di Francesca Maria Corrao
Il poeta indiano Arvind Krishna Mehrotra osserva che per un poeta la cultura, la storia e la geografia del luogo sono tutto. Per Adonis, il celebre poeta siriano, nell’esilio la lingua è la sola patria che resta. Queste riflessioni mi convincono a scrivere questi nuovi appunti di viaggio. Osservare il mutare dei luoghi aiuta a comprendere il contesto in cui maturano i repentini cambiamenti che sconvolgono l’inizio del millennio.
Per spiegare agli studenti del corso sulla storia del Mediterraneo alcuni effetti del colonialismo ho usato un brevissimo video in cui si vedono i palazzi del Cairo del primo ‘900. La città era considerata al pari delle altre grandi capitali europee; la comunità internazionale che viveva in Egitto attirava l’élite intellettuale occidentale ed ispirava tanti letterati: da Durrell a Marinetti, il poeta nato ad Alessandria come Ungaretti. I nostri giornali dell’epoca davano notizia della ricchezza intellettuale dell’altra sponda del Mediterraneo (come anche la penna dello stesso Ungaretti). Molti spettacoli dell’Opera del Cairo da noi erano noti sia perché coinvolgevano autori, come Verdi, di fama internazionale sia perché vi lavoravano artigiani ed esperti provenienti dall’Italia o dalla Francia. Dopo l’11 novembre le notizie dei nostri media sul Medio Oriente riguardano quasi esclusivamente i terroristi e i prezzi del petrolio.
Ho provato una grande nostalgia negli ultimi anni nel tornare al Cairo, perché quei luoghi sono scomparsi. I palazzi del centro della città, offuscati da nuove costruzioni, erano ancora più decadenti di quanto già non lo fossero quando negli anni ’70 studiavo all’Università americana. La geografia architettonica di allora ricordava quella di tante città europee a me care, Parigi, Londra, Roma. Bastava poi spostarsi dal centro commerciale verso il cuore pulsante dell’antica città per trovare le moschee e gli edifici monumentali medievali: il quartiere di al-Azhar, la moschea università fondata nel X secolo, per conto della dinastia fatimide, da Jawhar il siciliano, contestualmente alla città del Cairo.
Il dedalo di viuzze su cui si affacciavano negozi esotici di spezie e tessuti era un’affollata vetrina di prodotti artigianali locali; nel retro, alle spalle delle botteghe, lavoravano argentieri, profumieri, tessitori, sarti e lo stretto spazio era condiviso con tanti altri operai e operatori del frenetico mondo del commercio. Artisti e poeti si incontravano negli storici bar del centro: il caffè Riche, al-Nil, Groppi, o il più turistico al-Fishawi. Si discuteva su argomenti di attualità, si leggevano pagine di romanzi, e talvolta qualcuno recitava poesie.
Adesso il turismo intellettuale si incontra per lo più nelle case private o partecipa agli incontri organizzati alla Nuova Fiera del Libro, lontana chilometri da quel mondo e staziona in alberghi in stile finto orientale di gusto nordamericano. Lì, in un nuovo quartiere che ricorda Riyadh, come Istanbul o Sharjah si incontrano scrittori, artisti e tante persone la cui vita ruota intorno al mondo della cultura. Gli eventi pubblici offrono l’occasione di dibattere su vari temi che variano dalla letteratura, prosa o poesia, alla saggistica di carattere scientifico. La presentazione dei libri di storia può stimolare il dibattito politico ma non si parla mai in modo diretto di argomenti legati all’attualità, specie se divisivi.
I palazzi ricordano le architetture moderne a cui siamo abituati da decenni; originali forme geometriche spaziali di cemento, vetro e specchi si stagliano alti verso il cielo, mentre a terra i marciapiedi mantengono quella provvisorietà tipica di luoghi dove lo spazio pubblico non è ancora sentito come un bene comune. I giardini sono privati, e mostrano solo le cime degli alberi nascosti dalle alte mura che proteggono abitazioni fastose decorate da colonnati classicheggianti.
Le capitali del Medio Oriente si estendono negli spazi infiniti rubati al deserto, o alla campagna, e il loro rapporto con la storia coloniale ottocentesca sembra un lontano ricordo. Il modello corrente è nordamericano; i grattacieli mirano alle altezze più sfidanti, e tutti i progetti del prossimo futuro immaginano smart cities.
