di Antonio Albanese
Introduzione
Nel quadro di una teologia della storia, caratterizzata da una nuova lettura degli eventi, decifrati e interpretati con tutte le risorse delle scienze umane, si innestava il progetto di una nuova Teologia politica [1], che, erigendosi sulla critica alla filosofia esistenziale, ispiratrice della antropologia rahneriana, reagiva alla visione personalistica ed esistenziale per proporre una teologia del mondo e della società.
L’intenzione chiarificatrice di Johann Babtist Metz, che ne è il fondatore, emerge come una pregiudiziale nel titolo stesso premesso alla nuova elaborazione del progetto di Teologia politica: Glaube in Geschichte und Gesellschaft [2]. Questa rivisitazione, che seguiva la pubblicazione del primo articolo del 1967 [3], che lo stesso autore, incalzato dai critici, aveva indicato come la prima espressione della Teologia politica [4], rivalutava i rapporti della Chiesa con il mondo, attraverso una rivisitazione della dimensione politica dell’uomo nel senso più rigoroso della parola: un essere storico che realizza la sua essenza soltanto in rapporto con la società. L’uomo è se stesso solo attraverso la mediazione del politico; se il politico è ciò che meglio definisce la totalità della esistenza umana.
In virtù di quanto detto, una separazione totale tra fede e politica, sarebbe possibile soltanto in nome di una concezione astratta dell’amore cristiano o di una deriva individualistica e idealistica del soggetto umano. Si ripropone un dilemma in cui si è dibattuto il cristianesimo contemporaneo: per un verso una politicizzazione della fede che rimetterebbe in causa la separazione fra spirituale e temporale; per l’altro verso una neutralità sociale e politica tale da relegare la fede, e la sua riflessione teologica, in una sfera privata totalmente indifferente ai condizionamenti socio-politici, con il rischio di non assolvere più alla funzione profetica del cristianesimo.
Il teologo tedesco Johann Babtist Metz [5] ha magnificamente espresso questo compito critico attraverso un percorso che si ricostruisce su questa opzione di fondo: «lo spunto per una nuova teologia politica è nato dalla questione della possibilità di una “teologia del mondo”, nei rapporti del mondo dell’epoca moderna con i suoi processi dell’illuminismo, della secolarizzazione e dell’emancipazione» [6].
L’orizzonte nel quale si muove Metz è proprio quello della secolarizzazione [7] che guarda al mondo come luogo teologico primario per coglierne la dinamica della teologia politica. La secolarizzazione è stata dunque interpretata come movimento che ha provocato una rottura nei confronti della scelta religiosa tradizionale [8], in una affermazione di progettualità non più legata a delle norme prestabilite [9]. Ecco perché nella concezione del mondo vi è stata una svolta: il passaggio da un mondo divinistico ad un mondo a misura di uomo non più atemporale ma piuttosto un «mondo che sorge dalla storia» [10].
Siamo in presenza di una svolta antropocentrica del mondo che non rappresenta una crisi di fede, ma una nuova possibilità per una nuova opportunità per parlare di Dio a partire dalla reazione alla privatizzazione del cristianesimo verificatasi in seguito alla lotta anti-ecclesiale causata dall’avvento del Secolo dei lumi. Da questa prospettiva, la teologia politica di Metz rappresenta un tentativo di risposta critica che tratta le questioni dal punto di vista di una teologia fondamentale, cioè di una teologia capace di riflettere criticamente sulle implicazioni sociali e politiche della fede cristiana: egli ha sottolineato che la salvezza proclamata da Gesù è costantemente relativa al mondo in quanto tale, non nel senso cosmologico naturale, ma nel senso politico-sociale, in vista del ruolo di fattore critico-liberatore nei confronti dell’universo comunitario e del suo sviluppo storico.
La libertà, la pace, la riconciliazione e il perdono, sono caratteristiche della tradizione biblica e dunque non sono suscettibili di venire monopolizzate nell’ambito privato. In questo senso la teologia politica reagisce alla privatizzazione del messaggio cristiano che ha desunto, dalla sfera dell’intimo e del privato, alcune categorie che in altri termini hanno ridotto la prassi della fede alla decisione del singolo. La teologia che dunque voglia assumere in sé questa critica e questa prospettiva, ha un triplice compito: prendere sul serio l’obiezione dello scetticismo illuminista; operare in favore della liberazione della forza critico-sociale della fede; sviluppare il rapporto con l’ambito politico e sociale come momento favorevole della ̔ragione politica̕ che prende parte a tutte le riflessioni critiche della teologia.
Con queste premesse è possibile capire l’impostazione e la funzione della teologia politica di Metz, solo se si tiene presente la situazione di partenza della riflessione teologica, caratterizzata dalla problematica illumimistica [11] e dalla critica da esso derivata al rapporto tra rivelazione e religione come tra ragione e società. La teologia politica ha cercato di sottolineare il carattere pubblico ed il riferimento sociale del messaggio di Cristo, attraverso l’operazione di deprivatizzazione, cercando di rendere comprensibile l’intreccio della esistenza del singolo nel tessuto della società. Una teologia politica come quella di cui parliamo, è particolarmente aperta alla tradizione della ragion pratica: si studia cioè di mostrare quale sia la responsabilità della fede nelle condizioni che le impone l’epoca moderna tale da non permettere che la teoria teologica diventi una fittizia armonizzazione della realtà. Qui si inserisce a pieno titolo la teologia politica proposta da Metz che cerca sostanzialmente di dare una risposta a questo interrogativo: Nelle condizioni dell’era moderna è possibile una teologia?
Per rispondere a questa domanda, Metz ha sviluppato la prima trattazione diretta, e approfondita, della politicità della rivelazione biblica. Prima in articoli e conferenze, poi nei volumi [12], Metz ha criticato le due interpretazioni più comuni del messaggio cristiano: quella metafisica della scolastica cattolica; quella privatistica di molti teologi protestanti del nostro secolo (soprattutto Bultmann e Tillich), che hanno fatto ricorso alla filosofia esistenzialistica di Soren Kierkegaard e Martin Heidegger.
L’interpretazione metafisica, per Metz, è sorpassata perché si avvale di una visione delle cose che l’uomo moderno non condivide e spesso neppure intende più. Quello che vuole dire Metz, in sostanza, è che nella visione metafisica, sia la realtà che la verità hanno carattere statico; invece l’uomo moderno le intende entrambe in maniera dinamica. Una certa interpretazione metafisica, ma anche esistenziale, ha comportato, a parere di Metz, una privatizzazione della rivelazione biblica che ha ridotto la pratica della fede alla decisione privata dell’individuo. Questa privatizzazione non corrisponde alla visione biblica della realtà; pertanto, dato il carattere pubblico e sociale della rivelazione, la riflessione teologica, conclude Metz, non può sottrarsi al compito che le è proprio: risvegliare le coscienze al processo pubblico che si prolunga tra la realtà di Cristo e la realtà socio-politica.
Bisogna fare due premesse prima di entrare nel vivo delle questioni: a) L’approccio di Metz è quello proprio di un teologo fondamentale [13]; b) Oggi ancora è necessaria una teologia fondamentale ma deve essere concepita in forma diversa che per il passato.
