di Paolo De Angelis
Non si è forse riflettuto abbastanza sugli effetti prodotti da crisi traumatiche come quella pandemica nella vita emotiva delle persone, soprattutto di quelle marginali. Sono rimasti pressoché esclusi o rimossi dall’attenzione e dal dibattito pubblico i disagi psicologici e i disturbi patologici che investono i soggetti più vulnerabili in contesti sociali di problematico e coattivo isolamento.
Già alla fine del primo conflitto mondiale nei reduci e/o prigionieri di guerra erano stati riscontrati comportamenti socialmente anomali collegati a uno stato emotivo disagiato. Dopo il secondo conflitto, che ha cagionato oltre cinquanta milioni di vittime soltanto in Europa, si è avuto il rientro in patria di una immensa popolazione scampata alla morte in battaglia e ai campi di prigionia. La principale differenza tra questi e le moltitudini vittime di bombardamenti, occupazioni e povertà sta nell’elemento territoriale. Mentre i secondi hanno vissuto in un continuum territoriale, se pur drammatico, i primi si sono trovati improvvisamente e per lunghissimo tempo in una realtà nuova, ostile e di estrema precarietà.
Come descritto da innumerevoli studi l’esilio forzato al fronte e/o in luoghi di prigionia, estranei alla storia individuale, sono stati causa di una frattura spaziotemporale prolungata. A questo si è aggiunto l’elemento di pericolo per la propria incolumità, addirittura la vita. Un terzo elemento dissociativo, forse il maggiore, è stata la necessità istintiva di adeguarsi all’ambiente. Cosa significa? Ebbene nella mente umana, caratteristica fondamentale di ciò che chiamiamo intelligenza, si è sviluppato un processo di adeguamento, chiamiamolo adattamento o istinto di sopravvivenza, per cui la nuova realtà diventava ‘la’ realtà; il presente invadeva insomma tutto il vissuto, la storia, l’esperienza esistenziale del singolo. Restare in vita diveniva imperativo presente; continuare a vivere non rappresentava più una fase derivata dal passato e proiettata verso il futuro, significava solo ed esclusivamente: “Oggi devo vivere”. S’è detto poi ‘del singolo’, in quanto l’urgenza del sopravvivere superava la dimensione comunitaria. L’altro, pur vittima innocente, era il rivale che poteva scampare a un cecchino al nostro posto, un deportato che poteva sottrarci inestimabili bucce di patate o un tozzo di pane ammuffito. Un rivale, nemico, interno.
Un vecchio paziente, ormai defunto, mi raccontò l’aneddoto che aveva dominato la sua vita e di cui non riusciva a perdonarsi. Durante la seconda guerra mondiale nel suo paesino in Romagna c’era stato un attacco dei partigiani a una colonna di soldati tedeschi. Nel conflitto a fuoco alcuni militari delle SS avevano perso la vita. Successivamente il comando tedesco aveva deciso una rappresaglia e proceduto al rastrellamento dell’intera popolazione maschile del paese e località limitrofe. Messi su varie file si sarebbe prelevato un uomo ogni dieci e fucilato. Ebbene durante la conta, giunti in prossimità del nostro testimone, lui riuscì abilmente a indietreggiare confondendosi nelle file posteriori. Mentre i soldati portavano al supplizio il giovane scelto al suo posto, questi si era voltato incredulo verso di lui. In silenzio lo aveva fissato: stupore, sgomento, forse rancore? Quello sguardo muto lo aveva perseguitato per tutta la sua esistenza.
Possiamo allora comprendere come dentro di noi sia presente una energia primordiale che non risponde né riconosce una morale idealizzata. Una forza che fa stringere i denti e lottare ciechi e sordi per difendere un giorno, un’ora, il momento presente. La guerra, una deportazione, una prolungata condizione di rischio permanente o pericolo imminente, generano fratture nel continuum esistenziale annullando o sospendendo la storicità dell’individuo. Nel momento in cui il corpo fisico recupera una sicurezza spaziale questa frattura, una vera e propria crepa nella storia, risulta ancora incolmata e, come un altro sé, si impossessa arbitrariamente delle emozioni, dell’adattamento al nuovo spazio, del rapporto con i nuovi vicini, insomma della capacità di giudizio e progettualità. Oggi li chiamiamo disturbi postraumatici da stress e li ricordiamo, tristemente celebrati, anche nei militari reduci dai recenti conflitti. Ma non solo.
Prenderemo allora in considerazione il lungo percorso che spinge migliaia di individui verso nord, al mare, e poi oltre, sulle coste europee del Mediterraneo. Per completezza ci occuperemo di chi proviene da est soltanto per un rilievo parallelo che amerei considerare marginalmente. Il motivo è la necessità di evidenziare ed escludere, su un piano squisitamente clinico, la presenza di elementi patogenetici relativi al disturbo sopracitato.
