di Elio Rindone
Le riflessioni che seguono vogliono illustrare, in un percorso che procede per brevi e asciutti paragrafi, il legame che, nella tradizione greco-latina e in quella ebraico-cristiana, unisce termini fonda- mentali dell’esperienza religiosa, quali Dio, sacro, conversione… Partendo dalla etimologia del termine ‘sacro’, ne proporrò una definizione che sboccherà poi in un’interpretazione d’insieme certo opina- bile, che proprio per questo potrà essere oggetto di un confronto con altre opinioni e in particolare, c’è da augurarselo, con quelle provenienti dalla tradizione islamica.
L’etimologia
La parola ‘sacro’ deriva dalla radice indoeuropea ‘sak’, da cui il latino ‘sacer’, che designa una realtà che incute timore e a un tempo attrae. Simile è il significato del termine ebraico “qàdòs”, traducibile sia con sacro che con santo, considerati sinonimi, e che deriva dal verbo “qd”: separare, mettere da parte per introdurre in una sfera superiore, divina e perciò capace di attrarre e di intimorire. Nelle più antiche tradizioni religiose il sacro è spesso associato al fuoco: qualcosa che affascina per il suo splendore ma che tuttavia non può essere toccato e suscita timore per la sua potenza distruttiva. Nel libro dell’Esodo, per esempio, l’esperienza del sacro è espressa con l’immagine di un roveto che «ardeva per il fuoco, ma quel roveto non si consumava»(3,2): Mosè, attratto da quella luce abbagliante, non può tuttavia avvicinarsi, anzi è costretto a coprirsi «il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio» (3,6).
Una definizione
Col termine ‘sacro’ si designa quindi una cosa che appare degna di assoluto rispetto e venerazione e che, al contempo, suscita timore. Tradizionalmente questa realtà assoluta è stata designata col termine ‘Dio’ o ‘divino’ (to theion indica appunto qualcosa che ha un valore assoluto), e quindi possiamo dire che il sacro è ciò che ha a che fare con la sfera del divino. In questo contesto il termine ‘Dio’ è usato con un significato ben preciso: quello definito da Paul Tillich (1886-1965), un teologo evangelico che militò dapprima nella corrente del “socialismo religioso”, insegnando in diverse università della Germania; quindi, all’avvento del nazismo, fu rimosso dalla cattedra e riparò negli Stati Uniti d’America, dove operò fino alla morte nelle università di Columbia, Harvard e Chicago. «‘Dio’ – dice Tillich (1970:105) – è la risposta alla domanda che soggiace alla finitudine dell’uomo; è il nome di ciò che preoccupa l’uomo ultimamente. Ciò non significa che anzitutto c’è un essere chiamato Dio e che in seguito c’è l’esigenza che l’uomo sia preoccupato ultimamente a suo riguardo. Ciò significa che tutto ciò che preoccupa ultimamente l’uomo diventa per lui Dio e, inversamente, ciò significa che l’uomo non può essere preoccupato ultimamente che da ciò che per lui è Dio».
Epifania del sacro
La sfera del sacro, dunque, si può identificare con la sfera del divino, tanto che anche di esso si può dire che solo il sacro può preoccupare l’uomo ultimamente e che solo ciò che preoccupa l’uomo ultimamente è qualcosa di sacro. Là dove il divino si manifesta appare perciò un dominio sacro: luoghi, oggetti, istituzioni, in quanto sono in relazione con l’assoluto, acquistano un valore sacro. Ma essi non sono sacri in se stessi e di per sé: lo sono in quanto rimandano al divino di cui sono intermediari. Di tutto ciò troviamo numerosi esempi nella tradizione culturale dell’Occidente. Il mondo con le sue meraviglie appare ai greci esso stesso una manifestazione divina, tanto che a Talete la tradizione attribuisce la tesi secondo cui «tutto è pieno di dèi». Un prato ricoperto di soffice erba, su cui è gradevole riposare all’ombra di un platano e nei cui pressi scorre un ruscello, per la sua incantevole bellezza appare al Socrate platonico certamente abitato da esseri divini, a cui rivolgere una preghiera: «O caro Pan, e quanti altri dèi qui dimorate, fate che io sia bello di dentro»(Fedro 279 b). Similmente nella Bibbia si legge che un determinato luogo acquista un valore sacro perchè legato a una esperienza particolarmente intensa del divino: Giacobbe «costruì un altare e chiamò quel luogo ‘El-Betel’, perché là Dio gli si era rivelato quando fuggiva lontano da suo fratello» (Genesi 35,7).
