Che cosa vuol dire esser liberi di pensare? È normale che la famiglia, il contesto culturale, la religione contribuiscano notevolmente alla maniera in cui un individuo ragiona; tuttavia egli è libero di pensare nel momento in cui si autorizza a mettere in discussione i costrutti che costituiscono il suo pensiero. In questo modo la realtà non sarà più un’unità indiscussa e imposta bensì decostruita nella sua complessità; individuando ciò che sta alla base dell’interpretazione degli elementi che la compongono, il soggetto potrà scegliere a quali aderire.
Durante i miei studi di lingua e cultura arabo-islamica mi sono chiesta se tale libertà di pensiero esistesse nelle società che rientravano in questo contesto poiché, in generale, sembrava emergere che questa non fosse né manifesta né diffusa, quanto meno in modo rilevante.
Anzitutto bisogna tener presente la complessità del mondo arabo-islamico e, da questa considerazione la scelta di parlare al plurale di società arabo-islamiche in modo da alludere al numero di sfaccettature che questo mondo offre e a non cedere alla tentazione di cadere nel pericolo della semplificazione. Sotto la voce “cultura arabo-islamica”, infatti, rientrano circa ventidue Paesi, ciascuno dei quali presenta una realtà sociale, politica e geografica particolare. Certo tutte queste società hanno dei tratti comuni importanti, quali la lingua araba classica e la predominanza della religione islamica, i quali però non sono né omogenei né invariabili bensì fluidi ed intersecati con gli altri numerosi aspetti che formano la società.
Il concetto di Islam stesso porta in seno una molteplicità di accezioni che vanno dai dogmi presenti nella Sunna e nel Corano alle interpretazioni generate da tale costrutto e dai conseguenti diversi modi di abbracciare questa fede, dalla concezione della mistica sufi a quella degli ašʿariti. Il termine Islām, ovvero il “sottomettersi alla legge di Dio così da essere integro”, è quindi da intendersi quale complesso di pensieri che inevitabilmente fioriscono a seguito dell’adesione a un credo e alle infinite possibilità che sono nate e che ancora possono nascere a partire da questo.
Per definire il concetto di religione mi piace servirmi di una poesia, proveniente dalla Confraternita dei sufi Jarrahi-Halveti, che forse più di altre espressioni, mostra il senso con cui è da intendersi:
La religione è come una rosa. Il fiore della rosa
ha due linee direttive:verso l’alto
esala un soave profumo;
verso il basso ha un gambo di spine.
Chi ne ammira il fiore è come colui
che della religione vede
le bellezze mondane realizzate dall’Arte;
chi si limita a contarne i petali senza null’altro capire
s’impantana nel nozionismo dei teologi;
chi ne avverte il soave profumo
tende attraverso la mistica
al ricongiungimento in Dio.
L’integralista, il fanatico,
l’ignorante limitato e presuntuoso
afferrano stretto solo il gambo di spine.
Ma la rosa spunta dalla terra, e dalla terra si nutre:
di tutta la nostra terrena materia umana,
materiale materia, limitata materia [1].
Come emerge da questa poesia, la religione può nutrire ed arricchire il pensiero, può elevare l’essere umano così come può essere vuoto nozionismo, alibi per evitare di mettersi in discussione e fanatismo. Ciò che fa la differenza è come l’individuo la vive, come la interpreta e come se ne serve e, certo, questo presuppone che egli abbia a cuore la ragione; se la religione si pone in sostituzione a quest’ultima allora entriamo in un altro ambito, ovvero quello patologico. Un esempio che mi diede lo psicoanalista Riad Ben Rejeb, durante l’intervista che gli feci nel 2014, fu sulle abluzioni: se effettuate in modo maniacale, non sono più segno di una ritualità atta a purificare il corpo bensì di una nevrosi ossessiva, di una fissazione che non ha a che fare con la credenza ma con la realtà psichica dell’individuo (religioso o meno).