Nella nostra esperienza quotidiana, infatti, frequentiamo vari esponenti delle comunità pakistane, indiane, bengalesi e altri provenienti comunque dal subcontinente indiano e territori limitrofi. Se ci soffermassimo a riflettere ci renderemmo facilmente conto che queste famiglie, in genere numerose, sono sufficientemente inserite nel tessuto urbano; tutte sono adeguatamente collocate e titolari, anche in diversi nuclei familiari, di piccole attività commerciali e i loro figli inseriti regolarmente nelle scuole statali. Potremmo addirittura suggerire che la traversata verso ovest avviene con il conforto del nucleo familiare, la storia affettiva, e grazie a una migliore organizzazione della migrazione, una maggiore disponibilità economica e la oggettiva facilità, relativa, del viaggio stesso. Forti di un progetto concepito e voluto, concreto e reale, arrivano nelle nostre terre dove trovano una lenta ma progressiva realizzazione; lo sradicamento dai loro luoghi natali è soccorso dalla spinta motivazionale, e successivamente viene ricompensato e lenito da un miglior adattamento sociale di ciascuno dei componenti.
Ora questa immagine può apparire ovvia e di facile comprensione, ma a venirci in aiuto è un grande italiano, Luchino Visconti. Nel suo celebre Rocco e i suoi fratelli la famiglia lucana trasferitasi in Piemonte incontra emarginazione e difficoltà che si sovrappongono perfettamente a quelle dei migranti attuali. Frasi come ‘…ma la Lucania sta in Italia?’, oppure ‘ … ci venite a rubare il lavoro ’, le abbiamo ascoltate fin troppo spesso negli ultimi anni. Ebbene si direbbe che nei nuovi ospiti la dignità di popolo, l’umile determinazione e la compattezza familiare, riescano a proteggere questi nuclei tanto a difenderli dal clima esterno quanto a contenere il disorientamento dei loro giovani, cosa che invece non avviene agli smarriti protagonisti della pellicola, destinati a perdersi in una realtà ostile. Anche l’affiliazione alla criminalità viene schermata, dai legami culturali, religiosi e familiari. Ragionamento analogo per i cittadini cinesi forti della coesione culturale e familiare più che della mera disponibilità economica. È per le genti dell’Africa che l’esodo assume un significato ben diverso e che ci riporta ai disturbi sopracitati.
Le condizioni di vita nei territori di provenienza del continente africano sono già disperate. Carestia, siccità, povertà estrema, guerre, sono degli spettri da cui fuggire angosciosamente. Il reperimento dei soldi per una o due persone coinvolge tutta la famiglia che vive una apnea esistenziale in attesa della partenza. Ecco un primo elemento di differenza, solo alcuni partono. La spinta motivazionale si riduce a fuga cieca; la famiglia viene disintegrata e cultura o religione affogano nella continua imprevedibilità.
Il lungo viaggio – la via più frequentata è quella che attraversa il deserto del Teneré – porterà a morire molti dei passeggeri di quelle carrette terrestri profumatamente pagate. In pochi arriveranno sulla costa, e qui dovranno attendere mesi, a volte anni, pima di poter proseguire. La necessità di racimolare nuovi soldi per la costosa traversata del Mediterraneo porta ad accettare compromessi e promiscuità di ogni genere. Grazie a occupazioni miserabili, spesso rasente la schiavitù, l’apnea continua. Si diventa ciechi e sordi, fuggendo ogni volta che si paventa una possibile reclusione-confinamento in campi di raccolta o prigioni locali.
Ecco che la crepa, come immagine di morte spirituale, sprofonda nella storia dell’individuo. Solo il presente quotidiano conta, non c’è più il passato e altrettanto impossibile è visualizzare il futuro. Il presente è una guerra inesorabile che durerà un tempo indefinito. Il viaggio in mare è un altro incubo e altri morti innocenti sono destinati a fare compagnia ai pochi sopravvissuti. La crepa ora è diventata simile a una deportazione.
Finalmente l’arrivo sulla costa desiderata dove ci sarà un altro confinamento; di nuovo precarietà e vulnerabilità scandiscono il tempo presente. Solo un banale imperdibile oggetto diventa la medicina, il contatto con il passato, con il mondo, con la propria storia: il cellulare. Ma ormai anche questo non basta più. Ecco allora che la vulnerabilità diventa sofferenza, rabbia, nuova disperazione. Di nuovo la fuga come unica possibile reazione allo spettro che insegue sempre più prossimo, infaticabile. La fuga dai Centri di raccolta ha il significato del tentativo scomposto e fobico dalla emarginazione coercitiva, intesa come prigionìa, come isolamento, come anticamera della morte. Sì, la morte. Alla fine la crepa esistenziale in cui il vissuto individuale viene precipitato si concretizza e riduce a questo estremo.
