CIP
di Alessandro Simonicca
Pietro Clemente mi chiede di ragguagliare maggiormente il lettore circa l’intervento su un dibattito sorto relativamente alla giornata di studi svoltasi il 26 gennaio 2024 a Pescasseroli presso la Sala Convegni del Parco Nazionale di Abruzzo Lazio e Molise e dedicata alla presentazione di Etnosimbiosi, un progetto di ricerca finanziato dal Parco, entro il tema più generale Convivere. Le scienze sociali e il rapporto Uomo-Natura.
Erano presenti le Autorità del Parco e delle Amministrazioni comunali implicate nella ricerca, nonché un discreto pubblico. A presentare i risultati del progetto era Flavio Lorenzoni (Sapienza Università di Roma). A discuterne erano Alessandro Simonicca (Sapienza Università di Roma), Letizia Bindi (Università degli Studi del Molise), Salvatore Bimonte (Università degli Studi di Siena) e Maria Benciolini (Cooperativa Eliante).
Alla fine del Convegno era nata una vivace polemica, dopo un intervento di Virgilio Morisi, che, fattosi portavoce di un gruppo di allevatori presenti al convegno, contestava l’impostazione del convegno, perché carente – questo il nodo della contesa – di una adeguata considerazione dell’allevamento estensivo nel piano di sviluppo economico sociale del Parco stesso. Le risposte e le successive repliche dei rappresentanti del Parco non risultano bastevoli, tanto che lo stesso Morisi interveniva sulla piattaforma Agenparl il 3 febbraio [1] in cui si sviluppa una forte critica verso gli antropologi da parte di alcuni allevatori del Territorio del Parco. Il tono e il contenuto erano asseverati dal successivo intervento in data 6 febbraio (Gli allevatori bocciano gli antropologi al convegno: replica a Morisi) di Dario Novellino [2]. Seguono le risposte/repliche di Letizia Bindi, in data 15 febbraio (Coesistenze, frizioni, confronti. Intorno a un incontro presso il PNALM [3], nonché la mia del 24 febbraio (Il cuore e la testa degli antropologi. Ancora intorno a un incontro a Pescasseroli presso il PNALM [4]); l’intervento poi a due mani del 27 febbraio [5] dal titolo I rischi del mestiere: Antropologia professionale in contesti conflittuali, di Flavio Lorenzoni (Etnosimbiosi, un progetto “nel” Parco, non “dal” Parco) e di Maria Biancolini (Riflessività, posizionamenti, frizioni: l’antropologia professionale in contesti complessi), su ANPIA (Associazione nazionale professionale italiana di antropologia); chiudeva con una replica Virgilio Morisi del 21 marzo, Replica di Morisi a prof. Simonicca e varie [6]).
Non mi risultano altri interventi, benvenuto è in ogni caso qualsivoglia ulteriore aggiornamento. Preciso che Virgilio Morisi è allevatore locale nonché Presidente dell’Associazione – Ente del Terzo Settore - Iura Civium ad Bonum Naturae ETS, mentre Dario Novellino è antropologo del Centro per la Diversità Bioculturale dell’Università di Kent (GB) [7].
In queste poche note vorrei fissare il quadro del contesto e individuare i punti fondamentali della discussione, auspicando, se chi legge lo riterrà utile e produttivo, eventuali argomentazioni o prospezioni, teoriche e pratiche, sulla vicenda delle aree protette e dei parchi nella riflessione antropologica italiana.
L’oggetto della ricerca
L’incontro era precipuamente dedicato alla discussione della ricerca, effettuata con metodologia etnografica in due Comuni del Parco, a Pescasseroli sulle pratiche del turismo e a Picinisco sulle pratiche dell’allevamento, e finalizzata a sondare qualità, durata, effetti ma soprattutto coerenza delle specifiche azioni economico-sociali permesse entro un territorio vincolato.