La religione, inoltre, è legata ad un contesto storico, politico e sociale e quindi non è possibile prescinderne come se fosse un’entità astratta, unica e immutabile e, anzi, i fattori citati poc’anzi sono determinanti rispetto a come il soggetto la percepisce e la filtra, o meno, attraverso il proprio pensiero.
Posto quindi il concetto di religione nella sua complessità e del ruolo svolto da altri fattori nel suo processo di interpretazione, penso comunque che sia l’individuo ad avere il ruolo centrale nella possibilità o meno di considerarsi come essere libero di pensare. La vera discriminante che permette questa possibilità non è tanto essere o dichiararsi ateo o religioso bensì se ci si configura come soggetto poiché solo l’individuo-soggetto potrà porsi in relazione con l’Altro (Dio compreso) e non mettersi in posizione di as-soggettato.
Dunque mi chiedo, se “musulmano” significa “essere sottomesso (alla volontà divina)”, esiste il soggetto nell’Islam? Vorrei anzitutto porre l’attenzione sul fatto che il lemma “musulmano” deriva dalla radice sīn, lām, mīm, tre consonanti che portano ad una ramificazione di termini come “salvare”, “guarire”, “salutare”, “fare la pace”, “accogliere”, “riconciliarsi”. Lo psicoanalista Fethi Benslama afferma che
«Il fatto che i predicatori abbiano ridotto i significanti al senso unico della sottomissione dipende proprio da un atto di distruzione dell’arborescenza del linguaggio, per esaltare l’identificazione alla servitù e promuovere gli effetti dell’umiliazione […]» [2].
Nel Medioevo il sufi andaluso Ibn ‘Arabī (XIII secolo) romperà la dicotomia “musulmano vs soggetto” proprio a partire da un pensiero in seno all’Islam. La riflessione del pensatore viene svolta a partire dal famoso ḥadīṯ secondo il quale Dio disse: «Ero un tesoro nascosto e ho voluto essere conosciuto. Allora, ho creato le creature per essere da loro conosciuto». La creatura è dunque creatrice del suo creatore perché Egli esiste solo nel momento in cui l’essere umano lo conosce. Ciò che impedisce al soggetto di costituirsi come tale è pensare che ci sia una fede imposta per natura, mentre nessun credo e nessun’idea possono esserlo ed è compito di ciascun individuo costituire il proprio pensiero. L’accreditamento di una supposta naturalità originaria del pensiero è proprio ciò che fa sì che l’individuo non sia soggetto ma as-soggettato a una legge di natura, da cui consegue un’impossibilità di scelta e quindi di libertà.
L’impedimento non è quindi la religione in sé ma la supposizione che questa sia una prerogativa pre-costitutiva del soggetto, una caratteristica intrinseca dell’essere umano. Il problema dunque nasce quando la religione, in questo caso quella islamica, diventa religione per natura per cui l’uomo nascerebbe musulmano, sarebbe naturalmente musulmano. Ecco che con questa operazione si fa un torto sia alla natura sia all’essere umano, al quale non sarebbe data nessun’altra scelta se non quella già imposta, annientando così la sua capacità di giudizio e quindi di libertà (compresa quella di essere musulmano). Il concetto prima esposto di Ibn ‘Arabī sembrerebbe avvalorare il fatto che il pensiero di Dio sia istituito dal soggetto e non sia innato poiché nascerebbe da un incontro che presuppone un rapporto tra due soggetti (uomo e Dio) e non sarebbe una verità già data.
Nella lingua araba sono presenti vari termini che designano il soggetto di cui due principali sono: al- mawḍū’, participio passivo del verbo waḍa’ (porre, istituire) è il soggetto filosofico, che ha lo stesso significato in uso nella cultura occidentale; c’è poi ‘abd, il soggetto teologico, che indica il devoto, il servo, il servitore di Dio.