Il sacro e il secolare
Il sacro, infatti, si manifesta attraverso ciò che rientra nella sfera del quotidiano, di ciò che comunemente non viene con- siderato sacro ma mondano, secolare, profano. Realtà di per sé secolari acquistano per certi versi un valore sacro in quanto lo significano: i boschi sacri, i sacri altari, i sacri palazzi… Uno spirito religioso ritiene di cogliere la presenza del divino in tutto ciò che potrebbe apparire solo secolare. Irreligioso sarebbe invece, in quest’ottica, chi vede le cose solo per come appaiono: esse non rinviano più ad altro, sono percepite esclusivamente nella loro dimensione secolare ed escludono ogni apertura nei confronti del divino.
Il sacro e il demoniaco
Ma questo dell’irreligiosità non è l’unico pericolo avvertito da chi considera fondamentale l’esperienza del sacro: c’è anche l’errore opposto di chi sacralizza ciò che sacro non è. I mezzi, infatti, possono trasformarsi in fini, presentare se stessi come sacri, e allora diventano demoniaci: cioè sacri in quanto vengono assolutizzati, ma proprio perciò anti-divini. Infinite cose possono parlare del divino, in quanto orientano verso qualcosa che le supera, ma tutte diventano oggetto di un culto idolatrico se pretendono per se stesse l’adorazione dell’uomo. Tutto ciò che può suscitare ammirazione o timore, una nazione o una chiesa, se diventano il valore supremo e subordinano per intero a sé il cuore umano, divengono idoli. In effetti, nell’idolatria si cade tutte le volte che a una realtà, quale che sia, si attribuisce un valore in qualche modo assoluto: il proprio benessere egoistico, l’amor di patria, il dovere (e talvolta il termine ‘sacro’ è rafforzato con l’aggiunta di ‘santo’: i miei sacrosanti diritti).
La lotta contro l’idolatria
Contro gli idoli si sono sempre battuti gli uomini che non accettano l’assolutizzazione di ciò che è solo manifestazione del divino: dai profeti di Israele che denunciano i culti cananei della fertilità ai filosofi greci che demitizzano gli dèi dell’Olimpo, dai primi cristiani che rifiutano di sacrificare all’imperatore ai movimenti rivoluzionari moderni che combattono ogni potere divinizzato che opprime i deboli. Solo Dio è Dio e a lui solo è giusto rendere il culto dovuto. Con queste parole il Gesù dei vangeli respinge la tentazione dell’idolatria: «Il Signore, Dio tuo, adorerai:a lui solo renderai culto» (Matteo 4,10). Accusati spesso di empietà (accusa rivolta, significativamente, sia a Socrate che a Gesù), costoro sono in realtà mossi da autentico spirito religioso.
La religione
La religione, infatti, ha attinenza proprio col sacro, col divino. Nell’esperienza religiosa l’uomo ritiene di relazionarsi a una realtà ultima, qualcosa di sacro che lo interpella in modo assolutamente coinvolgente. Il sacro appare dunque come qualcosa che è capace di dare un senso al mondo e alla vita dell’uomo. Che il mondo e la vita umana abbiano un senso, infatti, non è per nulla scontato: l’esperienza del male incrina drammaticamente la fiducia in una realtà ricca di significato. Un teologo che a lungo ha insegnato filosofia della religione, ermeneutica filosofica e teologia sistematica nelle facoltà italiane della Compagnia di Gesù (della quale da tempo non fa più parte), Armido Rizzi (1995:22), scrive così: «Il male è il non-senso non come ipotesi esclusa ma come possibilità realmente e attivamente presente». Dal sacro, quindi, l’uomo attende salvezza, liberazione dal male.