Nella dibattito è stato probabilmente sottovalutato il fatto che si stava trattando di singole ricerche su aspetti particolari e non del Piano di sviluppo economico-sociale, questione ben più complessa, e di stretta competenza della Comunità politica del Parco stesso. La conseguenza è stata, comunque, che la iniziale occasione conoscitiva si è trasformata in manifestazione di dissidio politico avente al centro il ruolo del Parco rispetto agli attori economici e, vicendevolmente, il peso che questi ultimi rivestono nelle strategie politiche territoriali. I toni molto accesi del dibattito hanno altresì testimoniato l’urgenza di interessi vitali che riguardano l’esistenza di gruppi sociali, che non sono riusciti nel tempo a trovare accordi o negoziazioni nella complessa missione del Parco; ma hanno anche sollevato interrogativi su pregi e limiti della ‘engaged research’. L’intervento degli antropologi ha così concorso a rendere più manifesto il conflitto.
La posizione degli antropologi
Si chiama posizionamento, in genere, il dispositivo, concettuale e prassico, che definisce il modo in cui gli antropologi si rapportano rispetto ai soggetti e ai territori con cui e nei quali si svolge la ricerca o vive un intervento. Ma quali sono i possibili rapporti fra antropologi e Parchi? Chi sono i rispettivi titolari di azione legittima?
Bisogna riconoscere che, in generale, nell’antropologia italiana v’è stata scarsa attenzione per il campo definito, anche giuridicamente, delle ‘aree protette’; e non sempre v’è stata coniugazione adeguata fra movimenti ambientalistici (spesso oggetto di analisi) e analisi territoriale puntuale. Personalmente ho incontrato la tematica nel 1996, quando, iniziando a insegnare antropologia economica presso la Facoltà di Economia di Siena, mi sono imbattuto nell’applicazione – in ambito senese e grossetano – delle Leggi Regionali n. 24 del 1994 sugli ENTI PARCO (“Istituzione degli enti parco per la gestione del parchi regionali”) e n. 49 del 1995 sugli ANPIL (“Norme sui parchi, le riserve naturali e le aree naturali protette di interesse locale”). Entrambe rampollavano dalla allora recente Legge quadro sulle aree protette n. 394 del 1991 (ciò che ancora oggi è indicata genericamente come la ‘legge italiana sull’ambiente’), in cui si fissavano i criteri di identificazione delle aree di interesse ambientale, la definizione degli obiettivi, la gestione dei nuovi territori così delimitati e le norme per definire il Piano pluriennale economico-sociale entro cui armonizzare una ‘economia sostenibile’ di questi territori, ossia la salvaguardia degli endemismi necessitanti cura e l’attivazione delle pratiche di prelievo o trasformazione delle risorse capaci di garantire insieme la protezione integrale e un auto-sviluppo economico.
In questo contesto ho avuto modo di partecipare, con obiettivi antropologici, ai progetti per il Parco della Maremma e delle Aree protette della Provincia di Siena, nonché di seguire l’iter di sviluppo del Parco dell’Arcipelago toscano e delle Aree protette della Provincia di Grosseto; poi, lo sviluppo del tema ha portato a interessarmi anche di altre aree.
Dico questo per sottolineare il carattere fortemente istituzionalizzato del campo – normative giuridiche comprese; la presenza di attori forti, quali le autorità politiche dei parchi nonché delle amministrazioni degli enti locali e regionali o le associazioni di categoria, e meno forti quali i gruppi sociali residenti nei territori vincolati, anch’essi poi variamente da distribuire fra soggetti traenti maggiore o minore beneficio dalle operazioni vincolistiche; e, infine, i soggetti più esterni, quali ad esempio il gruppo di ricercatori universitari, molti e di varia provenienza disciplinare (ne ho annoverato, oltre ad antropologia culturale – appunto, diverse: agraria ed agronomia, botanica, chimica, diritto, economia politica ed economia aziendale, geografia, geologia, ornitologia, orografia e idrografia, scienze forestali, zoologia … ) che hanno messo mano alle carte del Piano. Anche qui, vale la pena di sottolineare che la presenza di un antropologo, con competenze specifiche e membro del progetto (forse sostitutivo di un sociologo, ma anche allora l’interesse sociologico per i parchi era piuttosto modesto) era al tempo tutt’altro che usuale, e possibile soprattutto per la sensibilità intellettuale e culturale di chi dirigeva il progetto più che per statuto interdisciplinare consolidato (ammesso che al presente ciò sia divenuto tale).
