche per questo il primo criterio ermeneutico proposto da Lane Fox consiste nell’accostarsi alle vicende narrate nell’Iliade non come lettori moderni che si limitano a leggere un testo nella solitudine dei loro studi ma nel modo in cui vennero sentite e accolte dai loro primi ascoltatori. Ascoltatori che udirono i canti dalla voce di una persona realmente esistita e vissuta nella Grecia orientale, da un solo autore e non da un gruppo di aedi.
Tra i numerosi indicatori a sostegno di tale ipotesi una della più significative è la «miscela di compressione e completezza narrativa, unita a un attento controllo dell’uso degli avvenimenti passati e futuri», mescolanza e struttura le quali non sono facilmente compatibili «con le teorie di una composizione frammentaria del poema» [10]. La composizione fu invece unitaria, orale, stratificata nel tempo e opera «di un Omero illetterato che, dopo aver imparato a comporre in versi sin da ragazzo, iniziò tra il 750 e il 740 a.C. circa a declamare una lunga Iliade in versioni sempre diverse, fino a dettarne una a beneficio della sua famiglia, il cui testo, a mio avviso, è alla base di quelli giunti fino a noi» [11].
Pertanto un autore, un luogo, un tempo e una modalità ben precise stanno all’origine del poema. Lo studioso ammette che si tratta sempre di ipotesi indiziarie, data la mancanza di documenti risolutivi, ma si tratta di ipotesi assai robuste, suffragate da una conoscenza veramente totale del testo di Omero, del suo greco che mescolava forme molto antiche ad altre più recenti e alle varianti proprie di numerosi dialetti greci.
È infatti da un’accurata analisi linguistica che Lane Fox trae le sue tesi. A quelle fondamentali sull’autore, il luogo e l’epoca, sono da aggiungere le ampie osservazioni sull’esattezza complessiva della topografia omerica e soprattutto sulla mescolanza di cui l’Iliade è fatta, quella che combina formule standard e continuamente ripetute con ciò che Omero vi ha aggiunto, con le varianti dell’arte, del talento, dell’invenzione individuali, facendo del poema il risultato di lunghe fasi di trasmissione, ricezione, modifica di leggende relative a un conflitto tra popoli dell’Oriente e dell’Egeo ma trasformandole poi in modo del tutto originale, in un racconto che descrive soprattutto la natura umana nelle sue costanti, nelle sue passioni, nelle sue rassegnazioni, nei suoi trionfi e nella sua tragedia.
Ed è soprattutto per questo che la lettura l’Iliade costituisce ragione e momento di fascino profondo e che, come già sostenne Senofane, tutti hanno imparato da Omero.
Che cosa si impara? Molto, davvero. Soprattutto si impara l’essenziale. Si impara che ciò che chiamiamo bene e male, colpa e merito, vizio e virtù, è uno strato superficiale e derivato di una natura umana che non soltanto è costituita e pervasa di passioni unitarie e comuni a tutti – a differenziarci è la loro diversa mistura in ciascuno di noi – ma che è soprattutto guidata da forze sulle quali gli umani non esercitano alcun controllo, la forza di Ἀνάγκη, della Necessità. Il principio, quasi propedeutico a ogni altro, che dietro gli eventi e le scelte degli umani operi sempre un intervento divino, si articola nei nomi plurali e fascinosi delle divinità olimpiche, tanto che è davvero facile vedere e mostrare come l’intera trama dell’Iliade sia «concepita e determinata non dagli uomini, ma dagli dèi» [12] e però tali divinità personali e plurali rimangono anch’esse, compreso Zeus, sottoposte al supremo ordine della Μοίρα.
Non si può comprendere nulla di questo mondo distante e disumano se non si ricorda a ogni istante che tutti i personaggi dell’Iliade sono in mano al volere degli dèi. Tutti. La presenza e il potere dei Numi sono pervasivi e assoluti. A loro vengono ascritti meriti, colpe, esiti.
Della sua ingiustizia verso Achille Agamennone afferma di non essere colpevole, poiché i responsabili sono «Zeus e la Moira e l’Erinni che vaga nel buio» (XIX, 87; 1001). Presaghi della fine del loro padrone, i cavalli di Achille dicono al loro signore che «certo, ti salveremo anche stavolta, Achille potente / ma t’è vicino il giorno fatale; e non siamo noi / i colpevoli, ma un grande dio e la Moira invincibile» (XIX, 408-410; 1023).