La risposta
Il sacro, però, non solo interpella l’uomo con la sua offerta di senso e di salvezza ma anche esige da lui una risposta: esige di «accogliere il Senso in quanto donato e conformarvi la propria condotta» (ivi: 23). L’esperienza religiosa implica necessa- riamente, perciò, un atteggiamento di fiducia e una docile obbedienza. La prima, la fiducia nel fatto che la realtà abbia senso, viene coltivata nella vigilanza interiore, nella meditazione, nella preghiera contemplativa. La seconda, l’obbedienza, si esprime nell’agire morale, nell’operare per la giustizia, che della morale è il comandamento centrale e che trova la sua motivazione nell’amore, percepito come «partecipazione alla benevolenza divina verso gli umani» (ivi :60). Atteggiamenti che non sono affatto esclusivi della tradizione cristiana, e infatti nel mondo classico, per esempio, Platone presenta Socrate che, assorto in una profonda meditazione per un giorno e una notte, «vi stette finché fu l’alba e si levò il sole. Allora si mosse e se ne andò dopo aver fatto la sua preghiera al sole» (Simposio 220 d). Anche l’impegno morale trova un’espressione emblematica nel Socrate platonico, che concepisce il compito di esortare al bene i suoi concittadini come una missione a cui non può sottrarsi perchè non si tratta di una sua iniziativa ma di un «ordine del dio; e io sono persuaso non ci sia maggior bene nella città di questa mia obbedienza al dio» (Apologia di Socrate 30, a).
La conversione
L’esperienza del sacro, quindi, si accompagna a una ‘metanoia’, a una conversione che non è il passaggio da una religione a un’altra ma un capovolgimento di mentalità,un rifiuto della dispersione nella banalità del quotidiano per raccogliersi con tutte le proprie forze attorno a un nuovo centro. L’adesione al sacro apparirà, dunque, come «lo spostamento del centro personale, la pacificazione dello spirito nella raggiunta unità dell’io, la liberazione e l’elevazione a una vita integra, la concentrazione in un’esistenza autentica» (Rizzi,1995: 54).
Avventura affascinante ma rischiosa
Chi si converte, facendo della lotta per la giustizia, ad esempio, il centro della propria vita, prova attrazione e a un tempo paura per gli impegni che lo attendono, e cioè i sentimenti caratteristici che provoca l’esperienza del sacro. Attrazione nei confronti di un ideale che evidentemente affascina al punto da divenire il centro di una nuova vita; ma anche paura, perchè votarsi a una causa significa combattere contro ciò che di negativo c’è in se stessi e nel mondo circostante, e implica quindi rinunzie, perseveranza, sacrifici e persino la disponibilità a rischiare la vita stessa.
La speranza
L’uomo che coltiva la fiducia nel senso della realtà, e s’impegna perché esso si realizzi nonostante le forze contrarie, nutre perciò la speranza che l’opera giungerà a compimento. Non si tratta certo dell’ingenuo ottimismo del bambino che ignora il male ma della certezza che questo non può avere l’ultima parola, perchè altrimenti la realtà sarebbe appunto priva di senso. Se di fronte alla compresenza di bene e male la ragione resta in bilico, l’esperienza del sacro rende ragionevole la speranza che, al di là delle ripetute smentite della storia, vale la pena continuare a battersi per un mondo più giusto.
Il regno
Nella prospettiva biblica, per esempio, il mondo quale oggi lo vediamo non rivela appieno il divino, è qualcosa di incompiuto. È proprio l’uomo che deve portarlo a compimento, liberandosi dall’avidità per cui pochi accaparrano per sé i beni della terra lasciando nella miseria masse sterminate. Nel regno annunciato da Gesù, invece, gli affamati saranno “saziati”(Luca 6,21). Commentando un detto rabbinico, secondo cui riuscire a sfamarsi è un vero miracolo, Emmanuel Lévinas (1905-1995), un filosofo lituano di origini ebraiche naturalizzato francese, che in gioventù ricevette un’educazione religiosa tradizionale, scrive: «Poter mangiare e bere è una possibilità straordinaria e miracolosa quanto la traversata del Mar Rosso. Noi non ci rendiamo conto del miracolo che ciò rappresenta perché viviamo in un’Europa oggi provvista di tutto e non in un paese del terzo mondo, e perché la nostra memoria è corta. Là si capisce bene che saziare la fame è la meraviglia delle meraviglie» (Lévinas, 1985: 76).