La costituzione di un gruppo inter- e/o multidisciplinare, sia nella costituzione del Parco, sia soprattutto per la formulazione del Piano di sviluppo, era commisurato ad un compito rilevante da assolvere, ossia garantire la riproduzione – diremmo oggi – della biosfera e delle biodiversità a rischio.
Allora la parola-chiave era forse quella degli ‘endemismi’, da garantire nella conservazione e nella riproduzione a livello territoriale. La modulazione semantica (‘endemismi’) era evocativa di un’idea di rapporto fra un territorio e le sue specie (telluriche, vegetali e animali; le umane, in un regime particolare) che si caratterizzasse per unicità di genesi e/o costituzione, il cui focus fondamentale era però soprattutto ambientale: un nucleo centrale ambientale da salvaguardare parallelamente ad una cantierazione vincolistica, progressivamente esocentrica e a intensità indirettamente proporzionale alla distanza dal centro.
Anche nel nostro caso la fattispecie giuridico-normativa ha svolto ruolo rilevante. L’Ente Autonomo del Parco Nazionale d’Abruzzo, fondato il 9 settembre 1922 ha goduto negli anni di un assetto particolare, che ha permesso di non applicare appieno i successivi dettami della L. 394/1991, grazie ai poteri concessigli dal r.d.l. 11 gennaio 1923 n. 257, e anche dopo la rinominazione a Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise nel 2002, sino ad oggi, quando il Piano economico è finalmente giunto alla sua fase finale (pur se, proprio in questi giorni, il Consiglio Regionale del Molise sembra porre seri dubbi sulla sua coerenza, il che sta a dimostrare quanto la materia sia ancora instabile).
In ogni caso è da ricordare che il Parco, sia pure con una normativa pregressa, ha svolto negli anni un ruolo insostituibile nella lotta contro gli abusivismi di tutti i tipi, e anch’esso si è trovato ad affrontare i problemi rilevanti, così come la legge del 1991, che si sono via via accumulati nella forbice di una strutturale potenziale contraddizione fra tutela ambientale e sviluppo economico ‘sostenibile’, fra conservazione e antropizzazione.
Di fatto, tutte le aree naturali protette hanno come obiettivo comune la conservazione della biodiversità; sono però presenti altre strategie di gestione e finalità, come ad esempio il garantire benefici alle comunità locali, l’offrire attività educative e ricreative, il conservare specifiche caratteristiche paesaggistiche, il condurre ricerca scientifica, il migliorare la qualità complessiva del territorio nel tempo e così via.
