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Arte popolare in Sicilia. Sopravvivenze

 

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I santi di Daniele Guercio (ph. Todesco)

di Sergio Todesco

 È stato osservato da numerosi studiosi della cultura siciliana come le forme di arte popolare, un tempo elaborate e prodotte nell’Isola da ceti all’interno dei quali tali forme assumevano un peculiare “stile etnico” obbedendo a rigorose esigenze di funzionalità, siano state, durante la seconda metà del XX secolo, progressivamente investite dai devastanti processi di omologazione degli stili ascrivibili all’avvento sempre più imperioso, seppure anodino, della cultura di massa.

Le più pregnanti produzioni figurative che avevano per secoli caratterizzato la messa in forma di oggetti legati al mondo del lavoro e della produzione, ovvero agli universi simbolici del rito, della magia o del mero “decor”, improvvisamente, nel giro di una manciata di anni, iniziarono a contaminarsi smarrendo in breve la loro cifra stilistica, quasi che la mutazione antropologica che nello stesso volgere di anni veniva registrandosi necessitasse, per la sua piena affermazione, di mortificare e rimuovere financo i più intimi segni che le culture tradizionali dell’Isola avevano pazientemente elaborato nel corso plurimillenario della loro esistenza.

Dipinti su vetro, ex voto, pittura dei carretti, cartelloni dell’Opra dei Pupi, statuaria devozionale, arte dei pastori, terrecotte, madreperle, ceroplastica: ognuna di tali espressioni di ciò che convenzionalmente si definisce “arte popolare” venne in poco tempo dismessa ovvero “contaminata” e sottoposta a rapidi processi di folklorizzazione valevoli a trasformarla da segno indicatore di una cultura a merce, destinata ad esser fagocitata nella macchina trituratrice di un turismo consumistico usaegetta proposto a torme di visitatori annoiati e distratti.

Hanno suscitato pertanto in chi scrive una particolare emozione le scoperte, fatte in anni recenti, di alcune enclaves ancora riscontrabili nel territorio della nostra Isola in cui continuano a operare, benché inseriti in un contesto comunitario al cui interno risulta ormai sfilacciata la condivisione dei loro codici stilistici, persone che non si saprebbe come definire – artisti o artigiani – nelle cui produzioni è dato cogliere un tentativo, strenuo ancorché inconsapevole, di perseguire – attraverso il caparbio ancoraggio a una produzione ispirata agli stilemi tradizionali – una sofferta fedeltà alle proprie radici culturali.

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Daniele Guercio al lavoro (ph. Todesco)

Essendosi ormai irrimediabilmente disarticolato il nesso che univa le comunità locali alle forme di lavoro tradizionale esercitate sul territorio da esse antropizzato, uno dei pochi campi in cui è ancora possibile registrare la persistenza di forme di arte popolare in qualche misura “genuine” e non “spurie” (termini coniati dall’antropologo-linguista E. Sapir) è quello della statuaria devozionale. Tra i corpora maggiormente rappresentativi per lo studio e la conoscenza della cultura tradizionale siciliana sono infatti certamente da annoverare le sculture devozionali, la cui circolazione a partire dal XVI secolo ha interessato l’intera Isola.

Giuseppe Cocchiara, in un repertorio ormai famoso (Le immagini devote del popolo siciliano raccolte nel Museo Pitrè, in Archivio Storico Siciliano, Palermo 1939) sosteneva – a proposito dei documenti costituiti dalle immagini devote –  che «… comunque creati si possono considerare popolari per l’uso cui essi sono destinati», in ciò riprendendo le considerazioni svolte un decennio prima da P. Bogatyrev e R. Jakobson (Il folclore come forma di creazione autonoma). Anche per i manufatti di statuaria devozionale è indubbio che la loro origine sia tutt’altro che popolare e che il loro bacino d’utenza, nell’arco dei secoli che ne registrarono l’affermazione e la diffusione, abbia riguardato un amplissimo spettro dell’intero corpo sociale.

