di Clarissa Arvizzigno
Molto si è scritto sul cinema di Michelangelo Antonioni che può, a buon diritto, essere considerato uno dei padri dell’estetica del cinema del ‘900. Abbastanza si è discusso anche sui suoi lungometraggi che chiudono la stagione neorealista (si pensi a Il Grido, film che più di ogni altro in Antonioni rappresenta questo confine) e aprono alla stagione esistenzialista. Arrivati a questo punto dell’arte antonioniana, nei primissimi anni sessanta del ‘900, si parla di trilogia (L’avventura, La notte, L’eclisse) o tetralogia (se vi includiamo anche Il deserto rosso) dell’incomunicabilità di matrice esistenziale. L’abilità di Antonioni consiste, quindi, nel raccontare il disagio, l’alienazione dell’uomo moderno, la caducità dei sentimenti attraverso una cinepresa: narrare il che cosa accade ma anche il come accade. Ciò che il regista ferrarese ci offre non è un’analisi dei sentimenti umani, nel senso di una scomposizione dei sentimenti nelle loro unità minime al fine di studiarli gradualmente in ogni loro parte, bensì un’atmosfera [1] dei sentimenti effusi nello spazio.
Guardando i suoi film, infatti, lo spettatore non è portato ad un’indagine di tipo conoscitivo-analitico, bensì a una riflessione-percezione di tipo qualitativo-sinestetico. La cifra dell’arte di Antonioni non è il susseguirsi delle azioni che, anzi, giocano un ruolo minore nella scena, sulla quale spesso non succede nulla per lunghi periodi (si pensi alla flânerie di Lidia ne La notte), bensì nell’articolazione delle qualità espressive che lo spettatore riesce a cogliere sinteticamente e sinesteticamente attraverso le atmosfere che da esse derivano e che fanno emergere un altro coprotagonista della scena antonioniana: il paesaggio.
In questo senso, il cinema di Antonioni può essere letto e visto sotto lenti fenomenologiche con tutte le ri-letture che ne conseguono: quella dell’uomo e del suo movimento nello spazio, quella degli oggetti con cui entra a contatto, quella del paesaggio come movimento di stati di cose. Riguardo a quest’ultimo scrive il filosofo T. Griffero:
«è quasi superfluo segnalare che proprio il cinema ha potentemente contribuito allo sviluppo di questa concezione atmosferica del paesaggio. Secondo Eric Rohmer, addirittura, un film non sarebbe che il perfezionamento di un modo determinato di sentire lo spazio. Lungi dall’utilizzare semplicemente degli sfondi paesaggistici, il film consisterebbe allora di per se stesso, in quanto forma privilegiata di spacing, nella produzione di paesaggi. Un’affermazione che non dovrebbe stupire, visto che proprio il cinema, e fin dagli esordi grazie ai suoi specifici elementi tecnici (primo piano, inquadratura, montaggio, ecc.), ha contribuito a modificare (psichicizzandola) la nostra abituale concezione dello spazio»[2].
Insomma: con Antonioni si va profilando un cinema in grado di aprire a uno spazio fenomenologico e un paesaggio che si autogenera a partire da una cinepresa, un’inquadratura, una prospettiva, un cinema capace di mettere-in-scena le atmosfere.
In-quadrare le atmosfere, sentire lo spazio: l’Avventura
Proviamo ora a rileggere la tetralogia esistenziale di Antonioni attraverso il paradigma atmosferologico iniziando da L’avventura (1960). La trama è abbastanza semplice: Sicilia dei primi anni ’60, un gruppo di giovani amici, appartenenti alla ricca borghesia romana, si reca in vacanza presso le isole Eolie. Tra di loro figurano in particolare due giovani fidanzati, Sandro (Gabriele Ferzetti) e Anna (Lea Massari) e la sua amica Claudia (Monica Vitti). Anna vive un’insoddisfacente relazione sentimentale con l’uomo. Arrivati nei pressi dell’isola di Lisca Bianca, mentre inizia a profilarsi un’atmosfera di tempesta, la donna scompare improvvisamente non lasciando alcuna traccia di sé. Dopo le prime ricerche, il gruppo di amici continua la vita mondana di sempre, continuando la loro vacanza in Sicilia. Claudia e Sandro finiscono con l’innamorarsi, inizialmente contro la volontà di lei e, dimenticate ormai le tracce dell’amica, iniziano a vagare a vuoto col pretesto della sua ricerca, in una Sicilia arcaica, barocca, oscura e luminosa al tempo stesso.