I conflitti nondimeno permangono. È tempo allora di rivedere la Legge 394/1991 (e sue modificazioni nel tempo), caso mai ripensando i criteri di perimetrazione e zonizzazione o la stessa ‘Carta della natura’? Ciò significa dare via libera all’assalto al territorio da parte di speculatori di varia natura (sempre presenti, grandi e piccoli, nascosti e latenti) oppure ritenerla ancora valida, salvo introdurre casistiche e strategie diverse? Oppure, ancora, riconsiderarla in maniera comparativa? Penso a un raffronto con il sistema di classificazione delle aree protette nel disegno della International Union Conservation of Nature (IUCN), che prevede sei categorie (Riserva naturale integrale, Area selvaggia, Parco nazionale, Monumento naturale, Area di conservazione di Habitat/Specie, Paesaggio terrestre/marino protetto, Area protetta per la gestione sostenibile delle risorse), con i Siti Natura Europei oppure con le ultime forme dei patrimoni UNESCO (Patrimoni naturali dell’Umanità, Riserve della biosfera, Geoparchi mondiali). È utile anche una riflessione sui parchi nazionali secondo la Categoria II della IUNC. Quest’ultima, infatti, definisce i grandi siti dedicati alla protezione dei sistemi ecologici e biologici; esprime però anche specifiche coordinate per garantire un sistema di accesso antropico (regolamentazione visitatori; capacità di carico ammissibile; obiettivi educativi, culturali e ricreativi implicati; norme ostative al degrado ambientale). Le buone pratiche per contribuire all’economia locale rimangono un campo aperto alla riflessione: le strategie turistiche appaiono le più coerenti (ma non esenti da pesanti ricadute sul territorio), più complesse appaiono invece quelle relative al prelievo e/o alla trasformazione delle risorse naturali, nonché all’uso del terreno stesso. Il nodo è il rapporto fra uso antropico del territorio e sua conservazione, e soprattutto la questione riguarda i luoghi umani abitati e il tasso di vincoli ambientali che possono sopportare, la cui problematicità porta all’emergenza di conflitti. Di sicuro, la nobile finalità di generare attività economiche tali da innestare l’istituzione di un regime di auto-sostenibilità economica delle aree protette (cioè una economia che non leda l’ambiente, eppure sia capace di produrre ricchezza tale da coprire i costi delle infrastrutture e oltre) è nel tempo divenuta sempre più una chimera o solo in particolarissime circostanze percorribile.
Per tornare ai conflitti e alle diverse configurazioni di scene che essi attivano, semplifico con qualche tipologia. Una prima vede in atto uno scontro fra diversi stili di vita (ambientalismo radicale vs propensione individuale al consumo); una seconda ha una significazione economico-politica (uso socializzato vs uso privatistico delle risorse); una terza ha un tono politico-ideologico (dominio antropico sulla natura vs relazionalità e reciprocità fra natura e cultura). L’ultima opposizione è spesso intesa anche come contrapposizione fra ‘orientalismo’/paternalismo ambientale e ‘comunitarismo’, con cui un generico schieramento di politica culturale di ‘sinistra’ fa suo il ‘discorso coloniale’ della supremazia politico-militare europea sulle culture non occidentali e lo traduce in una supremazia del Potere antropico (maschile) sulla Natura (femminile). Le ultime contrapposizioni esibiscono un diverso quadro di riferimenti rispetto al passato. Si passa, cioè, da una critica sociale al fenomeno dell’abuso territoriale, ad una (tendenziale) strategia intellettuale che decostruisce le immagini culturali della ‘natura’, scoprendo in esse un discorso ideologico che nasconde e mistifica la sostanziale subalternità degli attori presenti ad un sistema di potere.
Nelle relazioni comunicate alla giornata a Pescasseroli non è mancata l’apertura di una finestra sul rapporto uomo-animale, e ciò è avvenuto con la relazione di Maria Biancolini sul Progetto LIFE bear smart corridors, studio orientato all’ascolto delle comunità locali alle prese con l’orso bruno marsicano, e quindi con gli animali predatori.
Il rapporto uomo-animale è senz’altro un tema importante nella discussione sull’ambiente, notoriamente oggi vivo anche in ambito urbano, ma soprattutto nella vita dei parchi e nei territori loro finitimi, nonché negli studi loro dedicati. In questi spazi, infatti, v’è forse il massimo della confluenza fra processi territoriali di antropizzazione, fenomeni di selvaticità e riemergenza di domesticazioni storiche. Alla selvaticità di animali predatori (come il lupo e l’orso etc…) si aggiunge la presenza di animali addomesticati (ad es., nell’allevamento e/o in pastorizia) la cui conduzione economica presenta problemi rilevanti.