È altresì evidente che un excursus storico sulla statuaria devozionale in Sicilia non potrà concernere solo gli esempi prodotti in Sicilia ma anche quelli fruiti nell’Isola; in ordine all’individuazione della “popolarità” dei prodotti figurativi che rappresentano figure numinose o episodi della storia sacra, vanno infatti dati per acquisiti in via definitiva gli esiti della lezione gramsciana (Osservazioni sul folclore e scritti sparsi nei Quaderni del carcere), in base alla quale la popolarità di un bene si definisce per posizione più che per natura: secondo Gramsci infatti «ciò che contraddistingue il canto popolare (ma la notazione può essere agevolmente estesa a qualunque altro fenomeno di natura folklorica n.d.c.) … non è il fatto artistico, né l’origine storica, ma il suo modo di concepire il mondo e la vita, in contrasto colla società ufficiale; in ciò è da ricercare la ‘collettività’ del canto popolare, e del popolo stesso» (Gramsci, Q. 5, 156); la configurazione popolare di una determinata realtà inoltre, quale che ne sia l’origine, inizia a circolare e sopravvivere, consolidandosi in elemento stabile di cultura, solo allorquando essa viene accettata e fatta propria da determinate fasce sociali, come tale da queste riconosciuta sintonica alla propria concezione del mondo, attraverso quella che Bogatyrev e Jakobson avevano chiamato «censura preventiva» (Bogatyrev-Jakobson, cit.).

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Daniele Guercio al lavoro (ph. Todesco)

È stato già notato da qualche studioso come, nell’analisi dei manufatti di arte popolare, sia opportuno evitare di tali documenti una mera lettura estetica ma occorra piuttosto tentare la ricostruzione dei loro contesti d’uso, degli orizzonti antropologici ad essi sottesi, in una parola di ciò che è stato, durante l’arco della loro vita culturale, il loro senso prima che – disarticolati ed espunti dai loro originari universi simbolici – essi divenissero icone di una santità desacralizzata, affascinanti in quanto alla loro variegata fenomenologia grafica ma non più in possesso dell’antica cifra identitaria: la numinosità, la virtù rassicurante e protettiva e anche, in qualche caso, la capacità terapeutica.

Laddove nel caso dei prodotti votivi emerge la prassi consistente nel “pubblicizzare il privato”, riconducendo a una dimensione comunitaria vicende di sofferenza che vengono in tal modo trasformate in forme particolari di linguaggio, nel caso della statuaria devozionale si procede a una “privatizzazione del pubblico”; le statue dei santi, come pure le medaglie e le placche devozionali, le svariate composizioni plastiche relative a soggetti sacri etc. non sono altro che prodotti facenti parte di una prassi fortemente consolidatasi nel corso della storia, quella di guadagnare alla fruizione privata elementi, fatti e figure in genere circolanti per entro precipui contesti pubblici. I regimi di fruizione dei materiali devozionali si sono infatti sempre espletati attraverso un movimento che dall’esterno, a partire dai centri di produzione e di circolazione dei fatti religiosi, le processioni e i pellegrinaggi in particolare, si rivolgeva verso l’interno, per entro i luoghi della devozione e della profilassi domestica.

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Daniele Guercio e la statuetta in lavorazione (ph. Todesco)

In tali contesti le statue raffiguranti Gesù, la Madonna o i santi dismettono in sostanza la loro natura di mere rappresentazioni di realtà invisibili per assumere la caratteristica di luoghi di concentrazione di una Potenza che di volta in volta è chiamata a dispiegare la propria dynamis nei più svariati eventi della vita quotidiana.

Le statue dei santi vengono così esposte in tutti gli spazi nei quali maggiormente necessita un’azione protettiva, apotropaica, propiziatoria; in luoghi “cruciali” dell’abitazione, porzioni di spazio domestico maggiormente soggette a rischio, quali le camere da letto, sopra comò e buffette, spesso conservati sotto una campana di vetro perché anche tale materiale, trasparente e traslucido, concorresse ad accrescerne la numinosità. Lo stesso corpo umano, se malato, può ricevere benefica terapia dal contatto con tali icone, in tal modo piegate ad assumere il ruolo di amuleti contro la malasorte, di potenti dispositivi profilattici. Nella Sicilia tradizionale (intendendo con tale termine la Sicilia di prima della scomparsa delle lucciole) esse erano oggetto di ostensione nei luoghi del lavoro, a garanzia di protezione dagli incidenti e buon esito delle attività, ad es. presso impianti di produzione quali mulini o frantoi, o in luoghi di stoccaggio e conservazione di derrate alimentari o di beni essenziali per la vita familiare come granai e dispense, ma anche all’interno di stalle e ovili, depositi di risorse “pecuniarie” per eccellenza.