Il plot in cui si muovono i protagonisti è abbastanza semplice e quasi scontato, se non per le atmosfere che esso ospita e che fa sì che il paesaggio diventi il coprotagonista della vicenda. Osservando le prime scene del film, si percepisce (e non usiamo il verbo si vede dal momento che la pellicola è in bianco e nero e non ci è dato vedere i qualia, in questo caso i colori accesi di una lucente mattina estiva) come l’atmosfera sia quella di una serena giornata in barca in compagnia di amici. Si dà qui ciò che i romantici avrebbero definito corrispondenza tra paesaggio e stato d’animo, se non per un particolare: non vi è un soggetto che colora della sua tonalità emotiva il paesaggio e questo, da oggetto passivo, si colora dell’animo del suo agente. Ciò che avviene è piuttosto una compagine, una con-fusione in chiave fenomenologica tra ciò che comunemente siamo abituati a considerare come “soggetto umano” ritagliato dal suo “paesaggio” (motivo per cui siamo abituati a dire: paesaggio con uomo, bambina, etc…, come se l’elemento umano fosse un innesto artificiale in un sfondo che “naturalmente” si dà) e il paesaggio stesso.
Caratteristica de L’avventura, e in generale del cinema di Antonioni, sembra così essere questa perfetta compagine, collocazione spontanea e naturale dell’essere umano nell’ambiente “naturale”. Attraverso il meraviglioso filtro in bianco e nero antonioniano, noi riusciamo a percepire ugualmente la “solarità tenue dell’evento”, perché è la natura stessa che irradia sui personaggi la sua atmosfera e, transitivamente, anche su di noi spettatori. Diciamo solarità tenue perché, ancora una volta, grazie alle tinte espressive di una luminosità a tratti opaca, che non corrisponde di certo ad un abbaglio (con il quale inoltre non può darsi alcuna atmosfera) [3], il regista rende abilmente l’atmosfera di una leggiadra spensieratezza in cui è al contempo percepibile una sottile angoscia. E quest’ultima non è data da un correlativo oggettivo specifico che la determini sotto i nostri occhi: un oggetto, un uomo, etc…, bensì appare, atmosferologicamente, effusa nello spazio come una semi-cosa qualunque di cui non possiamo afferrare la forma, né dire ciò che esattamente è, se non ciò che, litoticamente, non è.
Possiamo dire per negazione ciò che alcuni critici del cinema di Antonioni definiscono la soggettività del paesaggio del regista, che consiste nell’essere una “soggettività senza soggetto”, ribaltandola invece in un’oggettività (perché le atmosfere sono oggettive) senza oggetto (per la difficoltà di oggettualizzare e quindi di in-quadrare i contorni della quasi-cosa solarità, vento, alba, tramonto, etc…). Diciamo che le atmosfere sono oggettive poichè «quando siamo trasportati all’interno di una determinata impressione, non guardiamo verso di essa, ma semmai a partire da essa» (Smuda 1986: 57)[4]. Ed è proprio questo “guardare da” che ri-definisce il rapporto tra soggetto e oggetto unificandoli e con-fondendoli nella compagine del paesaggio-mondo, che è un paesaggio di natura e uomini e non un paesaggio naturale con uomini. Ciò avviene ad esempio nel momento in cui sull’atmosfera che abbiamo definito di opaca solarità si innesta l’atmosfera nebulosa che precede la tempesta sull’isola di Lisca Bianca.
Questa atmosfera di passaggio funge da raccordo tra l’atmosfera che la precede (quella della solarità opaca) e prepara alla minaccia che verrà (quella della tempesta e della sparizione di Anna). Si assiste pertanto ad un movimento che, a partire da un’impressione atmosferica e ambientale, vi ri-costruisce dentro, dando loro forma, i caratteri dei personaggi e le loro vicissitudini interiori stemperandoli nel tessuto ambientale. È il caso dell’incomunicabilità di Anna e Sandro nella foto di sopra, con lei che accenna a un quasi nascondimento con il gesto della mano (premonizione della sua sparizione) e lui che non se ne accorge dandole le spalle. Ed è anche il caso di Claudia che, titubante sullo sperone roccioso, osserva il mare in procinto della tempesta (premonizione della tempesta interiore che le si abbatterà dentro).