Moira ed Erinni, θάνατος καί μοῖρα κραταιή (XXIV, 132; 1220), ‘la morte e il duro destino’, sono i veri signori del poema. Più di Zeus, più di tutti gli altri immortali. Più di «Afrodite che ama il sorriso» (III, 424; 263 e XXI, 40; 1027). Più di «Dioniso, gioia dei mortali; ἣ δὲ Διώνυσον Σεμέλη τέκε χάρμα βροτοῖσιν·» (XIV, 325; 761). Più di tutti «gli dei che vivono lieti» (θεοί ῥεῖα ζῶοντες, VI, 138; 383), «gli dei beati che vivono eterni» (θεοί ἀιεν ἐοντες, XXIV, 99; 1219).
Signore della materia, della ψυχή e del mondo sono la Moira e «l’Erinni che vaga nel buio / […] col suo cuore spietato» (IX, 571-572; 531).
Ad agire sono quindi delle forze esterne e oggettive, che esprimono una civiltà della vergogna e non una civiltà della colpa, come ha ben chiarito Dodds. Civiltà per la quale ciò che conta non è la buona o la cattiva coscienza del soggetto ma il godere o meno della stima degli altri abitanti della πόλις [13].
I comportamenti e le decisioni degli eroi, compresi Ettore e Achille, sono infatti condizionati dal timore di perdere l’onore, il nome, la stima degli altri eroi. Ma questo elemento non è affatto limitato alla poesia epica o alle vicende di epoche remote: «Vergogna e fama, onore, rabbia e ignominia ci coinvolgono perché dominano ancora la nostra vita» [14]. Allo stesso modo la dominano la mescolanza di gentilezza e vendetta che caratterizza numerosi eroi del poema.
L’Iliade è davvero un canto immortale ed è di noi che sa sempre parlare. Chi combatte, domina e trionfa nella pianura sconfinata di Ilio? I guerrieri troiani e gli achei certo. Ma «erano in campo con loro la Furia, il Tumulto, la Morte funesta» (XVIII, 535; 989), gli elementi perenni dell’umana vicenda.
Anche per questo ha ragione Roger Garaudy ad affermare che ‘la storia è il rifiuto’. Per Alain de Benoist, che riporta questa affermazione enunciata durante un colloquio tra i due, le parole di Garaudy significano che «perdurano solo le realizzazioni metaforiche: Cesare appartiene al passato, non Omero» [15], il quale è invece talmente presente e vivo da offrirci ancora, dopo millenni, la verità e la saggezza della sua antropologia.
Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025
Note
[1] Omero, Iliade, introduzione e traduzione di G. Cerri; commento di A. Gostoli, Rizzoli, Milano 2008: VI, 358, p. 399. I riferimenti alle citazioni dal poema saranno inseriti nel testo, tra parentesi, con le seguenti convenzioni: libro, versi, numero di pagina dell’edizione utilizzata.
[2] Eraclito, Diels-Kranz: detto B53.
[3] A.A. Long, La mente, l’anima, il corpo. Modelli greci, trad. di M. Bonazzi, Einaudi, Torino 2016: 8.
[4] Ivi: 20.
[5] F.W. Nietzsche, Also sprach Zarathustra, I: Von den Verächtern des Leibes, Su coloro che disprezzano il corpo.
[6] A.A. Long, La mente, l’anima, il corpo, cit.: 28.
[7] Cfr. A.R. Damasio, Emozione e coscienza, trad. di S. Frediani, Adelphi, Milano 2003.
[8] Aristotele, Retorica: A, 9, 1367 a, 20 (trad. di A. Plebe).
[9] R. Lane Fox, Omero e l’Iliade, trad. di V. Palombi, Einaudi, Torino 2024: 65.
[10] Ivi: 78.
[11] Ivi: 487.
[12] Ivi: 377.
[13] Cfr. E.R. Dodds, I Greci e l’irrazionale, trad. di V. Vacca De Bosis, La Nuova Italia, Firenze 1978.
[14] R. Lane Fox, Omero e l’Iliade, cit.: 326.
[15] A. de Benoist, L’esilio interiore – Quaderni, trad. di A. Scarabelli, Bietti, Milano 2024: 124-125.
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Alberto Giovanni Biuso, professore ordinario di Filosofia teoretica nel Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania, insegna Filosofia teoretica, Metafisica e Filosofia delle menti artificiali. Ha anche insegnato Epistemologia, Sociologia della cultura e Storia dell’estetica. È collaboratore, redattore e membro del Comitato scientifico di numerose riviste italiane ed europee. È direttore scientifico della rivista Vita pensata. Tema privilegiato della sua ricerca è il tempo, in particolare la relazione tra temporalità e metafisica. Altri temi di cui si occupa sono: la mente come dispositivo semantico; la vitalità del pensiero classico greco e romano; le strutture ontologiche delle intelligenze artificiali; la questione animale come luogo di superamento del paradigma umanistico. Il suo libro più recente è Ždanov. Sul politicamente corretto (Algra Editore, 2024). Il suo sito web è www.biuso.eu.
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