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Daniele e Nello Guercio (ph. Todesco)

Un tempo non c’era storu o putìa che non esponesse la statua di un santo protettore rischiarata da un lumino, a significare tanto la devozione dei gestori quanto la protezione di quel santo sull’attività che ivi si svolgeva. Erano presenti sotto forma di sculture a basso o altorilievo sui mezzi di trasporto, come le barche o i carretti, anch’essi bisognosi di protezione dalle incognite del viaggio. Nella medesima prospettiva, manufatti di grandi dimensioni riproducenti Madonne o Santi accompagnano ancora oggi le processioni e i pellegrinaggi; confitti su di un fercolo o issati su artigianali vessilli, essi attenuano l’angoscia dell’andare ponendo sotto l’egida del nume la sorte degli itinerari. E, muovendosi in una più ampia dimensione territoriale, troviamo statue devote distribuite in determinati punti di snodo viario; collocate all’interno di edicole e cappellette votive, esse garantiscono la sacralizzazione, la domesticità, la tutela di spazi altrimenti “naturali”, alieni e rischiosi.

In tutte queste realtà, come è facile rilevare, assume una posizione centrale la categoria della santità. In Sicilia, come in altri areali connotati dalla presenza di forme culturali ancora in parte tradizionali, la santità è oggetto di sistemi suoi propri di rappresentazione. Di fatto, la cultura siciliana ha da sempre avvertito l’esigenza di comprendere entro un’unica categoria classificatoria, quella appunto della santità, uomini e donne che a motivo di un’esistenza virtuosa ottengono il riconoscimento comunitario quali eletti da Dio intermediari di un progetto di salvezza rivolto all’umanità intera. Il santo diventa così di fatto il rappresentante metastorico di una comunità di salvati e viene a trovarsi nella specialissima condizione di colui che, tenendo gli occhi fissi sul divino di cui ormai egli partecipa, volge a tratti lo sguardo sulla umanità sofferente dalla quale egli proviene e alla quale infine si propone come modello da imitare, come luogo di snodo e di mediazione, come fonte di potenza salvifica e terapeutica, come benefica presenza protettiva, come metafora complessiva di un sistema di guarentigie chiamato a fornire orizzonti di speranza e di operatività.

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I santi di Daniele Guercio (ph. Todesco)

Esistono naturalmente forti distinzioni tra la santità canonizzata e per così dire imposta alla comunità dei fedeli e la santità affermatasi a seguito di iniziative collettive “periferiche” per entro un processo di canonizzazione popolare di tipo spontaneistico del quale l’autorità ecclesiastica è costretta quasi a prendere atto e che la stessa cerca in qualche modo di incanalare in un alveo ufficiale al fine di attenuarne gli eccessi devozionali e le spinte effervescenti. Il Concilio di Trento, e poi gli ordini religiosi – in specie i mendicanti – da questo orientati, promossero una forte riaffermazione del culto dei santi proprio per le evidenti potenzialità pedagogiche e di plasmazione e purificazione delle coscienze dai tratti culturali che connotavano gran parte dei sistemi di rappresentazione propri delle plebi rustiche europee nei primi millecinquecento anni dell’era cristiana.

Non a caso i soggetti maggiormente impegnati nella valorizzazione e diffusione delle immagini e delle reliquie dei santi furono gli ordini religiosi cui venne storicamente attribuito il compito, dalla Controriforma in poi, di mediare, attraverso le variegate modulazioni che ne connotavano le rispettive Regole, i complessi e non sempre lineari rapporti tra Chiesa-istituzione e Chiesa-popolo di Dio attraverso strategie di diffusione del messaggio cristiano non monolitiche ma disposte a interloquire e dialogare con le tradizioni locali, a misurarsi con i tratti di esse non immediatamente riconducibili a una spiritualità pura e rarefatta, a plasmare o riplasmare gli aspetti delle culture e subculture etniche che più direttamente mostravano una filiazione dal paganesimo, vero e proprio fiume il cui scorrimento, ancorché sotterraneo, segnò la vita religiosa europea almeno fino alle soglie dell’età contemporanea.