Per comprenderne il senso culturale-emotivo dobbiamo tornare al parallelismo con la nostra storia e i nostri comportamenti. Faremo un preciso riferimento al famoso film Cronaca familiare, di Valerio Zurlini, dove il fratello maggiore Marcello Mastroianni assiste alla lenta fine del giovane fratello Jaques Perrin. Alla pellicola si deve l’intensa descrizione del tragico percorso nella vita e nella malattia; la contrapposizione dolorosa tra la coscienza del dramma e lo smarrimento inerme dell’inconsapevolezza. Quest’ultima sarà il nostro riferimento specifico, dai sintomi che conducono al ricovero del ragazzo fino alla morte. La vetta dell’intensità narrativa si raggiunge all’ingresso tra le mura alte, diafane e spettrali del nosocomio, un inesorabile preludio all’infelice esito, e alla scena tragica dell’ultimo incontro tra i due fratelli nella spoglia camera di degenza. A differenza della realtà non viene ripresa la tradizionale corsia né la vitalità tipica dei reparti di degenza. Il silenzio, l’assenza di altre figure, la stanza afona dove si consumano le ultime ore, tutto riporta alla solitudine del condannato a morte.
Quella era l’immagine orrifica che almeno fino a pochi anni fa l’ospedale evocava, e se torniamo indietro nella memoria senz’altro ritroviamo il ricordo di nostri familiari terrorizzati all’idea di un possibile ricovero. Cosa significa? La spiegazione sta proprio nell’associare all’internamento il senso della condanna, di un verdetto già scritto e incontestabile. Ricordiamo come si pregasse il medico di adoperarsi, non già per ripristinare la salute dell’infermo, quanto di evitare in ogni modo possibile il ricovero. Ebbene quella icona di sanatorio o lazzaretto nell’immaginario collettivo riportava proprio al lebbrosario, all’isolamento forzato nelle pestilenze, alla morte in solitudine, ai cadaveri bruciati. Il confinamento assume quindi un significato orrifico che travalica come una condanna l’esperienza, ne impedisce la storicizzazione, la presa di coscienza, precipita nel panico, nell’irrazionale.
Ecco allora che non ci meraviglieranno i reportage di zone africane dove, in occasione di epidemie, le famiglie assalgono gli ospedali per riportare a casa i loro cari ricoverati. La reazione è identica a quella che ben conosciamo. Se resto a casa io esorcizzo la malattia; se impongo una irreale normalità mi oppongo alla realtà. Questo mi fa paura, non mi piace, non lo voglio, ergo non esiste. Ha lo stesso significato di quanto avviene oggi di fronte alla pandemia nei nostri paesi culturalmente progrediti. La necessità di affrontare l’elemento incognito e pericoloso non porta universalmente ad avvicinarlo (indagine epidemiologica), a conoscerlo (misure preventive), a interagire con esso (terapie e vaccini), ma si preferisce esorcizzarlo negandolo o attribuendogli significati politici, bellici, passivizzanti, che allontanano quindi dalla consapevolezza. A questa visione del reale e alla specifica sistematizzazione ideologica si potrebbe riferire per esempio una delle molle inconsce che un passo più in là spingerebbe verso il moderno fronte dichiaratamente negazionista.
L’epidemia di Covid 19 colpisce infatti sia nell’immaginario che nella prassi la difficile condizione di stanzianti e migranti. Tuttavia non è un caso che ai migranti spesso si sia voluto attribuire la responsabilità della diffusione di questo virus, e ne abbiamo sottolineato volutamente la logica sottesa, non derivata da dati scientifici ma dal delirio esorcistico. Per questo motivo, nonostante molte fonti riferiscano di maggiori difese immunitarie individuali, e le statistiche non evidenzino criticità epidemiologiche nelle comunità stesse, l’impatto emotivo con il recente fenomeno ha accentuato sia l’isolamento degli ospiti, sia l’accoglienza e l’organizzazione degli interventi socializzanti.