Ecco: in entrambe le scene si assiste ad una perfetta amalgama tra paesaggio e stato d’animo senza polarizzazione di soggetti e oggetti, ma quasi come se si assistesse ad un irradiamento del paesaggio naturale nel paesaggio umano. Altra cosa che colpisce è la velocità e la mutevolezza delle atmosfere: si passa dall’atmosfera di solarità-opaca a quella nebulosa che precede la tempesta-sparizione a quella della quasi-tranquillità dell’alba che caratterizza il giorno dopo la scomparsa. Si assiste dunque a un movimento-mutamento delle atmosfere, messe-in-scena sequenziali di insiemi espressivi che il cinema, forse più di ogni altra forma d’arte, rende perfettamente poichè «mettere in scena qualcosa o qualcuno significa produrre uno spazio per la sua apparenza»[5], ciò che «è messo-in-scena è un’estrinsecazione del suo essere, e lo spazio della messa-in-scena contribuisce a sua volta all’espressione di ciò che si mette-in-scena»[6]. E ancora: «possiamo quindi dire che mettere-in-scena qualcosa o qualcuno significa comporre le cose in modo tale da rendere possibile l’apparire di questo qualcosa o qualcuno e da intensificare questo apparire tramite varie forme di corrispondenza»[7].
Concentriamoci ora su quest’ultima parola: “corrispondenza” e osserviamo le scene del film che rappresentano l’alba dopo la tempesta. Ciò che avviene è che il regista, nel costruire l’atmosfera di un’alba, produce lo spazio espressivo per la messa in scena dei sentimenti dei protagonisti. L’atmosfera quasi-cosale dell’alba, irradiandosi dall’orizzonte del mare, quasi fosse un momentaneo spazio d’attesa che precede un’azione in potenza, compone la scena che vede Claudia e Sandro divisi tra l’attesa di un improvviso ritorno di Anna e il nascere di un nuovo sentimento non-detto che pian piano va ramificando le sue radici dentro loro stessi.
Nella quasi-cosa alba, i cui contorni appaiono in forse, sfumati e flebili, si va delineando un nuovo inizio, si va compaginando quindi un nuovo mondo-paesaggio, in cui agisce quella che, merleaupontyanamente, chiamiamo mente estesa, cioè una mente che si estende al di là del suo corpo-fisico ma abbraccia l’ambiente circostante attraverso il suo corpo-proprio [8], in una relazione-con lo stesso. In questa corrispondenza, scambio osmotico delle parti, il regista è come se operasse una percettualizzazione, rendendo possibile la percezione atmosferica di un sentimento o, faremmo meglio a dire, di un fascio di percezioni effuse nello spazio.
Questa percettualizzazione che si configura dunque come «un agire sul percetto di una compaginazione sensibile»[9], cioè come un’azione su ciò che è percepito come membro di un ben articolato e funzionale insieme espressivo che nella sua sensibilità, e quindi nel suo poter essere sentito, si esplica in una tonalità atmosferica. Parliamo qui di fascio di percezioni dal momento che l’atmosfera in questione, quella albina, va colta nel suo carattere sinestetico, dove per sinestetico dobbiamo intendere una percezione simultanea di qualità appartenenti a sfere sensoriali diverse (l’alba pertiene alla sfera sensoriale della vista, il vento a quella uditiva e aptica). In questo insieme espressivo, infatti, non agisce soltanto la quasi-cosa alba, bensì anche la quasi-cosa vento, che sopraggiunge con l’alba e non dopo o prima di essa. Il vento, pertanto, non funge da cornice rispetto all’alba, né avviene il contrario: alba e vento sono i due coprotagonisti attivi e dinamici di una relazione-con [10]. Definiremo allora il paesaggio come «una segmentazione estetico-ambientale […] in virtù dell’atmosfera che irradia, dell’affordance sentimentale che, tagliando “transversalmente la dicotomia tra oggettivo e soggettivo” (Gibson 1986, 208), ai luoghi ascrive una loro peculiare identità estetica»[11] che li rende oggettivi in virtù di quella stessa identità e permette di distinguerli per differentiam da altri luoghi.