Per Metz, come per Jürgen Moltmann [14], il tema principale della teologia fondamentale continua ad essere quello dei rapporti tra fede e ragione ma in una prospettiva nuova: il confronto tra il cristianesimo e il mondo moderno, per dare ragione della propria fede e della propria speranza, nelle circostanze concrete del mondo di oggi. Bisogna tener presente che il mondo moderno è caratterizzato da una crescente secolarizzazione, che oltre a ridurre la religione alla sfera del privato, tende all’uso critico della ragione. Questo uso critico e pubblico della ragione implica la presa di coscienza di un nuovo tipo di rapporto, tra la teoria e la prassi, che viene formulata a partire dall’illuminismo, e resa inevitabile dopo Karl Marx. Secondo Metz, il cristianesimo si confronta con questa realtà, «non per allinearsi acriticamente alla coscienza comune dominante, bensì per entrare in un conflitto fecondo e convincente con essa» [15]. Si tratta di vedere concretamente come sia possibile nel cristianesimo, come lo interpreta Metz, un uso critico della ragione nella attuale situazione del pensiero. Questo implica la coscienza del suo rapporto con la prassi. Implica cioè una riflessione seria sulle implicanze sociali e politiche della fede cristiana [16].
Normalmente, questo confronto tra cristianesimo e mondo moderno, contiene una serie di problemi complessi e difficili. Da un punto di vista strettamente teologico e storico, ci si può chiedere: perché la Chiesa e la teologia cattolica sono rimaste ostili di fronte alle esigenze del mondo moderno, mentre hanno saputo confrontarsi, più o meno criticamente, con la mentalità, la filosofia e i problemi del mondo antico e medievale? Quale scienza, o serie di scienze, utilizzare per analizzare i problemi del mondo moderno? Come tradurre teologicamente queste informazioni?
Questo breve saggio, non risponde direttamente a queste domande, ma vuole semplicemente esporre l’interpretazione teologica che viene data da Metz al moderno mondo secolarizzato. L’oggetto di queste riflessioni sarà dunque costituito dal modo come questa nuova teologia politica cerca di interpretare il rapporto tra il cristianesimo e il mondo moderno, tenendo conto che la Chiesa è presente nel mondo e nella storia come una istituzione critica.
Il fenomeno della secolarizzazione o mondanizzazione del mondo moderno, come sorgere e affermarsi di una nuova concezione del rapporto dell’uomo con il mondo, rappresenta un processo storico che dura da secoli, e che esplode nella metà del XIX secolo. Un processo storico «avvenuto all’interno del cosiddetto Occidente e che oggi, con la crescente unificazione del mondo, diventa sempre più la situazione di tutti i popoli e di tutte le culture» [17]. Questo fenomeno è stato al centro della riflessione teologica di Metz che gli ha dedicato esplicitamente alcuni saggi pubblicati dal 1962 al 1968 [18], e raccolti nel suo volume Zur Theologie der Welt (1968) tradotto in italiano con il titolo: Sulla teologia del mondo (1969) [19].
Comune a tutti questi saggi, è la considerazione positiva del fenomeno della secolarizzazione, come fenomeno che ha le sue radici nella stessa fede cristiana. Per questa ragione, Metz, rifiuta i tentativi della “teologia delle realtà terrene” [20] e gli stessi sforzi tesi ad inculcare ai cristiani «una disinvolta ̔apertura al mondo̕ con il fine evidente di riacchiappare questo mondo mondano e reinserirlo nel mistero cristiano» [21]. Nel terzo degli articoli summenzionati, Metz accenna ai tratti o caratteristiche proprie del mondo mondano, rilevandone le seguenti:
a) Nella storia dell’Occidente questo processo di mondanizzazione ha assunto la forma della secolarizzazione:
«lentamente, ma altrettanto decisamente e inarrestabilmente, a partire dal tardo medioevo, l’uomo ha tratto fuori la sua società, la sua scienza, la sua cultura, la sua economia dalle enormi mura omnicomprendenti della cristianità medievale e della sua costituzione teopolitica, nella quale Chiesa e teologia costituivano una specie di atteggiamento chiave per la determinazione di tutta la sfera esistenziale» [22].
Qui Metz utilizza la parola ̔secolarizzazione̕ in ciò che, anche secondo altri autori, essa ha di specifico per aggiungere alla nozione di modernità, l’aspetto dell’emancipazione del mondo moderno dalla tutela della religione, della teologia, della Chiesa [23].
b) Questo processo prende inoltre «la forma della manipolazione tecnica e della ominizzazione del mondo. Il mondo, da mondo che abbracciava e sosteneva l’uomo, diventa, con il sorgere e lo sviluppo delle scienze naturali, oggetto e materiale della trasformazione umana» [24]. Da contemplatore, l’uomo diventa trasformatore della realtà mondana; da homo sapiens diventa nuovamente homo faber, homo creator, o in termini più appropriati, homo manipulator. La conoscenza e il dominio, sempre crescente, delle leggi della natura fisica, e della realtà umana in tutti i suoi aspetti (biologici, fisiologici, psicologici, sociologici, economici e politici), fanno in modo che questa manipolazione e ominizzazione del mondo si estenda a tutti i campi della esistenza umana e della realtà mondana [25].
c) Il processo di questa mondanizzazione del mondo prende inoltre la forma di un pluralismo e di una differenziazione sociale, come sorgere di una mobilità e diversità delle sfere mondane, dei ruoli, e dei comportamenti della esistenza umana. E dalla tensione psichica che questo fenomeno porta con sé, sorgono nell’uomo moderno diverse tendenze all’alleggerimento [26].
d) «Il processo della mondanizzazione ha infine, da un punto di vista religioso, la forma della denumizzazione oppure, come direbbe Max Weber, del ̔disincantamento̕ del mondo» [27].
Questa Entnuminisierung o Entzäuberung del mondo corrisponde a quello che altri autori chiamano “desacralizzazione” del mondo, come abbandono di una falsa concezione della natura, della società, della storia, che le considerava come “divine”, manifestazione del divino o, comunque, in stretto e immediato rapporto col divino. Invece, il mondo moderno è il mondo che si coglie nella sua non – divinità, cioè il mondo «nella cui natura e nella cui storia l’uomo non si imbatte nelle ̔vestigia Dei̕ ma nelle ̔tracce̕ del suo proprio agire» [28].
Metz, altre volte, descrive questa svolta avvenuta nel pensiero occidentale, in una forma generale, come il passaggio da una concezione del mondo come natura, ad una comprensione del mondo come storia [29].
Nel mondo pre-tecnico, l’uomo sperimentava il mondo come natura, come una realtà a caratteri divini, come una realtà prestabilita nella quale bisognerebbe leggere l’ordine eterno delle cose. Questa natura era concepita quasi come un soggetto al quale l’uomo si sentiva consegnato, e dal quale si sentiva abbracciato e sostenuto, ma anche minacciato e messo in questione, a causa della oscurità e superiorità delle sue forze e delle sue leggi, che nell’insieme, pur conoscendone una piccola parte, gli sfuggivano. In questo contesto l’uomo faceva la sua esperienza religiosa, che portava con sé il pericolo specifico di vedere Dio e la natura panteisticamente compenetrati.
