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di Cristina Marchisio
Siti abbandonati si trovano ovunque. Solo a Roma, la mia città, se ne contano almeno 200. Complessi industriali, edifici dalle più svariate destinazioni, marchi gloriosi dismessi da tempo oggetto di sprechi e speculazione edilizia resistono come macabre cattedrali cristallizzate in un tempo indefinito, immobili testimoni di un passato di incuria e disinteresse.
Adeguati interventi di bonifica e recupero potrebbero trasformarli in risorse ma ad oggi costituiscono motivo di preoccupazione e alterazione paesaggistico-ambientale.
Ogni struttura avrebbe diritto ad una denuncia, ad un racconto della propria storia e di quella di chi vi ha vissuto o lavorato, così da restituirgli la dignità perduta, le voci soffocate, la memoria cancellata.
Ma non è questo il luogo né il mio intento. Quello che vorrei raccontare è la scoperta del bello inaspettato al quale mi hanno condotto la passione per la fotografia e l’attrazione verso i luoghi dell’abbandono.
Da sempre subisco il fascino magnetico dei vecchi edifici scrostati e decadenti e mi sono spesso chiesta quali segreti custodissero. Forse lo stravolgimento delle nostre vite negli ultimi mesi, il senso di sospensione e incertezza sul futuro mi hanno spinto alla ricerca di una dimensione più intima e nostalgica e, spronata a trasformare l’attrazione in realtà, ad entrare in alcuni di questi ecomostri dimenticati.
Ma non solo. Ho sentito il bisogno di esorcizzare le mie paure, di affrontare l’inquietudine per ciò che non conosco, di vivere a pieno quella sorta di eccitazione adrenalinica che mi provoca il camminare nel buio su pavimenti scivolosi o affacciarmi tra dispersive strutture metalliche e orride voragini.
E così zaino in spalla, scarponi da trekking e abbigliamento resistente e ovviamente la fidata reflex con me, mi sono avventurata in un serie di esplorazioni urbane condivise con uno sparuto gruppo di amici appassionati e a volte, incosciente, da sola.
Sono scesa nelle viscere di scheletri di cemento, unica traccia di ambiziosi progetti per la creazione di futuristici impianti sportivi mai completati, il cui vuoto è diventato dimora di disperati senza alternative.
Ex fabbriche e aziende dal passato illustre dismesse da decenni e mai riconvertite che conservano tracce di una vita fiorente, faldoni sugli scaffali, fogli nei cassetti di scrivanie incastonate in pregiate boiserie.
Nei vecchi magazzini dei supermercati vasetti di omogeneizzati, barattoli di legumi ammuffiti sommersi dai calcinacci, sopravvivono alla loro data di scadenza. Antichi macchinari all’epoca all’avanguardia ormai arrugginiti sono ora nido di piccioni.
Si respirano le storie vissute lì dentro mischiate all’odore stantio di muffa e al fumo acre, memoria di incendi forse dolosi, dimenticati anch’essi tra i rottami. Vecchi casolari, case cantoniere, adagiati in un tratto di Roma dove i palazzi diradano, sono ancor più stridenti perché parlano di un’antica e perduta tranquillità contadina.
Ogni volta che scavalco un muro o un cancello divelto facendomi largo tra le erbacce che hanno preso il sopravvento quasi a voler nascondere una vergogna, il tempo è come si fermasse e perdesse la propria dimensione fino ad adattarsi al mio stato d’animo.
Rischio, fatico, mi sporco di guano, i miei sensi si acuiscono e il respiro si congela ad ogni impercettibile rumore. E all’improvviso nel grigiore e nel buio si palesano creazioni inaspettate. Scopro epifanicamente di essere entrata in un museo di arte ipercontemporanea, spettatrice di tesori nascosti.
Le strutture fatiscenti dimenticate da molti, sono il luogo ideale nel quale i “writer” esprimono, indisturbati, la loro creatività, attraverso quella forma d’arte denominata “street art”.
Ritenuti fino a poco tempo fa vandali imbrattatori di muri, i loro interventi sono ora considerati vere e proprie espressioni artistiche, e ancor più che sui muri esterni degli edifici urbani, la loro arte più intima prende vita proprio nei luoghi dell’abbandono, dei quali sfruttano le decadenti strutture architettoniche, tessendo le loro opere nel movimento irregolare degli intonaci crepati.
Al riparo da occhi indiscreti qui più che altrove in solitudine parlano il loro personale linguaggio creando nuovi stili. Opere destinate più a loro stessi che al pubblico, ad eccezione dei pochi temerari ai quali mi sento ora di appartenere.
Fotografo un’opera e ne compare un’altra. Scatto ancora e ancora, in una sorta di incontrollabile bulimia, desidero portare con me la bellezza enfatizzata dal degrado che la circonda, anche perché non so se potrò tornare.
Mi colpisce una frase che sintetizza l’essenza di questi luoghi: “Dove sei? In un luogo indefinibile che ospita una vita sospesa tra passato e presente”.
Dialoghi Mediterranei, n. 53, gennaio 2022
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Cristina Marchisio, nata a Roma, dove vive. Dopo la laurea in Giurisprudenza ha iniziato a lavorare nell’amministrazione dell’allora A.O. S. Camillo Forlanini Spallanzani, prestando altresì attività di docenza nella scuola Infermieri che lì aveva sede. Dopo circa 20 anni ha lasciato per dedicarsi alla numerosa famiglia: quattro figli e un marito molto impegnato nel lavoro. Ha molteplici interessi e le passioni della fotografia e dei viaggi, ereditate dal papà. Si considera una fotografa “istintiva” e solo da poco ha iniziato ad approfondire la tecnica, per scattare in modo più consapevole e sperimentare un tipo di fotografia “creativa”.
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