Finito questo primo tempo dell’azione che ruota intorno alla circolarità dell’isola di Lisca Bianca, Antonioni dà vita ad un cronotopo centrifugo che vede il disperdersi dei vari personaggi, in un primo tempo ancorati all’isola, verso strade differenti. In questo giallo alla rovescia, la scomparsa di Anna diviene un fatto secondario e non necessario allo sviluppo del plot, tanto che persino i suoi cercatori (Claudia e Sandro), che iniziano un viaggio per la Sicilia orientale al fine di trovare qualche traccia della ragazza, finiscono per dimenticarsene. Gli stessi compagni di avventura finiscono con il disperdersi vacuamente tra i vizi e gli agi di una Sicilia che conserva i colori e le luci dei baronali salotti barocchi spagnoli, con tutte le contraddizioni e le tinte chiaro-scurali che questi comportano. È qui che si innesca il carattere romanzesco del film, con l’originale quête alla rovescia che esso comporta.
Distaccandosi dal gruppo di amici, Sandro e Claudia iniziano a vagare errando (con il pretesto della ricerca di Anna) in una Noto barocca, luminosa e spettrale insieme. Qui si innesta il secondo tempo dell’azione antonioniana, in cui si assiste a un profondo cambio della qualità tonale rispetto alle precedenti atmosfere dell’isola che erano comunque, seppure differenti, legate da una sequenzialità espressiva riconoscibile e unitaria. Ci trasferiamo ora da un’atmosfera prettamente naturalistica a una urbana.
Errando fisicamente e forse anche interiormente attraverso il corpo-proprio, Claudia si trova di fronte all’error, ad una biforcazione di strade che le si contrappongono dinanzi: rinunciare alle avances di Sandro in nome dell’amicizia che la lega ad Anna, oppure seguire ciò che naturalmente sente, ossia il sentimento d’amore-attrazione nei confronti di Sandro. Tale contraddizione interiore si inserisce in un contesto urbano che possiede all’interno, anch’esso, una contraddittoria tessitura: da una parte il sole dell’isola e il bagliore della pietra di Noto [12], dall’altra il carattere introverso e problematico dei suoi abitanti, ambiguamente ospitali e curiosi degli stranieri che gli si prospettano dinanzi.
Il risultato di questo effetto straniante è che, in quest’atmosfera di malinconica disarmonia in cui proprio-corporalmente si sente quella che Griffero chiama “la pelle della città”, la sua epidermide atmosferica, la sua superfice immediatamente tangibile, sembra di trovarsi di fronte ad una pagina di Gesualdo Bufalino: «ogni siciliano è, di fatto, un’irripetibile ambiguità psicologica e morale. Così come l’isola tutta è una mischia di lutto e di luce. Dove è più nero il lutto, ivi è più flagrante la luce, e fa sembrare inaccettabile la morte»[13]. Tutto avviene come se lo spazio dell’errare, inizialmente conchiuso nella piccola isoletta di Lisca Bianca, si ripetesse espandendosi nell’ isola-madre Sicilia, non rinunciando alla sua forma concentrica e circolare che funge da filtro-barriera verso l’esterno e che si moltiplica dal di dentro, conservando nelle piccole città-isole, seppur diversificate, la sua pregnanza, la sua peculiare atmosfera. Se Lisca Bianca era l’isola dove spazialmente regna l’identico che si ripete su se stesso (macchia mediterranea e rocce scoscese), Noto, piccola città-isola della Sicilia orientale, differisce da Lisca Bianca per il suo essere “isola” spazialmente plurale, per il suo essere isola-ossimoro di tufi dorati, marmi barocchi e di uomini e donne vestiti a nero, chiusi nei loro contrasti interiori che
«avvertono con diffidenza il contrasto tra il loro animo chiuso e la natura intorno, aperta, chiara di sole, e più si chiudono in sé, perché di quest’aperto, che da ogni parte è il mare che li isola, cioè che li taglia fuori e li fa soli, diffidano, e ognuno è e si fa isola a sé, e da sé si gode, ma appena, se l’ha, la sua poca gioja, da sé, taciturno e senza cercar conforti, si soffre il suo dolore spesso disperato»[14].
Ecco la pelle della città che, nel suo essere abbacinante e oscura al tempo stesso, nella sua atmosfera quasi-cosale si irradia sugli animi di Sandro e Claudia, determinandone lo spaesamento psico-fisico, rendendoli personaggi di un contesto che sembra allo stesso tempo rigettarli ed accoglierli.