Secondo Metz, «il mondo non appare più come un tutto universale ̔perfetto̕, bensì come ambiente su cui deve svilupparsi l’azione dominatrice dell’uomo, come ̔materiale̕ (storicamente già segnato) della libera affermazione dell’uomo di fronte a Dio» [30]. Nella svolta che qui caratterizza il mondo moderno, l’uomo sperimenta il mondo come storia [31], come realtà «che sorge ad opera dell’agire umano nel processo della pianificazione tecnico-scientifica o della rivoluzione politica e sociale» [32]. Le leggi della natura, sempre più conosciute e dominate dall’uomo, hanno perso il loro carattere numinoso. E per tutto questo l’uomo sperimenta se stesso come soggetto attivo, dalla quale e con la quale egli costruisce veramente il mondo [33].
Questa concezione del mondo come storia, implica il primato del futuro nella esperienza dell’uomo moderno. Oggi infatti esiste negli uomini una volontà e una passione per il nuovo, oltre che una tensione verso il futuro in senso radicale, come realtà non ancora presente, e come nuovo in senso autentico [34]; «scompare invece la forza diretta della tradizione; ciò che è antico appare subito invecchiato; ̔l’età dell’oro̕ non sta più dietro a noi ma davanti a noi, essa non viene ricordata nei sogni ma attesa creativamente» [35]. Per questo motivo la storia viene interpretata non tanto a partire dalle sue origini, quanto a partire dal suo futuro [36].
Il rapporto dell’uomo con questo futuro del mondo, non può essere puramente contemplativo, giacché la contemplazione o la rappresentazione si rivolgono a ciò che esiste, od è esistito, e costituisce un rapporto piuttosto operativo: un rapporto di pianificazione e di intervento tecnico o rivoluzionario, dell’uomo sul mondo. La conclusione è che «la teoria di questo rapporto è perciò riferita alla prassi: essa viene determinata da una nuova relazione tra teoria e prassi» [37]. Aggiunge Metz: questo nuovo rapporto tra teoria e prassi, necessario per l’interpretazione e la costruzione della storia, è un aspetto della fine della metafisica [38].
Il passaggio dal cosmocentrismo all’antropocentrismo
Secondo il nostro autore, la svolta avvenuta nel pensiero moderno occidentale, può essere anche caratterizzata come il passaggio dal ̔cosmocentrismo̕, proprio del modo greco di pensare, all’ ̔antropocentrismo̕, che caratterizza il pensiero moderno: «intendiamo parlare del cambiamento formale di direzione del pensiero dal mondo all’uomo, dalla natura alla storia, dalla sostanza al soggetto e alla sua soggettività libera, in breve da una struttura concettuale struttura ̔cosmocentrica̕ ad una struttura ̔antropocentrica̕ ed i cui inizi comunemente vengono collegati a quelli dell’epoca moderna[…]» [39].
Certamente anche il pensiero greco è antropocentrico, ma soltanto da un punto di vista materiale, tenendo presente la struttura e il modo come concepisce e considera l’ordine delle cose. Dal punto di vista formale, il pensiero greco è cosmocentrico. Per un pensiero formalmente cosmocentrico, il modello di comprensione delle determinazioni dell’essere è l’oggettività cosmica, come si realizza nelle cose e nella natura, soprattutto nelle realtà spaziali o nella presenza delle cose nello spazio. L’uomo viene ad essere concepito come uno degli esseri, uno degli oggetti, una delle cose, uno dei casi all’interno di questa concezione generale dell’essere che ha il suo punto di partenza, la sua prospettiva e il suo orizzonte generale, nel mondo infraumano delle cose. Si può concludere che questo modo di pensare è incapace di sottolineare il modo di essere proprio e caratteristico dell’uomo che determina la sua soggettività!
Per un pensiero formalmente antropocentrico, il modello tipo di comprensione dell’essere, è la soggettività dell’uomo, il suo essere cosciente di sé, il suo disporre di sé. L’essere delle cose e del mondo infraumano, è concepito a partire dalla soggettività dell’uomo, nell’orizzonte e nella prospettiva dell’uomo, in rapporto con il suo proprio modo di essere [40]. In questo senso Metz intende la svolta antropocentrica propria del pensiero moderno. Siamo ancora all’interno di una filosofia di tipo trascendentale-esistenziale che sarà in parte abbandonata, e in parte corretta, dal successivo svolgersi del pensiero sulla teologia politica.
Dalla stessa descrizione del processo di mondanizzazione del mondo moderno, appare che esso porta con sé dei pericoli e delle ambiguità. L’atteggiamento di Metz nei confronti di questo processo non è affatto ingenuo, ottimista o senza problemi [41]. Infatti la differenziazione sociale propria di questa situazione del mondo in divenire, fa sorgere un pluralismo incontrollabile, un divenire mai pienamente domato dall’uomo [42]. In genere si deve notare che l’ominizzazione del mondo non è per se stessa una umanizzazione: lo sviluppo della scienza e della tecnica è tale che possono minacciare anche l’uomo, perché anche gli uomini sono esposti alla “manipolazione”, e perché ogni uomo corre il rischio di essere degradato ad oggetto di quella pianificazione e regolamentazione, sperimentatrice e dominatrice del mondo. Occorre dunque portare molta attenzione al fatto che agli inizi del mondo ominizzato, accanto all’enorme pericolo di una disumanizzazione, appare anche la possibilità, consegnata alla nostra responsabilità, di una umanizzazione più profonda dell’esistenza umana [43]. Si tratta in fondo dei pericoli connessi al ̔tecnocratismo̕.
Dalla prospettiva della sua teologia politica, Metz vede ancora un altro pericolo che può derivare da una concezione unilaterale del primato del futuro: il pericolo della «perdita delle origini, della memoria e della tradizione, e del pericolo quindi della perdita di contenuti in un agire storico determinato da siffatta concezione» [44]. Anzi, almeno per il Metz della prima fase, sembra che soltanto la fede possa salvare da alcuni dei pericoli connessi con la mondanizzazione del mondo. Egli infatti afferma:
«l’autentico non credente in ultima analisi falserà sempre questa mondanità esasperata con le sue ideologie – o nell’utopismo di una ingenua fede nel progresso, di un paradiso intramondano ecc. oppure del nihilismo tragico e nello scetticismo rassegnato nei confronti del mondo. Così in mezzo al nostro mondo mondano sorgono ancora oggi nuovi miti. E, come ogni mito, essi hanno in sé qualcosa di artificiale, opprimente, quasi di impacciato. Questi miti, e non già l’autentica mondanità del mondo, costituiscono gli autentici pericoli della nostra situazione di credenti e la disgrazia del nostro tempo» [45].
Se questi pericoli vanno annessi sempre all’ateismo autentico, se ne potrebbe dedurre, per contrapposizione, quale è, secondo il nostro autore, l’apporto specifico della fede cristiana alla costruzione della storia: esso consisterebbe soprattutto nella capacità critica nei confronti di ogni mito e di ogni ideologia, e inoltre nella capacità di ridare quella speranza che supera il nichilismo e la rassegnazione scettica nei confronti del mondo. A partire da quanto detto, si possono fare due domande critiche: Quale è il fondamento di questo privilegio dei credenti sui non credenti? Quale è la ragione per cui gli autentici non credenti non sarebbero capaci di esercitare queste stesse funzioni e di evitare questi pericoli?