Da un lato il confinamento e la chiusura di alcuni uffici e luoghi di lavoro hanno reso ancor più precaria la condizione sociale, dall’altro la permanenza nei Centri di accoglienza ha innescato la paura di una diffusione interna del contagio e quindi il rischio di morte. Le notizie poi della diffusione nelle RSA e nosocomi simili alimentano il legittimo allarme, l’insicurezza porta al dubbio di essere dimenticati, la sensazione di immobilità richiama immagini di morte. L’abisso mai colmato preme dal profondo e allontana ogni prospettiva progettuale; in questa ottica si individua il rischio di un maggiore disagio e una altrettanta difficoltà ad affrontarlo; se gli strumenti adottati saranno di carattere repressivo questo aumenterà l’isolamento e il circolo vizioso si ripeterà.
Nè possiamo dimenticare in questo contesto una realtà decisamente vicina a noi e tuttavia a noi invisibile, che di diritto si colloca tra le fratture esistenziali. C’è infatti una esperienza che genera bruscamente l’interruzione tra il passato e il futuro lasciando stazionare l’individuo in un limbo surreale, deportandone lo spirito nei medesimi labirinti descritti per reduci, deportati e immigrati. Stiamo parlando della carcerazione.
In linea con le argomentazioni relative ai disturbi da stress postraumatico rileveremo che una lunga detenzione determina uno scollamento tra il vissuto esperienziale reale, in cui la storicità è collegata alla progettualità e quello esperito nel confinamento, dove passato e futuro non hanno più significato. L’universo topografico rigidamente limitato è ormai un recinto spaziotemporale statico fino all’immobilità; le relazioni umane sono rarefatte e costituiscono un costante rischio, da qui un ulteriore isolamento interno fino alla reclusione. La realtà presente supera il continuum storico dell’individuo e il mondo esterno viene rappresentato, non dalla storia nel suo evolversi, ma dai legami sviluppati all’interno del carcere. Il tempo perde il significato reale e la misurazione diventa paradossale, al contrario. Mano a mano che la detenzione prosegue, il tempo rischia di non esistere più e con esso la prospettiva del futuro, la progettualità, la speranza. Le stesse regole di convivenza e i criteri di giudizio assumono altre unità di misura. Ricordiamo doverosamente che nel nostro Paese il codice penale è fortemente indirizzato al recupero e alla risocializzazione dei condannati, eppure il rischio di quella crepa esiste: perché?
Potremmo definire il rischio in termini filosofico-matematici. Poniamo su ascisse e ordinate di un ipotetico diagramma la gravità del reato e la durata della pena. Vedremo che la retta si porta inevitabilmente verso l’alto. Poniamo allora su un altro diagramma la durata della reclusione (paragonandola alla detenzione sopracitata in campi di concentramento o centri di raccolta) e l’effetto risocializzante (che sarebbe l’obbiettivo). In virtù della entità della frattura tra il passato e il futuro (sulla base concreta degli studi sui reduci, deportati e, forse anche, sui migranti), noi potremmo arrivare a visualizzare un effetto temporale in salita a descrivere una curva che poi ripiega in una discesa. Incrociando i diagrammi potremmo arrivare a individuare l’effetto massimo ipotizzabile e quel punto di non ritorno dal quale saremo consapevoli di aver creato degli individui sociopatici. Avremmo una visione e una misura certa di quanto sia possibile recuperare o perdere definitivamente degli esseri umani, di quanto sia facile obliterare la cognizione del nostro operato generando effetti opposti. Da qui i disordini periodici nelle carceri e il loro ripetersi in questi giorni proprio a causa del panico da Covid 19; anche qui l’associazione confinamento-contagio amplifica il fantasma della morte mentre quella sociale è in atto dentro un eterno presente, anonimo e vuoto.
Dialoghi Mediterranei, n. 47, gennaio 2021
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Paolo De Angelis, laureato in medicina e chirurgia presso ‘La Sapienza’ di Roma nel 1979 e successivamente specializzato in psicologia clinica e psicoterapia psicanalitica, in gioventù è stato volontario nella Croce Rossa Italiana e nella nascente Protezione Civile. Dopo la tesi di laurea su ‘La depressione nel vecchio’ ha pubblicato articoli sulla rivista ‘Il lavoro neuropsichiatrico’ con i professori Antonino Lo Cascio e Sergio Mellina. Successivamente ha collaborato con una emittente privata occupandosi di informazione sociale e problematiche giovanili. Oltre a svolgere l’attività di psicoterapeuta ha effettuato come medico volontario missioni sanitarie in Guatemala, Burkina Faso, Etiopia, Madagascar, India, Bosnia Albania. Dal 2014 ha iniziato a trasferire e proporre le sue esperienze professionali, di viaggio e di volontariato in veste di romanzo. Sperimentando vari generi e strutture narrative ha pubblicato: Un fiore tra le pietre (2014); Una cena per due (2015); Nulla oltre la notte (2017); Legittima offesa (2018); Il sonno dell’ingiusto (2019).
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