Il terzo tempo dell’azione antonioniana vede, invece, un progressivo venir meno delle forze centrifughe che avevano diramato gli amici della comitiva per l’isola, a favore di una forza centripetra che li raccoglie nuovamente e li fa ritrovare in un salotto della Taormina bene adibito a festa: Sandro e Claudia perdono le tracce della comitiva senza un senso e, allo stesso tempo, senza un perché le ritrovano senza stupirsene, quasi fosse la naturale conseguenza. Così, su questo terzo tempo, si apre un’altra atmosfera, questa volta fatta di interni notturni illuminati dalle luci soffuse dei sontuosi lampadari, dagli arredi vacuamente sontuosi di cui riusciamo a percepire, seppur nel bianco e nero, consistenza luminosa e materialità.
Ora avviene che l’atmosferico differenzia e connota: Sandro, personaggio psicologicamente più semplice e meno scolpito, si adegua, anzi ritrova nell’atmosfera della festa mondana la sua dimensione più propria che aveva smarrito a Lisca Bianca prima e a Noto poi, finendo con il con-fondervisi come un elemento dell’arredo del salotto. Claudia, invece, psicologicamente più complessa come tutte le donne di Antonioni, si differenzia da uno sfondo con cui non riesce ad entrare in armonia (si noti anche il contrasto tra il suo abbigliamento semplice e quotidiano contro quello lussuoso degli altri personaggi), ritagliandosi un posto tutto suo in una camera da letto dove può coltivare i suoi dubbi e i suoi malesseri.
Disperdendosi in quello che è il vacuo vuoto-pieno atmosferico della festa, Sandro tradisce Claudia che lo raggiunge all’alba, fuori dal salotto delle feste, solo, nudo nella sua banale mediocrità di uomo e sempre lei, dopo un iniziale allontanamento, adagiando teneramente la sua mano sul capo di lui, sembra volere riallacciare un qualche rapporto. Ricompare la quasi-cosa alba, in un contesto diverso però da quello di Lisca Bianca: uno spazio aperto che vede una superba Etna innevata, la cui sagoma contrasta con il muro che si staglia davanti agli occhi dei due, quasi una metafora di quella incomunicabilità tipicamente umana propria di tutta la poetica antonioniana e che, qui, ora e (forse) poi, vede i protagonisti al-di-qua del muro.
Ri-cucire la pelle atmsoferica della città: La notte
Riprendiamo ora il discorso della pelle atmosferica della città e facciamolo attraverso il film successivo della tetralogia: La notte (1961). Il lungometraggio, raffinatissimo nelle inquadrature e nella fotografia, presenta una trama ancora più essenziale di quella de L’avventura. L’azione si svolge nel corso di una giornata: dalla mattina all’alba del giorno successivo e vede protagonisti una coppia di intellettuali: Giovanni (Marcello Mastroianni), uno scrittore di successo, ormai in piena crisi creativa, e la moglie Lidia (Jeanne Moreau), che mal sopporta la routine quotidiana in cui è immersa con il marito, routine fatta di asfittici salotti letterari. L’ambientazione è prettamente urbana e vede come protagonista Milano, centro della vita culturale e sociale del Paese, con annesso il suo traffico, i suoi palazzi grigi (resi ancora più grigi dal contrasto del bianco e nero) e le sue periferie semideserte.
L’azione si divide in tre parti: nella prima, dopo che Giovanni e Lidia fanno visita all’amico scrittore, Tommaso, malato terminale di tumore in ospedale, domina il traffico della città con i suoi ingorghi nevrotici. Ci chiederemo, pertanto, se questa immagine di Milano possa considerarsi atmosferica e se in essa si possa rintracciare quella che con le parole dei neofenomenologi abbiamo chiamato “pelle atmosferica della città”. Senza cadere nell’equivoco romantico per cui l’atmosferico si dà in un paesaggio naturale, dai caratteri sublimi, in cui c’è un “io” che si oppone (con il suo Stimmung) ad uno sfondo con cui è in contrasto, fenomenologicamente, invece, è abolita ogni forma di polarità di soggetto e oggetto nella sua accezione di attivo/passivo, osservante/osservato, a favore di un reciproco scambio delle parti che vede una vicendevole relazione-con.