Interpretazione teologica della secolarizzazione
È costante nel nostro autore, l’autoaffermazione che la mondanizzazione del mondo, benché non nelle sue singole forme storiche, ha anche nel cristianesimo i suoi inizi storici. Ecco la formulazione più esplicita di questa sua tesi:
«la mondanità del mondo, quale è andata sorgendo nel processo moderno di mondanizzazione e quale si presenta a noi oggi, in forma globalmente esasperata, è sorta nel suo fondamento, anche se non nelle sue singole manifestazioni storiche, non già contro, bensì grazie al cristianesimo; essa è originariamente un avvenimento cristiano e testimonia così nella nostra situazione mondana, la capacità di dominazione interna alla storia dell’ora di Cristo» [46].
Anche in un altro saggio egli afferma che: «tra il primato del futuro che guida la concezione del mondo come mondo storico che sorge operativamente e la concezione del mondo biblica e giudeo- cristiana, esiste una connessione intrinseca e casuale» [47]. Per Metz infatti la svolta antropocentrica che è propria del mondo moderno, si trova già presente nell’esperienza biblica e cristiana del mondo come storia, come realtà che diviene e sorge dalla storia nell’orizzonte della promessa divina, e come processo di cui sono necessariamente responsabili i credenti. Questa concezione si distingue da quella greca del mondo come cosmo, come natura, come spazio fisso e prestabilito nel quale si ha un ritorno monotono della stessa realtà. Ebbene, dice Metz, «intendere il mondo non già come cosmo, come natura che spiega se stessa, bensì come storia, significa intenderlo nel suo rapporto all’uomo e nella mediazione dell’uomo, spiegare cioè il mondo a partire dal suo antropocentrismo formale» [48].
Per far vedere come questa concezione biblico-cristiana sia effettivamente operante nella storia, bisognerebbe esaminare se e in quale misura essa sia rimasta presente nella sua articolazione al di dentro della filosofia greca, con i suoi aspetti pagani e il suo divinismo; e come essa abbia influito nell’attenzione che il tardo medioevo e l’epoca moderna hanno dedicato al soggetto, con il conseguente sorgere delle scienze naturali e l’inizio storico della ominizzazione del mondo [49]. L’autore stesso sostiene che già la struttura formale del pensiero di San Tommaso d’Aquino è antropocentrica, benché resistano, nel suo contenuto materiale, dei residui di cosmocentrismo [50].
I temi o le istanze del messaggio cristiano a cui Metz ricorre per appoggiare questa sua interpretazione cristiana della secolarizzazione, che, come vedremo, egli distingue dal secolarismo, sono i seguenti:
a) La fede cristiana in Dio come creatore trascendente comporta una secolarizzazione iniziale del mondo, perché essa fa capire che Dio, pur non abbandonando il mondo, lo lascia esistere come mondo, nella sua non divinità. Tutte le realtà mondane appaiono al credente come non divine, disincantate e demitizzate; non assolute o superiori all’uomo, ma consegnate alla sua responsabilità, alla sua comprensione e al suo dominio attivo, per far sorgere questo mondo come storia in risposta alla promessa divina. La controprova di ciò, si trova nel fatto che laddove manca la fede in un creatore trascendente, come nel mondo greco e pagano, il mondo appare divinizzato o semi-divinizzato, numinoso, superiore all’uomo, sottratto al suo dominio [51].
b) Alla luce del messaggio biblico-cristiano, il mondo non appare come lo spazio in cui si svolge il dramma della libertà umana; esso piuttosto appare consegnato alla libertà umana. Metz cita la Prima lettera ai Corinzi, in particolare 1Cor (3,22), per mostrare come il mondo sia consegnato da Dio all’uomo, che a sua volta esiste di fronte a Cristo e a Dio che lo chiama a un libero dialogo di amore nella costruzione del mondo, nella sua caduta colpevole, e nei suoi slanci resi possibili dalla grazia [52].
c) Nella sua interpretazione cristiana della secolarizzazione, Metz dà particolare importanza al tema cristologico della incarnazione del Verbo [53]. Nel suo farsi uomo, Dio ha manifestato che egli accetta e si rapporta con il mondo attraverso l’uomo. Inoltre, in questa sua incarnazione, Dio appare come il creatore trascendente che assume, senza sminuire né mortificare, la realtà umana e mondana lasciandola esistere nella loro creaturalità, nella loro non divinità. La natura umana di Cristo, infatti, non è succhiata né divinizzata dal Verbo che la assume, bensì posta e lasciata esistere da Dio nella sua non divinità, senza sminuirla o degradarla nella sua umanità. Il Dio creatore appare qui non come il concorrente, ma come il garante della mondanità del mondo. Secondo Metz, «Dio non distrugge – e proprio qui sta la divinità – l’altro nella differenza che lo distingue. Egli piuttosto accetta l’altro proprio in quanto altro da sé» [54]. Per tale motivo, la accettazione e assunzione di Dio ci rende veramente liberi, come il Cristo che rimane libero nel suo dialogo di amore con il Padre.
Metz sottolinea a questo punto come, per intendere meglio il significato della creazione e della incarnazione, ovvero della accettazione da parte di Dio del mondo nell’uomo, occorre lasciare i modelli concettuali (cosmocentrici), tratti dal nostro rapporto con la natura, e utilizzare modelli e categorie esistenziali (antropocentrici), tratti dal nostro rapporto esistenziale con gli altri. In questo caso, egli propone l’utilizzazione del modello rappresentativo dell’amicizia umana, che, secondo l’autore, ci rende più attenti al fatto che, attraverso questa accettazione liberante del mondo, si rende possibile la forma più profonda della sua appartenenza a Dio[55], che non è quella del rapporto tra schiavo e padrone, bensì quella della libera amicizia. Dio assume il mondo e la sua storia in Cristo lasciando agli uomini nella loro libertà e chiamandoli a questo libero rapporto di amicizia. Ma lo assume anche come redentore e liberatore dal peccato e dalla alienazione. Ciò significa che Dio non interferisce nell’esercizio della libertà umana, ma gli offre la possibilità di liberarsi dalle sue alienazioni. E significa anche che la storia del mondo è insieme, la storia del peccato e la storia della grazia. Tutto questo spiega sia l’ambiguità e i pericoli che sono connessi con il processo di mondanizzazione del mondo, come è stato rilevato sopra, sia la responsabilità degli uomini in questa storia [56].
d) Posteriormente Metz dà sempre maggior importanza alla interpretazione escatologica e politica della secolarizzazione, notando però esplicitamente che questa prospettiva non esclude il rapporto con la sua precedente interpretazione cristologica e antropologica [57]. Questa nuova interpretazione [58], parte dalla considerazione che la parola rivelata nel Vecchio Testamento è innanzitutto parola di promessa: «la sua asserzione (Aussage) è avvertimento (Ansage), il suo annuncio (Verkündigung) è preannuncio (Ankündigung) del futuro e quindi disdetta (Aufkündigung) del presente» [59]. La parola della promessa rimanda a un futuro che chiama la nostra libertà alle sue possibilità storiche e che pertanto contiene un elemento rivoluzionario nei confronti del presente [60].
Anche nel Nuovo Testamento, la fede in Cristo, che è sempre una vittoria su di noi stessi e sul mondo, fa sorgere la speranza come attesa e resistenza liberante e creatrice. Tutto ciò esige, secondo Metz, uno sviluppo della teologia come escatologia, nel senso che questa sia la forma di ogni affermazione teologica [61]. Infatti, soltanto nell’orizzonte escatologico della speranza, il mondo si manifesta come storia. E soltanto da questo punto di vista si potrà determinare come si comporta la speranza cristiana di fronte alla pianificazione umana del futuro [62]. È a partire da questa interpretazione cristiana della mondanizzazione del mondo, con la quale siamo già arrivati ai temi propri della teologia politica, che Metz cerca di ricavare alcune indicazioni circa l’atteggiamento del cristiano nel mondo moderno.