Le periferie dove si accalcano i profughi e i rifugiati in fuga dalle guerre sono molto lontane dall’orizzonte dei visitatori, e i percorsi sono diversi; a meno di recarcisi appositamente guidati da esperti locali è difficile imbattersi in aree circondate dal filo spinato che “protegge” le baracche di sopravvivenza di diverse decine di migliaia di esseri umani. Se si entra nel vivo della convulsa vita cittadina si scopre che, a Istanbul come al Cairo, la gente, che svolge doppi e tripli lavori per sbarcare il lunario, si affolla sui mezzi pubblici per correre da un luogo all’altro.
Quando si arriva ad Istanbul di sera lo skyline illuminato evoca ancora gli antichi splendori della capitale ottomana, e subitaneamente le ampie corsie autostradali che portano dai nuovi quartieri residenziali confluiscono nelle vecchie stradine del porto. Lì continua a pulsare la vita notturna con i tanti giovani che frequentano le università, sia pubbliche che private.
Sono a Istanbul per concludere un accordo di studi con una moderna Università locale. Il nuovo corso di laurea ha al centro il tema dell’immigrazione ed affronta le numerose questioni che riguardano gli aspetti legali, umanitari, securitari e i processi di integrazione. Le testimonianze dei colleghi provenienti dai Balcani offrono un quadro piú drammatico di quanto non rivelino i media nostrani. Il confronto tra le diverse realtà è un’utile occasione di dialogo tra politiche a volte contrastanti. L’obiettivo dell’incontro è proprio quello di mettere insieme prospettive scientifiche diverse per avere una visione adeguata per meglio comprendere una situazione molto complessa.
Nel salone del convegno collegato al tema dell’evento troneggia la figura ieratica di Ataturk. La relazione di uno storico conferma che lo studio del passato si presta a capire e spiegare meglio il presente. Una nuova interpretazione degli eventi occorsi secoli orsono denuncia le manipolazioni di certe letture del passato, sia ad Occidente che ad Oriente. Gli ottomani nella storia non sono quelli che crediamo di conoscere ancora oggi. Ad esempio, il sultano Sulayman, protagonista della famosa soap-opera turca, il Magnifico, non è solo il feroce guerriero vittima della regina del suo harem, come farebbe credere il bell’attore televisivo. Sulayman era un uomo di grande cultura, capace di espandere un grande impero dotandolo di una grande flotta e di una solida amministrazione centrale. Anche le riforme attuate nel ‘decadente’ sistema ottomano del XIX secolo erano molto più innovative e liberali di quelle attuali.
La Turchia è un grande Paese attraversato sempre da diverse correnti di pensiero, e molti al suo interno si adoperano oggi in ogni modo per restare vicini all’Europa. Il mondo cambia rapidamente e anche se le forze divisive mirano a distruggere le grandi conquiste del secolo passato, il corso della storia non si ferma. Alcuni colleghi mi ricordano che anche piccoli gesti contano; sino ad un paio di decenni fa esporre in pubblico la foto di Ataturk sembrava anacronistico; e invece oggi il ritratto del grande Capo di Stato diventa un simbolo che allude alla ferma volontà di difendere una visione politica occidentalizzante contraria al conservatorismo religioso.
Per strada, di giorno, la crisi economica si palesa nel nervosismo diffuso, negli sguardi tesi dei cittadini, nelle botteghe vuote dei commercianti, nell’esasperazione di quanti non riescono a salire su autobus sempre più affollati e rari. I 4 milioni circa di rifugiati dalle guerre del Medio Oriente sono lontani dal centro nevralgico della città, eppure la loro presenza si percepisce nel disagio delle periferie e si manifesta, anche se in modo più sporadico, nei piccoli commerci ed anche nelle aule universitarie. Mi è capitato di incontrare studentesse iraniane fuggite dalla follia del regime e giovani siriani scappati dalla guerra civile, desiderosi di costruire per sé e per i loro cari un futuro migliore grazie allo studio. Si può fare tanto per questi studenti, che hanno bisogno di borse di studio; l’UNHCR e molti atenei italiani, primo tra questi la Luiss, ne hanno accolti numerosi anche grazie alla generosità della Fondazione Mediterraneo Terzo Pilastro. Tanti piccoli sforzi si sommano, mirati ad estendere la preziosa attività dei corridoi universitari, e di diffonderli anche in altri Paesi europei.
La vita degli stranieri è diversa; viaggiano in taxi e su percorsi privilegiati, e dopo aver visitato le bellezze del Bosforo ripartono dal nuovo aeroporto. Anche la nuova aerostazione rispecchia lo spirito commerciale del Paese e si aggiunge a quella intitolata ad Ataturk, che peraltro era ben collegata con la città da un comodo treno. Questo nuovo simbolo della Turchia moderna è un importante nodo di scambio di voli internazionali, e si presenta come un sterminato hangar arredato come le grandi arterie dello shopping delle capitali occidentali: una lunga galleria di negozi dalle vetrine sfolgoranti che creano l’illusione di un benessere alla portata di tutti.