Il paradiso terrestre
Nell’ottica biblica la manifestazione privilegiata del sacro è il volto dell’altro, specialmente del povero che va accolto come un fratello. L’autore del libro degli Atti degli Apostoli vede proprio nella condivisione dei beni realizzata dai primi cristiani – per cui «nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune. [...] Nessuno infatti tra loro era bisognoso» (4, 32.34) – il compimento del disegno divino. Questo mondo nuovo è il paradiso terrestre di cui parla la Genesi, il luogo in cui l’umanità sperimenta davvero la presenza del sacro: secondo gli esegeti contemporanei, infatti, il racconto dell’Eden non illustra una condizione del passato ma indica una meta da perseguire.
La secolarizzazione
L’esperienza del sacro, custodita dalle grandi religioni e tradotta in termini razionali dalla filosofia moderna (di uno Spinoza o di uno Hegel), entra in crisi nella cultura post-moderna. L’uomo non vede più il mondo come dotato di senso, considera illusoria l’esperienza del sacro e nega l’esistenza di un senso già dato. Il soggetto si convince che fuori di sé «non c’è il senso ma il nulla, e che l’uomo è – soltanto ma veramente – la capacità di tracciare su questo nulla frammenti di senso» (Rizzi,1995:150). Se l’ordine del mondo e l’ordine dell’uomo non sono più garantiti, non c’è più difesa contro il rischio del caos e l’angoscia del fallimento e del nulla A questo punto si presentano due possibilità: rinunciare a ogni ricerca di senso, considerando il non-senso l’ultima parola dell’avventura umana o porsi in ascolto delle voci del passato, reinterpretandole però in maniera critica, liberandole cioè da formulazioni non più credibili. Quindi: la sconsolata ammissione del non-senso o la difficile via dell’ermeneutica.
L’impegno etico
Nella seconda ipotesi, abbandonato ogni fondamentalismo, un terreno da privilegiare per la riscoperta del sacro potrebbe essere quello dell’impegno etico. Forse in questo campo l’uomo post-moderno può fare ancora esperienza del sacro nel tentativo di costruire, in un mondo disincantato, ‘frammenti di senso’. Non è un caso che oggi si cerchi di fondare il dialogo interreligioso non confrontando le differenti formule dottrinali, ormai incapaci di far trasparire la realtà del sacro, ma incoraggiando le convergenze sulle «risposte da dare operativamente alla sofferenza umana, [...] un riconoscimento (per quanto forse ancora acerbo) di quel luogo della verità religiosa che è l’amore» (ivi :245).
Dialoghi Mediterranei, n.27, settembre 2017
Riferimenti bibliografici
E. Levinas, 1985, Dal sacro al santo. La tradizione talmudica nella rilettura dell’ebraismo post-cristiano, Marietti, Roma.
A. Rizzi, 1995, Il sacro e il senso, Elledici ed., Torino
P. Tillich, 1970, Théologie systématique, II vol., Editions Planète, Paris
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Elio Rindone, docente di storia e filosofia in un liceo classico di Roma, oggi in pensione, ha coltivato anche gli studi teologici, conseguendo il baccellierato in teologia presso la Pontificia Università Lateranense. Per tre anni ha condotto un lavoro di ricerca sul pensiero antico e medievale in Olanda presso l’Università Cattolica di Nijmegen. Da venti anni organizza una “Settimana di filosofia per… non filosofi”. Ha diverse pubblicazioni, l’ultima delle quali è il volume collettaneo Democrazia. Analisi storico-filosofica di un modello politico controverso (2016). È autore di diversi articoli e contributi su Aquinas, Rivista internazionale di filosofia, Critica liberale, Il Tetto
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