Esistenza e responsabilità cristiana nella mondanizzazione del mondo
La situazione moderna del mondo viene esperimentata da molti cristiani come crisi e scossa della loro coscienza di fede, in quanto essa comporta la scomparsa di molti mezzi familiari della esperienza religiosa, e quindi, la crisi delle abituali rappresentazioni religiose della fede cristiana [63]. Questa difficoltà aumenta se si tiene presente che le forme più importanti e specifiche dell’ateismo teorico si sono presentate come spiegazioni di questa nuova esperienza del mondo, cioè come interpretazioni di questa svolta da un mondo divinizzato ad un mondo ominizzato: dall’esperienza del mondo come natura numinosa, all’esperienza del mondo nell’orizzonte della libertà creatrice dell’uomo e della a-teizzazione [64]. Come espressione di questo ateismo teorico, Metz ricorda Nietsche che proclama la morte di Dio; Marx e la sua critica della religione; Russel che annulla il futuro della incredulità. Tutte queste forme considerano il cristianesimo come qualcosa di inseparabile da una visione in qualche maniera divinizzata del mondo, e, quindi, incapace di assumere la moderna mondanità del mondo e la responsabilità degli uomini nella costruzione del futuro [65].
Il nostro autore rifiuta queste interpretazioni secolaristiche del processo di mondanizzazione del mondo. Egli spiega il loro carattere di protesta contro Dio e contro la Chiesa, in parte come manifestazione dell’ambiguità del processo di mondanizzazione che deriva dalla presenza del peccato nella storia umana, e in parte a causa della incomprensione della Chiesa nei confronti di questo processo; incomprensione che ha fatto apparire il cristianesimo come nemico di un processo che in realtà ha le sue origini, anche nel fatto cristiano, nell’assunzione del mondo e della storia da parte di Dio in Cristo [66].
Da questa prospettiva, Metz cerca di risolvere la crisi di identità del cristiano di oggi, indicandogli come deve realizzare la sua esistenza e la sua responsabilità di cristiano nel mondo moderno. Egli nota che non si tratta di trovare, come fa certa teologia, degli accomodamenti posticci a questo mondo. Si tratta invece di continuare a credere esponendosi alla crisi causata da questa nuova esperienza del mondo. Si tratta di trovare nuovi modi di porsi, come credenti, di fronte a questo mondo, attraverso l’imitazione credente del descensus di Dio nel mondo, della assunzione liberante del mondo in Gesù Cristo [67].
Il credente deve saper assumere il pluralismo del mondo, accettando la lacerazione propria di una realtà mai pienamente domata, senza voler imporgli una unità globale o ideologica, ma cercando la sua unità personale nella fede in Dio che gli dona la capacità di assumere il mondo lasciandolo esistere nella sua alterità. Il credente deve impegnarsi nel divenire del mondo, accettando l’insicurezza e la minaccia che proviene dal suo futuro, sempre nuovo e imprevedibile, liberandolo dagli ottimismi puramente intramondani, ma lasciandolo esistere e collaborando alla sua costruzione con la speranza rivolta al futuro promesso da Dio.
Nella costruzione di questo futuro, il cristiano deve vivere la sua responsabilità di fronte alla disumanizzazione del mondo: incontrare Dio in ogni fratello significa infatti affermare ed accettare l’assolutezza dell’altro, difendere l’altro dalla minaccia di essere asservito e utilizzato come materiale per la pianificazione del futuro [68]. Da tutti questi accenni appare come la responsabilità della fede sia cresciuta in modo smisurato: «l’ominizzazione del mondo non può essere abbandonata alle ideologie; essa deve essere presa nella speranza come onere e compito del credente. Tutto ciò che noi abbiamo tentato di dire era volto al fine di mostrare che la fede ha questa possibilità» [69].
Il cristiano deve anche rispettare l’autonomia propria del mondo. Egli non deve tendere a cristianizzarlo, nel senso di sottometterlo a qualcosa di sovramondano o di ecclesiale, ma piuttosto contribuendo alla sua autentica mondanizzazione, che è minacciata dal peccato e resa possibile dalla grazia di Dio [70]. E la Chiesa stessa, «in quanto segno storico, visibile ed istituzione intramondana di questa grazia, non costituisce quindi la concorrente, bensì la garante del mondo» [71]. È in questa prospettiva che la fede troverà nuove forme, forse meno vistose e visibili, di realizzare il suo rapporto con Dio e con il mondo [72].
La responsabilità del cristiano e della comunità dei credenti nei confronti del mondo, si esercita in una forma indiretta. Anzitutto nel senso che «la fede non può intromettersi o intervenire direttamente e immediatamente nel processo di pianificazione tecnologica» [73]. Bisogna rispettare infatti l’autonomia propria delle leggi della politica, senza evadere dall’impegno politico:
«è proprio qui, nella dimensione politica e sociale che interviene – indirettamente – la responsabilità della comunità cristiana: non nel senso che la comunità cristiana, mediante questo intervento, preme nuovamente per il potere, ma nel senso che essa deve intromettersi, con la propria coscienza critica e liberante del futuro cristiano, in quella realtà socio-politica nella quale viene programmata questa pianificazione. Questo presuppone però che la comunità cristiana mobiliti in maniera totalmente nuova la potenza critica sociale, in qualche maniera politica, della propria fede e della propria speranza» [74].
Arrivati alle conclusioni, sorge naturale la domanda: Cristianizzazione o mondanizzazione del mondo? Il dilemma prospettato è stato riassunto da Metz nella idea che il compito dei cristiani è quello di cristianizzare il mondo che non può non significare, secondo Metz, fare di esso proprio un mondo. Cristianizzare non può cioè significare sottomettere il mondo con qualcosa di a/sovramondano; cambiargli i connotati o imporgli una nuova dimensione, come privarlo della sua mondanità per immergerlo in una luminosità splendida e divina. Non una cristianizzazione nel senso di una manipolazione o di una sublimazione di queste realtà, ma proprio una liberazione alla loro origine. Per cui, la cristianizzazione del mondo, non deve essere intesa come privazione della autonomia che compete alla attività umana e alle realtà terrestri.