La tappa successiva dei miei viaggi mi ha portata a Dubai; qui la scena si ripete: luci e smaglianti colori danno la sensazione che tutto sia facile e glamour. Le autostrade a dieci corsie non riescono ad assorbire il fiume ininterrotto di auto che attraversano da nord a sud gli emirati. Svettanti grattacieli annunciano che anche qui la cultura di riferimento si trova oltre oceano. I mezzi pubblici e i marciapiedi sono pressoché inesistenti, e chi non ha l’auto o la moto va in bicicletta.
I sette emirati sono piccoli regni, ma potenti grazie all’oro nero, e concentrano i loro sforzi nel promuovere la diplomazia del soft power: dalla dichiarazione congiunta di Papa Francesco e dello Shaykh di al-Azhar, all’Expo di Dubai sino agli accordi di Abramo e alla Cop28. Una popolazione multiculturale che vive in un clima di tolleranza integrato da una forte promozione degli studi – la densità di università straniere e locali presenti nel territorio è molto alta – e della cultura grazie ai musei e alle importanti fiere del libro. Gli emiratini godono di importanti privilegi che in parte condividono con gli stranieri di classe più elevata, ad esclusione della cittadinanza. La gran parte degli immigrati vive divisa in comunità poco comunicanti tra di loro.
Alla Fiera del libro di Sharja partecipano intellettuali provenienti da tutto il mondo arabo, ma non solo. Gli stand ospitano un gran numero di case editrici che realizzano alti fatturati in un Paese dove la lettura è tenuta in grande considerazione. Partecipo all’evento promosso dall’Accademia della Lingua araba ai margini di un incontro internazionale di studiosi di arabo (di cui parla su questo stesso numero un articolo di Mion).
La Fiera è inaugurata da uno spettacolo che coniuga insieme l’alta ingegneria dell’intelligenza artificiale con le parole del grande narratore del deserto libico Ibrahim al-Kuni. L’ambizioso progetto culturale dello Shaykh al-Qasimi vuole coniugare la tradizione con l’innovazione; intellettuale raffinato, guida Sharja sovvenzionando l’Università, e promuovendo sia studi coranici che ricerche di più ampio raggio che vanno dal teatro (lui stesso è autore di diverse pièce teatrali) alle tecnologie più avanzate.
Per facilitare il dialogo tra le diverse sponde, nel mio intervento inaugurale all’Accademia parlo della Sicilia araba e dell’eredità cosmopolita e tollerante lasciata da Federico II. Memorie preziose in un Medio Oriente devastato dalle guerre. In quest’oasi di pace arrivano lontani gli echi delle tensioni violente che scuotono la regione. Sui giornali locali si richiamano le guerre solo per parlare dei cospicui aiuti umanitari inviati alle vittime. Tuttavia, i valichi verso le zone di conflitto sono per lo più chiusi, ma tra le notizie di questo non si parla.
Si cerca invece soprattutto il dialogo, anche se questo a volte è fatto di silenzi. In questo luogo di incontro tra Oriente e Occidente, la convivenza tra popoli diversi si riflette anche nella pluralità di stili che si manifesta nell’architettura. La tradizione orientale sopravvive soprattutto nelle moschee e in alcuni alberghi dalle strutture vagamente ispirate ad un esotismo diluito in uno stile che talvolta evoca il ricordo di certo orientalismo. Molti edifici sono firmati da importanti architetti stranieri, tra cui la celebre irachena Zaha Hadid. Lo stesso pluralismo si trova nelle diverse cucine etniche, che accontentano tutti i gusti; un’arte minore, tuttavia, capace di dimostrare che la creatività umana è capace di armonizzare elementi disparati che hanno provenienze molto lontane.
Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024
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Francesca Maria Corrao, ordinario di Lingua e Letteratura Araba, alla Luiss Guido Carli Roma, ha studiato in Italia e al Cairo la cultura del mondo arabo e islamico. Tra le sue pubblicazioni numerosi articoli in sedi internazionali e nazionali e gli approfondimenti su: La rinascita islamica (ed. Laboratorio antropologico, Università di Palermo 1985); Poeti arabi di Sicilia (Mondadori 1987, Mesogea 2001) Le storie di Giufà (Mondadori 1989, Sellerio 2002), Adonis. Ecco il mio nome (Donzelli 2010), Le rivoluzioni arabe. La transizione mediterranea (Mondadori università 2011). Assieme a Luciano Violante ha recentemente curato il volume edito per i tipi de Il Mulino L’Islam non è terrorismo.
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