Anche a Milano è possibile sentire la pelle atmosferica della città, la sua pregnanza: anche nel suo caotico traffico, nelle sue architetture fredde e austere si annida l’atmosferico, che però sopravviene alla materialità urbana: «come il profumo di una rosa “sopravviene” in un certo senso alla materialità del fiore, così l’atmosfera di una città sopravviene, però, alla materialità urbana […]»[15]. La città possiede
«detto metaforicamente, una sua pelle emozionale e polisensoriale, a tal punto che il townskape diventa un vero e proprio punto di orientamento psicotopico, il fulcro di mental maps in cui si condensa, fisiognomicamente, l’intera città (vissuta). Si tratta però di una pelle che non è affatto una proprietà dell’oggetto (di quale poi?) o di un involucro di qualcosa di più essenziale, bensì […] una qualità che le cose non “hanno”, ma nella cui manifestazione semmai si esauriscono: un modo-di-essere o “carattere” che, come sappiamo, genera lo spazio affettivo in cui (letteralmente) entriamo»[16].
La pelle atmosferica della città è, quindi, questo saturarsi delle cose in delle qualità che non gli appartengono in senso proprio, che non sono caratteristiche in sé dell’oggetto, ma che in esso esauriscono la loro carica. Guardiamo il primo paesaggio che Antonioni ci mette dinanzi agli occhi, quello diurno di una città che si risveglia nei rumori e colori del traffico mattutino e che sfuma poi nell’interno di una libreria, in cui si presenta il libro di Giovanni Pontano, e nell’interno domestico dell’abitazione della coppia. Che hanno in comune, da un punto di vista più propriamente qualitativo, oggetti come i clacson rumorosi delle automobili, i condomini verticali e grigi dai motivi freddi e geometrici? Potremmo dire che i loro qualia che abbiamo appunto descritto attraverso i qualitativi “rumorosi, verticali, grigi, freddi e geometrici” appartengono a sfere sensoriali diverse e qualificano oggetti diversi, aventi funzioni e forme diverse. Non sono dunque tutti questi qualia presi nella loro singolarità a farci percepire l’atmosfera frenetica e, allo stesso tempo, desolante della città, il suo essere un ossimoro: vuoto conglomerato umano in cui vivono congelati nella loro individualità uomini pieni di cose che non hanno nessuna funzione se non quella di supplire al loro vuoto interiore (si pensi specialamente alla villa dei Gherardini con tutti i suoi suppellettili, presso cui si recano Lidia e Giovanni nella notte).
Potremmo invece dire che, a farci sentire quella determinata e particolare atmosfera di Milano, è l’articolazione che i vari qualia allestiscono nel tessuto plurisensoriale della nostra percezione: questa è la pelle della città, una sintesi di qualità diverse che costituiscono, nel loro insieme denso e opaco (perché al suo interno non è possibile operare alcuna distinzione delle stesse) la qualità della città, che si dà e si esprime nella sua atmosfera: il suo colore.
A tal proposito, vi è un momento molto significativo nel secondo tempo dell’azione del film, quando Lidia, stanca dell’ambiente mondano-intellettuale della libreria, inizia la sua flânerie per la periferia di Milano, cercando nell’irradiarsi di quell’atmosfera, la pregnanza di qualcosa che le sfugge e che lei vorrebbe saturare con il suo camminare. Il tutto avviene come se i passi volessero fagocitare l’irradiarsi di quei sentimenti atmosferici effusi in uno spazio estraneo alla donna che desidera, però, sentirlo proprio-corporalmente. Accade, allora, che nell’andatura del passo squisitamente alto-borghese, meravigliosamente reso dal portamento di Jeanne Moreau,
«la pelle atmosferica della città risulta certamente meno superficiale quando diviene un paesaggio concretamente attraversato, percorso dal flâneur quale succedaneo urbano del promenuer […]. A generare l’atmosfera della città è, quindi, anche il camminare, inteso come uno spazio di costante contrattazione pragmatica, come una funzione di enunciazione, la cui langue sarebbe il sistema urbano complessivo»[17].