Le critiche che si possono rivolgere a questa impostazione della teologia della secolarizzazione di Metz, a mio avviso, sono tre:
a) Il confronto tra la fede cristiana e il mondo moderno, rimane soltanto ad un livello idealistico, al livello dei concetti, delle concezioni generali dell’una o dell’altro. Infatti, uno dei problemi di questa teologia, è quello di spiegare perché la fede cristiana non ha esercitato il suo effetto di secolarizzazione prima dell’epoca moderna. Metz cerca di spiegare questo ritardo, distinguendo tra un principio o forma di pensiero (antropocentrico), e il suo sviluppo e realizzazione storica, concreta, categoriale, materiale. Ma ciò rischia di rimanere soltanto una tesi nella misura in cui non si confrontano realmente la realtà della fede nella storia del mondo, con questa stessa storia. Non basta nemmeno distinguere tra una buona e una cattiva secolarizzazione, identificando quest’ultima con l’ideologizzazione secolaristica, intesa come assolutizzazione della stessa mondanizzazione del mondo. Si dovrebbe poter dimostrare, in forma concreta, che la fede cristiana e la Chiesa, non solo hanno il privilegio di non interpretare ideologicamente il mondo, ma hanno anzi il privilegio di essere la fonte della critica di ogni ideologia assolutista che tende ad asservire gli uomini. Mentre non si discende al livello della storia concreta della fede cristiana, questa affermazione del compito critico della fede sembra rimanere soltanto una tesi, o qualcosa di puramente concettuale. Tra l’altro, ci sarebbe anche da precisare, in quale misura le Chiese cristiane promuovono oggi una vera secolarizzazione.
b) Come seconda considerazione critica, bisogna dire che la teologia della secolarizzazione rischia di essere soltanto una legittimazione della riduzione della fede cristiana alla sfera privata. In realtà, la sua preoccupazione principale è quella di risolvere la crisi di identità dei singoli cristiani espliciti. Con questo essa rischia di restringere la sua problematica più al livello delle difficoltà che la fede dei singoli cristiani incontra, che al livello di un loro confronto e un loro impegno critico nel mondo. Inoltre, di fronte alla situazione storica della Chiesa visibile, di fronte alla desacralizzazione che avviene nella stessa Chiesa per la perdita di valore delle sue forme storiche di espressione della religiosità, la teologia della secolarizzazione, che vuole rispondere anche a questo problema, rischia di ridurre la fede alla risposta personale ed esistenziale del soggetto credente. Risposta che lo unisce e lo identifica con la Chiesa invisibile della fede. Questo rischio è evidente nella elaborazione teologica di Metz, nella misura in cui essa si ferma nel passato a utilizzare delle categorie trascendentali-esistenziali-personalistiche nella sua interpretazione della fede e del suo compito nel mondo moderno. Infatti, da questa prospettiva, appare più chiaramente che l’unità del credente non si realizza nel suo impegno nel mondo, bensì al livello della sua risposta esistenziale a Dio, che egli incontra anche nella relazione personale con i fratelli. In fondo, tutto questo significa ridurre la fede, come conseguenza negativa della stessa secolarizzazione, e come legittimazione di questa conseguenza, alla sfera privata dell’a-politicità. È vero però che Metz sfugge a questo pericolo quando abbandona, o completa la sua interpretazione teologica di tipo trascendentale- esistenziale-personalista, con la sua interpretazione escatologico-politico.
c) Infine si può dire che la teologia della secolarizzazione è una ideologia religiosa, in quanto essa rappresenta la sovrastruttura ideologica della società tecnocratica attuale, cioè un tentativo per permettere ai cristiani di adattarsi al mondo, senza cercare di trasformarlo in profondità. Questa è in parte una conseguenza di quella tendenza alla privatizzazione di cui si è parlato sopra. Ma si evidenzia anche nel fatto che il mondo mondano di cui parla questa teologia della secolarizzazione, anche quella di Metz, è in realtà il mondo della società tecnocratica attuale, caratterizzata per la sua tendenza alla de-politicizzazione della esistenza dei singoli.
Si può senz’altro dire che questa teologia ha il merito di aiutare, i credenti e la Chiesa, a razionalizzare le manifestazioni storiche della loro fede; ma sui tempi lunghi si dovrà riconoscere che una Chiesa di questo tipo si alienerebbe a tal punto che non potrebbe esercitare nessuna critica sostanziale nei confronti della società. I cristiani che volessero impegnarsi seriamente alla trasformazione in profondità della società borghese, sarebbero costretti a farlo in una situazione di non identificazione con questo tipo di Chiesa.
Dialoghi Mediterranei, n. 63, settembre 2023
Note
[1] «Con il concetto di teologia politica si intende, in senso ampio, ogni possibile relazione che intercorre tra la politica e la teologia. Da tale concetto si possono evincere, in particolare, tre significati differenti, ciascuno dei quali corrisponde a uno dei tre intrecci possibili tra i due termini che costituiscono l’espressione. Nel caso in cui l’accento sia posto soprattutto sul termine teologia, possiamo intendere con l’espressione teologia politica una sorta di politica della teologia, il cui intento principale consiste nel porre in luce come un determinato ordine politico sia subordinato al dettame religioso, quindi condizionato da qualsivoglia riferimento al sacro o al teologico. Nel caso in cui i due termini tendano a equivalersi concettualmente, abbiamo a che fare con una riflessione sull’essenza teologica della politica e sul valore filosofico-politico intrinseco a ogni teologia, in modo tale che emergano le analogie vigenti tra concetti teologici e concetti politici. Nel caso, infine, in cui l’accento sia posto soprattutto sul termine politica, possiamo intendere con l’espressione teologia politica una sorta di teologia della politica, vale a dire una dottrina teorica che si sofferma sul potenziamento che un’impostazione teologica offre alla dimensione politica, rafforzando il legame comunitario e l’ordinamento interno di una società»: M. Scattola, Teologia politica, Bologna 2007: 43. Nel corso del Novecento, in relazione al crescente pluralismo religioso che si intreccia con l’affermazione definitiva del fenomeno della secolarizzazione, e con l’assunzione di nuove prospettive escatologiche richieste nel mondo cristiano quale risposta a tale fenomeno, viene formulata una nuova visione della Teologia politica. La nuova Teologia politica si presenta come la soluzione migliore per far uscire il messaggio evangelico dal vicolo cieco della deriva intimistica e privatistica. Siamo negli anni Sessanta, e le varie forme di teologia politica che prendono piede, tendono a seguire i modelli teoretici che mettono in evidenza il carattere politico intrinseco alla teologia, e strettamente unito alla promessa escatologica della speranza che un giorno Cristo ritornerà sulla terra. Il rappresentante più famoso della nuova Teologia politica è Johann Baptist Metz.
[2] J.B. Metz, Glaube in Geschichte und Gesellschaft, Mainz 1978; trad. it., La fede nella storia e nella società. Studi per una teologia fondamentale pratica, Queriniana, Brescia 19852.
[3] J.B. Metz, Kirche und Welt im Lichte einer Politischen Theologie, in Id, Zur Theologie der Welt, Verlag, Mainz – Grünewald 1969: 99-116.
[4] Per quanto riguarda il dibattito e le critiche: Cfr. J.B. Metz, La teologia politica in discussione, in Dibattito sulla teologia politica, Queriniana, Brescia 19722: 251-276.