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San Michele Arcangelo (ph. Todesco)

È comunque evidente che, quale ne sia la natura – aristocratica o popolare – dietro ogni santo c’è tutta una comunità che lo elegge tale e ne rivendica la canonizzazione. La divine election, nell’ambito delle dinamiche sociali che entrano in gioco nella storia delle santificazioni, è più la conferma metafisica di una venerazione già affermatasi che la causa prima del riconoscimento dello stato di santità; alcuni santi poi “vengono fruiti” durante la loro vita in maniera pressoché esclusiva dalle fasce medio-alte della società e solo dopo la loro morte, allorquando il corpo santo diviene oggetto di venerazione a volte superstiziosa, anche dai ceti popolari. Sotto un profilo antropologico, naturalmente rispettoso delle dinamiche religiose e teologiche sottese alla storia della santità, il santo qui celebra la sua più intima vocazione, al di là dei peculiari caratteri confessionalmente riconosciuti come disvelamento della volontà di Dio (mediazione, intercessione, protezione, guarigione etc.), attraverso una funzione spesso inconsapevolmente assunta e quasi mai esplicitata in seno alla cultura in cui ha luogo la sua vicenda: quella di mantenere, come sostiene Jean-Michel Sallmann, l’equilibrio della comunità contro ogni fattore interno o esterno che rischi di turbare o scardinare tale equilibrio.

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San Sebastiano (ph. Todesco)

In ordine ai manufatti che raffigurano i santi c’è infine da sottolineare il peculiare statuto di ogni immagine sacra, tanto pittorica quanto plastica, quale immagine responsabile, immagine in grado di fornire responsa in quanto simboleggiante un soggetto o un’entità; su tale tematica si può proficuamente ricorrere alla categoria della transustanziazione elaborata da Georges Didi-Huberman e fatta oggetto di riflessione antropologico-visuale da Francesco Faeta. Secondo tale prospettiva ermeneutica, le immagini numinose, nonché essere mere riproduzioni di un referente (l’immagine di un santo riproduce quel santo) tendono, in contesti di fruizione ancora permeati da una cultura di tipo tradizionale, a confondersi con esso, partecipando in pari grado dell’essenza che lo connota. L’immagine, o la scultura, del santo si trasformerebbe in una sorta di reliquia di esso. E tale invero pare essere l’uso che si è storicamente fatto delle statue sacre, veri e propri dispositivi volti a presentificare e rendere partecipe della storia umana l’ente numinoso nei più svariati contesti della vita quotidiana, sì che l’esistenza degli uomini possa dispiegarsi per entro un sistema garante dell’integrità della persona, al contempo utile a rassicurare l’utente di tale dispositivo sulla congruità e coerenza dei propri orizzonti, tanto al livello del tempo strutturato che a quello del tempo vissuto.

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Santa Venera (ph. Todesco)

Questa lunga premessa giova ad introdurre l’attività di un geniale plasticatore siciliano, da me fortunosamente incontrato circa quindici anni fa. Al ritorno da un convegno tenutosi a Palazzolo Acreide, transitando per Carlentini venni attirato da una serie di bummuli e manufatti ceramici stesi per terra dinanzi l’ingresso di un rustico magazzino. Una volta entrato in esso grande fu la mia meraviglia nel trovare due ceramisti, Nello e Daniele Guercio, padre e figlio, l’uno – un ceramista visionario e anarchico – particolarmente versato nella realizzazione di prodotti utilitari, l’altro – il più giovane – esclusivamente dedito al confezionamento di statue di santi. Queste statue mi apparvero, anche a seguito del dialogo avviato col giovane Daniele e dei tanti altri che ne seguirono negli anni successivi, per un verso il frutto di una predisposizione naturale ascrivibile alla religiosità naif dell’artista, per altro verso esiti straordinari di un singolare assorbimento da parte di costui di stilemi, canoni compositivi e scelte decorative proprie della statuaria popolare ottocentesca siciliana, che si rendeva evidente nella caratterizzazione dei volti e dei corpi dei santi, nella “teatralizzazione” delle espressioni somatiche, nella complessiva architettura dei gruppi plastici, che dispiegavano a ventaglio una gamma incredibile di raffigurazioni.