In questo momento ulteriore di discussione, si registrano la presenza e la evidenziazione di forme di prelievo di risorse che, grosso modo, appartengono al passato ma che in varia maniera continuano a vivere o a sopravvivere nel presente. Sia che si intendano ‘culture’ specifiche o ‘forme di vita’ oppure (come usano e/o usavano dire i marxisti e gli ecologi culturali con una dizione fattualmente démodé) ‘modi di produzione’, l’allevamento estensivo o la pastorizia o la transumanza o l’agricoltura di montagna sono forme ‘tradizionali’ di approvvigionamento materiale che interessano sia alcune aree delle aree protette (e il loro uso temporale) sia – soprattutto – le aree di confine fra le zone dei parchi, su cui vigono diverse normative, la cui infrazione attiva una serie di sanzionamenti, generatori a catena di una conflittualità spesso endemica.
L’ultimo momento a cui ci conduce una sia pur breve riflessione sulle aree protette è il ripensamento complessivo del ruolo del ‘non-umano’ rispetto all’‘umano’, su cui l’attuale antropologia internazionale è impegnata a produrre ricerca e innovazione concettuale ed etnografica, per un superamento della antitesi oggi insostenibile fra natura e cultura. Non mi soffermo su questo argomento di sicuro interesse ma anche di improbo attraversamento in poche note.
Se si dovesse sintetizzare l’insieme dei temi qui indicati, direi che le tematiche delle aree protette riguardano culture locali il cui studio (e, con esso, il relativo impegno antropologico) registra un’evidente difficoltà a far dialogare assieme gli spazi territorializzati e i gruppi sociali in una nuova cornice di rapporto umano con la natura. Ciò produce una forte retroazione sullo stile etnografico da prediligere e sulla forma di advocacy antropologia da fare propria, frammentando così il campo antropologico.
Dialoghi Mediterranei, n. 67, maggio 2024
Note
[1] https://agenparl.eu/2024/02/03/abruzzo-gli-allevatori-bocciano-gli-antropologi-al-convegno-di-pescasseroli-sul-tema-convivere-le-scienze-sociali-ed-il-rapporto-uomo-natura
[2]https://agenparl.eu/2024/02/06/abruzzo-gli-allevatori-bocciano-gli-antropologi-al-convegno-di-pescasseroli-la-replica-di-dario-novellino-a-virgilio-morisi/
[3]https://agenparl.eu/2024/02/15/coesistenze-frizioni-confronti-intorno-a-un-incontro-presso-il-pnalm/), intervento ripreso, rielaborato e approfondito in “Dialoghi Mediterranei”, n. 66, marzo 2024
[4]https://agenparl.eu/2024/02/24/il-cuore-e-la-testa-degli-antropologi-ancora-intorno-a-un-incontro-a-pescasseroli-presso-il-pnalm/
[5] https://www.google.com/url?sa=t&source=web&rct=j&opi=89978449&url=https://anpia.it/i-rischi-del-mestiere-antropologia-professionale-in-contesti-conflittuali
[6] https://agenparl.eu/2024/03/21/abruzzo-gli-allevatori-bocciano-gli-antropologi-al-convegno-di-pescasseroli-la-replica-di-virgilio-morisi-ad-alessandro-simonicca/
[7] https://www.kent.ac.uk/anthropology-conservation/people/1046/novellino-dario.
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Alessandro Simonicca, insegna Antropologia culturale presso “La Sapienza” di Roma e Antropologia del turismo e dell’ambiente presso l’Università degli Studi di Siena. Si interessa di teorie dell’antropologia e di vari temi riguardanti le società complesse, tra cui infanzia, educazione, turismo, ambiente, sostenibilità. Ha svolto lavori di ricerca in Toscana, in Sud Italia e, come direttore di una missione etnologica del Ministero degli Affari Esteri, in Sud America. Tra le sue pubblicazioni: Antropologia del turismo (1997); con Fabio Dei, Ragione e forme di vita. Razionalità e relativismo in antropologia (1990) e Simbolo e teoria nell’antropologia religiosa (1998); e, con R. Bonadei, Ripassare le acque. Chianciano Terme: storie, persone, immagini (1999); Turismo e società complesse (2004); Terzo spazio e patrimoni migranti (2015); L’Antropologo legge. Ricognizioni dell’intendere (2019); Sull’estetico etnografico (2019).
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