[5] Johann Baptist Metz, è nato in Germania (Velluck) il 5 Agosto1928. Ha studiato filosofia e teologia, prima a Bamberga, poi a Innsbruck e Monaco di Baviera. Consegue il dottorato in filosofia nel 1952, e in teologia nel 1961. Discepolo di Karl Rahner, dalla cui impostazione trascendentale si è poi allontanato sensibilmente, è annoverato fra i fondatori e i massimi rappresentanti di quella nuova teologia politica Metz, come tentativo di formulazione del messaggio escatologico nella società contemporanea. La sua proposta trova eco soprattutto fra i teologi della liberazione latinoamericani, ma avrà vasto eco anche nel mondo accademico. Come pochi altri teologi, Metz, non solo ha cercato, ma ha anche alimentato il dibattito culturale. Fa parte di ciò il dialogo e il confronto con il marxismo e i rappresentanti della scuola di Francoforte: i filosofi Theodor W. Adorno, Max Horkheimer e Jürgen Habermas con i quali intrattiene un’amicizia autentica. Senza Metz, nel 2004, a Monaco, non si sarebbe giunti alla discussione tra Habermas e l’allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, il cardinale Joseph Ratzinger, il futuro Benedetto XVI. La sua è stata una carriera molto lunga che lo ha visto dal 1963 al 1993 come docente di teologia fondamentale all’università di Münster. Successivamente ha insegnato Christliche Weltanschauung (la visione cristiana del mondo) all’università di Vienna, come docente invitato. Membro consultivo di diverse istituzioni ecclesiastiche, scientifiche e culturali, è pure da annoverarsi tra i fondatori della rivista internazionale di teologia Concilium. La sua produzione scientifica è notevole ed ha avuto un’eco mondiale per i dibattiti che ha suscitato. Ricordiamo in particolare, tra le sue opere, Christliche Anthropozentrik. Über die Denkform des Thomas von Aquin (1962); Zur Theologie der Welt (1969); Reform und Gegenreformation heute (1969); Glaube in Geschichte und Gesellschaft (1977); Unterbrechungen. Theologish-politische Perspektiven und Profile (1981); Kirche nach Auschwitz (1993); Zum Begriff der politischen Theologie (1997). Muore nel 2019, dopo aver dato il suo ultimo contributo ad un volumetto a tre voci sul Natale: J.B. Metz – L. Boros – L. Santucci, Natale. Memoria, Silenzio, Utopia, Queriniana, Brescia 2019.
[6] J.B. Metz, Teologia politica: questioni scelte e prospettive, in K. Füssel – J.B. Metz – J. Moltmann, ʽa cura diʼ, Ancora sulla ʽteologia politicaʼ: il dibattito continua, Queriniana, Brescia 1975: 52.
[7] Cfr. G. Angelini, La vicenda della teologia cattolica del secolo XX. Breve rassegna critica, in Dizionario Teologico Interdisciplinare, vol.III, Marietti, Torino 1977: 585-648.
[8] L’approccio teologico al fenomeno della secolarizzazione, soprattutto per quella corrente definita della “teologia radicale”, riceve un contributo fondamentale, per l’esame del fenomeno, dalla sociologia della religione. Merita la lettura di un vecchio articolo di Roberto Cipriani che giustamente ricorda come il fenomeno della secolarizzazione, affrontato comunque da molti teologi di origine protestante, è abbastanza complesso e confuso ma gravido di una maggiore chiarificazione e problematizzazione, in vista di un esaustivo sviluppo per il futuro: Cfr. R. Cipriani, Elementi sociologici nella teologia della secolarizzazione, in Studium IV-V, 1973: 3-15.
[9] Se si assume una lettura fenomenologica della secolarizzazione, la caratteristica più rilevante è il mondo diventato adulto, in un processo di demitizzazione che per Metz, insieme alla secolarizzazione, sembra identificarsi secondo un certo grado di intenzionalità.
[10] J.B. Metz, Sulla teologia del mondo, Queriniana, Brescia 19743: 138.
[11] L’illuminismo secondo Kant, consiste nella uscita degli uomini da una minorità a loro stessi dovuta, oltre che nel coraggio e nella libertà di fare della ragione un uso pubblico in tutti i settori. L’illuminismo persegue pertanto l’intenzione di superare le varie forme di dominazione per garantire l’autonomia della libertà a tutti gli individui. Una religione, nella misura in cui è vista come fonte della superstizione, della ignoranza e della intolleranza, cade sotto il verdetto della critica dell’illuminismo che opera per smascherare la falsa coscienza operante in questi ambiti.
[12] Cfr. J.B. Metz, Il problema di una “Teologia politica” e la Chiesa come istituzione di libertà critica nei confronti della società, in Concilium VI, 1968: 13-31; Id., Teologia politica, in Sacramentum mundi, vol.VIII, Morcelliana, Brescia 1969: 307-317. Sono poi seguiti tre volumi che formano una trilogia: Sulla teologia del mondo, Queriniana, Brescia 19743; La fede nella storia e nella società. Studi per una teologia fondamentale pratica, Queriniana, Brescia 19852; Sul concetto della nuova teologia politica 1967-1997, Queriniana, Brescia 1998.
[13] La teologia fondamentale è quella disciplina interna alla teologia cristiana che intende chiarire i fondamenti, o i presupposti epistemologici del sapere teologico; cioè vuole chiarire se, e in che misura, l’uomo può parlare di Dio e delle verità a lui relative, che di per sé sono trascendenti, cioè al di fuori della portata dell’uomo. Nella sostanza essa coincide con l’apologetica (dicitura usata a partire dai primi secoli dell’era cristiana), ovvero, con la difesa da tutti gli attacchi esterni ai dogmi della fede cristiana. All’interno del suo ambito si trovano problemi come l’essenza della verità, l’esistenza di Dio, la fede e il suo rapporto con la ragione e con la scienza, l’esistenza e il significato del male (teodicea), il rapporto tra la fede cristiana e le altre religioni.
[14] Jürgen Moltmann è nato ad Amburgo l’8 Aprile 1926. Trasferitosi in Inghilterra, iniziò i suoi studi teologici, per poi proseguirli al suo ritorno ad Amburgo. Coinvolto nei primi movimenti di studenti cristiani tedeschi, studiò a Gottinga, dove venne a contatto con i seguaci di Karl Barth. In seguito divenne docente di teologia sistematica a Bonn (1963) e alla facoltà di teologia evangelica di Tubinga (1967). Forse uno dei massimi teologi evangelici contemporanei, è l’iniziatore della Teologia della speranza, una corrente di rinnovamento del pensiero teologico tradizionale che, benché sia nata in Europa, ha trovato più risonanza in America. Il corso della riflessione del pensiero teologico di Moltmann si è orientato sempre più verso quella ch’egli ha definito teologia della Croce. Negli ultimi tempi, inoltre, egli ha integrato profondamente nella sua riflessione, una teologia della creazione elaborata in prospettiva ecologica. A livello internazionale, la sua fama resta comunque legata in primo luogo al concetto di Teologia della speranza, grazie alla sua reinterpretazione dell’escatologia biblica. Il suo successo maggiore, che lo renderà famoso, riporta proprio il titolo di Theologie der Hoffnung. Untersuchungen zur Begründung und zur den Konsequenzen einer christlichen Eschatologie (1970), trad. it., Teologia della speranza. Ricerche sui fondamenti e sulle implicazioni di una escatologia cristiana, Queriniana, Brescia 20179.
[15] J.B. Metz, Sulla teologia del mondo, cit.: 79.
[16] Cfr. C. Geffré, Compiti antichi e nuovi della teologia fondamentale, in Concilium VI, 1969: 44.
[17] J.B. Metz, Sulla teologia del mondo, cit.: 140.
[18] Il primo: Per una comprensione del mondo nella fede. Orientamento cristiano nella mondanità del mondo moderno, fu pubblicato per la prima volta nel 1962 e venne rielaborato e ampliato nel 1966. Il secondo: Il futuro della fede in un mondo ominizzato, apparve nel 1964 e poi nel 1966. Il terzo: Responsabilità cristiana per la pianificazione del futuro in un mondo moderno, fu pubblicato nel 1968. Infine, abbiamo Chiesa e mondo nell’orizzonte escatologico: J.B. Metz, Sulla teologia del mondo, cit.: 77-92.