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San Giorgio (ph. Todesco)

Come ha magistralmente dimostrato Antonino Buttitta è propria dell’arte popolare la capacità di procedere a messe in forma contraddistinte da stilemi fortemente connotati dalla semplicità, dalla mancanza di affermazione individualistica del segno artistico, dall’obbedienza a canoni estetici di tipo “etnico” i cui caratteri possono essere individuati nella costante produzione modulare di soggetti “condivisi” di ampia fruizione all’interno della cultura di appartenenza, piuttosto che dalla ricerca continua di tratti sempre nuovi:

«L’arte popolare non vuole essere evasione. L’artista popolare non vuole fare un’opera altra rispetto alla vita, come l’artista borghese spesso anche contro le sue stesse intenzioni. Ciò perché l’artista popolare non vuole essere diverso dagli altri come l’artista borghese; non vuole fare un’opera bella prima per se stesso e poi per gli altri, ma ben fatta, dove la bontà dell’esecuzione è misurata in rapporto al soddisfacimento delle esigenze per cui l’opera è stata prodotta, dal rispetto cioè della funzione che le era stata assegnata. L’artista popolare sa che tale rispetto è assicurato dalla fedeltà all’insieme delle regole apprese; da qui la sua diversa collocazione rispetto ai modelli tradizionali: mentre l’artista borghese cerca di operare in alternativa ad essi, l’artista popolare ne cerca quanto più possibile la riproduzione» (La pittura su vetro in Sicilia, 1972: 15).

Daniele Guercio, figura “minore” all’interno della bottega paterna, plasma a mano libera l’argilla componendo statue di santi colti nelle loro tradizionali iconografie, accompagnati dai loro attributi ed emblemi di gloria o martirio, raffigurati nella semplice posizione stante, ovvero collocati sui fercoli processionali che durante le feste li vedono sfilare nell’areale orientale, catanese e ibleo, della Sicilia, ma anche piegati a comporre realtà più complesse e articolate quali le circostanze e i contesti del loro martirio, giungendo in tal modo alla realizzazione di veri e propri tableaux dei quali non mi pare esistano esempi analoghi nella produzione “popolare” del XX secolo.

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I santi di Daniele Guercio (ph. Todesco)

Alla composizione plastica dell’argilla a crudo seguono la cottura e la minuziosa coloritura della statua con tempere. Il risultato è sempre di grande effetto. Nelle vare processionali si scorgono ad esempio – miniaturizzati – gli ex voto che nei momenti della festa addobbano effettivamente quel determinato fercolo. I volti dei santi esprimono di volta in volta estasi o sofferenza, gli occhi di San Sebastiano sgranati verso l’alto nel momento culminante del martirio, quelli di un santo in cattedra ieraticamente fissi in avanti. Mi sono trovato insomma di fronte a un inusitato repertorio tradizionale delle figure numinose in Sicilia, e nel corso degli anni ho finito col collezionare – nel corso di ripetute visite nella bottega di Carlentini – un corpus che sarebbe assai piaciuto a Giuseppe Pitrè, ad Antonino Uccello, ad Antonino Buttitta!

Concludo con una nota dolente. Artisti popolari come Daniele Guercio meriterebbero di avere un loro riconoscimento pubblico, accompagnato dallo status di maestri per attività formative finalizzate  alla ripresa di forme del lavoro che la cultura dei consumi e del profitto ha polverizzato, al punto tale che i turisti che affollano i nostri angoli di mondo, che apprezzerebbero oltremodo tali manufatti se ne trovassero la disponibilità, sono costretti ad acquistare squallidi surrogati folkloristici, fatti in serie e dalla dubbia provenienza, incapaci di esprimere in alcun modo quella che per almeno un paio di secoli è stata la gloriosa arte popolare siciliana.

Dialoghi Mediterranei, n.35, gennaio 2019
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Sergio Todesco, laureato in Filosofia, si è poi dedicato agli studi antropologici. Ha diretto la Sezione Antropologica della Soprintendenza di Messina, il Museo Regionale “Giuseppe Cocchiara”, il Parco Archeologico dei Nebrodi Occidentali, la Biblioteca Regionale di Messina. Ha svolto attività di docenza universitaria nelle discipline demo-etno-antropologiche e museografiche. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni, tra le quali Teatro mobile. Le feste di Mezz’agosto a Messina, 1991; Atlante dei Beni Etno-antropologici eoliani, 1995; Iconae Messanenses – Edicole votive nella città di Messina, 1997; Angelino Patti fotografo in Tusa, 1999; In forma di festa. Le ragioni del sacro in provincia di Messina, 2003; Miracoli. Il patrimonio votivo popolare della provincia di Messina, 2007; Vet-ri-flessi. Un pincisanti del XXI secolo, 2011; Matrimoniu. Nozze tradizionali di Sicilia, 2014; Castel di Tusa nelle immagini e nelle trame orali di un secolo, 2016.
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