Nonostante la presenza di questi termini nella lingua, il dubbio circa l’esistenza del soggetto nelle società arabo-islamiche è spesso avvalorato dalla forte influenza del concetto di ummah che porta in seno una percezione della propria soggettività differente da quella presente nelle cosiddette società individualiste. Dalle radicali alif, mīm, mīm, da cui deriva anche il sostantivo ummah (nazione/popolo/comunità/famiglia), si formano parole fondamentali per comprendere i significati di “soggetto” e “società” nella cultura araba. Tra le più importanti riportiamo: umm (madre/origine/fondamento), e imām (colui che dirige la preghiera musulmana/guida/maestro). In questa triade di parole risiede una profonda idea di società, dove madre, patria e fede sono strettamente collegati: ciascun individuo è figlio di una madre-patria e forma parte di una comunità concepita come una grande famiglia unita da una fede comune.
Un aspetto che rende ulteriormente chiara l’importanza della famiglia alla cui base c’è la madre (genitrice) e il concetto di comunità come famiglia allargata è l’uso di identificare le donne non solo con il loro nome proprio ma anche con quello di “madre di…”. Questa concezione collettivista della società porta ad una percezione di soggettività differente da quella occidentale ma ciò non implica l’assenza del soggetto nelle società arabo-islamiche. Egli sì, si riconosce come parte del tutto ma senza dissolvervi le sue peculiarità. La realtà psichica dell’essere umano è infatti molto complessa e tra gli elementi che concorrono alla sua formazione vi è quello culturale, la cui influenza varia a seconda della persona e può mutare nel tempo. La persona costruisce la propria identità in quanto parte di relazioni sociali dove gli altri sono come inclusi nell’Io, ma ciò non significa che sia esclusa all’individuo la possibilità di costituirsi come soggetto e tale interdipendenza non comporta necessariamente un’incapacità di giudizio. Il soggetto sceglierà chi interiorizzare in base alla corrispondenza con la propria soggettività.
Tornando alla questione sulla complessità dell’Islam, altresì fondamentale per avere un approccio obiettivo rispetto alla considerazione del soggetto nelle società arabo-islamiche è saper discernere gli elementi che attualmente sono finiti in modo indiscriminato e indifferenziato dentro quell’etichetta (quali quello di civiltà, cultura, religione, estremismo ecc.). In tale indistinta congerie finisce anche l’individuo musulmano al quale, essendo egli definito solo in quanto appartenente alla religione islamica, viene negata la complessità propria di un soggetto. Questa è solo una delle pericolose conseguenze derivanti dalla considerazione dell’Islam come un blocco omogeneo.
Tornando alla domanda iniziale “può un soggetto musulmano essere libero di pensare?” allora si può affermare che la questione non sia da relazionare esclusivamente alla religione islamica; il quesito posto in questi termini presuppone infatti la convinzione che il problema sia proprio solo nell’ambito dell’Islam e non in quello di altre religioni; esso sembrerebbe sottendere che la possibilità della compresenza di religiosità e laicità sia data per scontata nel soggetto cristiano, buddista, ebraico. Ciò che limita la possibilità di libertà non è un deficit intrinseco alla religione islamica bensì la totale adesione ad essa senza lo sviluppo di un giudizio critico. Sigmund Freud afferma che qualsiasi religione, se prescritta, «pregiudica questo gioco di scelta e di adattamenti, in quanto impone a tutti in modo uniforme la sua via verso il raggiungimento della felicità e la protezione dalla sofferenza» [3].
È proprio la coltivazione della propria soggettività a poter scalzare questo pericolo individuale ma anche sociale, rendendo la religione una nevrosi collettiva. Se nelle società arabo-islamiche esiste il soggetto e quindi la possibilità di libertà di pensiero, rimane comunque aperto il quesito circa la mancanza di una sua ampia manifestazione nella maggior parte dei Paesi arabo-islamici.
Da questo interrogativo si è aperto un ventaglio di altri quesiti: Quali sono gli ostacoli e gli impedimenti circa questa ipotetica mancanza? Nel caso, essa dipende dall’unione di religione e politica? O, ancora, il nodo cruciale è la presenza, nella maggior parte dei Paesi arabi, di un potere dispotico? Domande aperte su questioni complesse che afferiscono alla laicità nelle società arabo-islamiche e chiedono approfondimenti di riflessioni e di analisi critica.