[19] Vedi nota 5 del presente articolo.
[20] Il tema dell’autonomia delle realtà terrene rappresenta, oltre ad una novità di contenuto, un metodo mediante il quale la Chiesa intende guardare al mondo con spirito positivo e accogliente. I sette paragrafi del terzo capitolo di Gaudium et spes (nn.33-39), costituiscono il vertice di tale indirizzo e la cornice entro la quale viene ripensata l’attività umana nell’universo. Veniva messo in evidenza che: «L’attività umana individuale e collettiva, ossia quell’ingente sforzo col quale gli uomini nel corso dei secoli cercano di migliorare le proprie condizioni di vita, considerato in se stesso, corrisponde al disegno di Dio» (Gaudium et Spes, n.34). È Dio stesso infatti che ha comandato all’uomo di sottomettere a sé la terra e di governare il mondo nella giustizia e nella santità. In questa attività la creatura riconosce in lui il creatore di tutte le cose e nell’atto di subordinare tutte le realtà all’uomo è glorificato il nome di Dio su tutta la terra. La novità di questa visione balza subito agli occhi. Innanzitutto, il Concilio considera anche gli ordinari lavori quotidiani come un prolungamento dell’opera creatrice di Dio. Inoltre, viene esplicitamente affermato che non esiste una contrapposizione tra il lavoro dell’uomo e l’opera di Dio e che, proprio nell’attività umana, si manifesta la grandezza e la provvidenza di Dio che chiama l’uomo liberamente e responsabilmente alla collaborazione nel creato. Il rapporto tra l’attività umana e la dimensione religiosa pone però nuovi interrogativi: se resta vero che l’uomo compie la volontà di Dio e ne realizza il suo disegno nella storia vivendo pienamente la propria umanità in tutte le sue espressioni creative, allora tutto ciò impone un ripensamento dei termini in cui si articola questa correlazione. Qui Metz vede quache perplessità nella riflessione teologica sulle realtà terrestri, perché vede subordinata una certa autonomia in cambio di un inglobamento indebito di ciascuna realtà nell’altra.
[21] Metz, Sulla teologia del mondo, cit.: 12.
[22] Ibid.: 140.
[23] Cfr. J. Friese, Die säkularisierte Welt, Verlag, Frankfurt am Main 1967: 11. Anche Cfr. T. Rendtorff, Zur Säkularisierungsproblematik. Über die Weiterentwicklung der Kirchensoziologie zur Religionssoziolog, in Internazionale Zeitschr Religionssoziologie, 2, 1966: 51-72.
[24] Metz, Sulla teologia del mondo, cit.: 141.
[25] Cfr. Ibid.: 142.
[26] Ibid.: 43. Alcuni autori danno particolare importanza a questo aspetto del mondo moderno fino a proporre la sostituzione del termine secolarizzazione con quello di società pluralista.
[27] J.B. Metz, Sulla teologia del mondo, cit.:143.
[28] Ibid.: 144.
[29] Cfr. Ibid.: 56-59.
[30] J.B. Metz, Sulla teologia del mondo, cit.: 50.
[31] Cfr. Ibid.: 48-51.
[32] J.B. Metz, Sulla teologia del mondo, cit.: 144.
[33] Cfr. Ibid.: 59. L’autore vuole mettere in evidenza che questi due modi di esprimere il mondo, come quelle di un mondo “divinizzato” o “ominizzato”, nella loro purezza, non sono mai esistite, perché sono una esperienza limite dell’uomo. Servono però a noi per rischiarare la posizione specifica della coscienza dell’uomo moderno.
[34] Ibid.: 144-145.
[35] J.B. Metz, Sulla teologia del mondo, cit.: 81.
[36] Cfr. Ibid.
[37] J.B. Metz, Sulla teologia del mondo: 145.
[38] Cfr. Ibid.: 145, nota 12.
[39] J.B. Metz, Sulla teologia del mondo, cit.: 56.
[40] Cfr. Ibid.: 43-49. Si noti che questo antropocentrismo formale non porta necessariamente al soggettivismo. Inoltre esso non implica necessariamente un antropocentrismo di contenuto e nemmeno una necessaria negazione di Dio. Esso può coesistere con un “teocentrismo” di contenuto come, secondo l’interpretazione di Metz, accade in San Tommaso d’Aquino. Metz cerca di provare questa sua interpretazione, che non esclude residui di cosmocentrismo nel contenuto materiale del pensiero dello Aquinate, analizzando i suoi testi sull’essere, la libertà, la sostanza, il mondo, Dio e la grazia.
[41] Ibid.: 42.
[42] Ibid.
[43] Ibid.:72-73.
[44] J.B. Metz, Sulla teologia del mondo, cit.:145-146, nota 13.
[45] Ibid.:44.
[46] Ibid.:17. (Il primo teologo cristiano, che con sfumature diverse, ha dato questa interpretazione del rapporto tra la fede cristiana e il mondo secolarizzato, è stato Friedrich Gogarten: Cfr. F. Gogarten, Verhängnis und Hoffnung der Neuzeit. Die Säkularisierung als theologisches Problem, Vorwerk, Stuttgart 1953).
[47] Ibid.:146.
[48] Ibid.:50.
[49] Cfr. Ibid.: 66.
[50] Ibid.: 14, nota 28.
[51] Ibid.: 62-64.
[52] Ibid.: 64.
[53] Ibid.: 64-65.
[54] J.B. Metz, Sulla teologia del mondo: 23.
[55] Cfr. Ibid.: 24.
[56] Ibid.: 36-38.
[57] Ibid.: 140, nota 4.
[58] Ibid.: 84-85; 146-148.
[59] J.B. Metz, Sulla teologia del mondo, cit.: 84.
[60] Cfr. Ibid.: 85. (A partire da questo punto la bibliografia sul tema, in dialogo con Ernst Bloch, si è notevolmente sviluppata. Basti qui ricordare il lavoro di un discepolo di Metz: F. Kerstiens, Die Hoffnungstruktur des Gaaubens, Verlag, Mainz 1969).
[61] Ibid.: 86-87.
[62] Ibid.: 147.
[63] Ibid.: 59-62.
[64] Ibid.: 60.
[65] Ibid.: 61.
[66] Ibid.: 33-38, 67.
[67] Ibid.: 39, 61-62.
[68] Ibid.: 39-45, 68-74.
[69] J.B. Metz, Sulla teologia del mondo, cit.: 74.
[70] Cfr. Ibid.: 45-46.
[71] J.B. Metz, Sulla teologia del mondo, cit.: 46.
[72] Cfr. Ibid.:74.
[73] J.B. Metz, Sulla teologia del mondo, cit.: 148.
[74] Ibid.: 149.
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Antonio Albanese, (Ph.D) ha studiato filosofia e teologia in diverse università italiane. Socio dell’Associazione Italiana di Sociologia, membro dell’International Centre for the Study of Religion (ICSOR), da alcuni anni partecipa alle ricerche sociologiche quanti-qualitative sulla religiosità in Italia. Collaboratore della Critica Sociologica, ha scritto numerose recensioni e svariati articoli. Autore di alcune monografie su tematiche religiose, il suo ultimo volume, in fase di pubblicazione, si intitola Processi latinoamericani: dal colonialismo alla teologia della liberazione (Aracne).
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