Diverso è, tuttavia, l’atteggiamento che con la città ha Giovanni. Se la moglie infatti è figura in movimento che genera spazio con il suo camminare per la città, cercando, seppur vanamente di filtrare dentro di sé un’atmosfera che non le è abituale (e quindi cercando di instaurare con il paesaggio una relazione con- , una collisione), il marito, invece, preferisce rimanere in spazi chiusi e statici. Queste sono immagini di una staticità interiore che si esprime nella sua ormai mancanza di creatività e desiderio di stare appartato in un mondo di cui lui stesso è, in un certo qual modo, il demiurgo: essi sono la libreria prima, la sua dimora poi, la villa dei Gherardini infine. Relativamente allo spazio domestico, notiamo come questo connoti fortemente l’attività e la personalità di Giovanni: è costituito da libri su libri, quadri d’avanguardia alle pareti, oggetti sparsi in un disordine spia del disagio che egli vive e in cui, tuttavia, placidamente ri-posa adattandovisi perfettamemente, come un qualsiasi oggetto dell’arredo.
Uno spazio atmosfericamente connotato che sembra voler stridere con l’indifferenziato scialbo che si prospetta fuori dalla finestra: lo spazio dell’abitare. Scrive sempre Griffero che «abitare vuol dire coltivare atmosfere». Se infatti «nella città ci si muove e si lavora, la si abita, avvertendone, come si è visto, la “pelle” atmosferica, è però indubbio che è soprattutto in casa che si abita davvero (proprio-corporalmente)»[18]. È infatti nello spazio domestico, uno spazio che lo stesso Griffero definisce anisotropo (non euclideo), che si esplica il radicamento più intimo della nostra identità. Uno spazio pre-dimensionale, connotato emotivamente, che è in grado di filtrare e regolare il patico che sopraggiunge dall’esterno per cui abitare significa:
«disporre di un luogo e di una situazione che, in un certo senso schermando una realtà di cui, però, evidentemente non ci si vuole del tutto privare, ci permettano di catturare, coltivare e amministrare […] atmosfere esterne altrimenti fuori controllo. Gestendo e filtrando il patico in uno spazio protetto, l’abitare dà vita, dunque, ad un clima affettivo e denso, ricco di sfumature, in grado di mitigare e rendere tollerabile il perturbante esterno»[19].
Qui, da questo riparato periscopio domestico, Giovanni osserva e scrive di una realtà che si presta ad essere oggetto filtrato da un movimento-da, che è sguardo sul mondo, separato dal mondo, mentre Lidia, esternamente, si appresta a percorrere quest’ultimo nel tentativo di con-fondervisi: il suo è uno sguardo che vuole essere fenomenologico, uno sguardo del mondo [20]. Succede così che quando Lidia invita Giovanni a raggiungerla in periferia, egli accetta, seppure senza troppo entusiasmo, per immergersi in quella che è un’alterità, un’atmosfera che non gli è abituale, in cui sembra scomparsa la presenza di tutte quelle automobili che percorrevano, in tutta fretta, il centro di Milano.
Il terzo tempo dell’azione del lungometraggio si svolge durante “la notte”, tempo che più di ogni altro Antonioni dilata all’interno del film, da cui, appunto, prende il nome. Stanca della routine casalinga, Lidia propone a Giovanni di passare una serata diversa dalle solite. I due si dirigono prima presso un locale della Milano bene, in cui si esibiscono ballerini in una performance sottilmente erotica, di cui Giovanni è interessato spettatore, mentre Lidia si compiace nell’osservarlo nell’atto dell’osservare, non mostrando il minimo tratto di gelosia. Tuttavia la donna, dopo non molto tempo, stanca ed insoddisfatta del locale, propone al marito di accettare l’invito a una festa nella lussuosa villa dell’industriale Gherardini in Brianza, a pochi chilometri da Milano.
L’atmosfera che si respira nella villa è quella di un party sontuoso, ricco di vivande e risate sguaiate, in cui però tutti si annoiano e finiscono con il cercare qualcosa o qualcuno in una villa che assume sempre più i contorni di un labirinto architettonico ed umano. Elemento che distingue la villa dall’agglomerato urbano di Milano è quello di trovarsi a contatto con la natura, in campagna, lontano perciò dalla frenesia e dai rumori della città. Essa appare come una costruzione che, se da una parte si chiude su se stessa nelle grandi ed eleganti stanze che la compongono, dall’altra si apre sull’ambiente naturale circostante, cercando di adattarlo alle esigenze di luogo di ristoro e svago smodato. La villa è un spazio di mediazione, un medium che chiude ed apre allo stesso tempo, come suggeriscono anche le bellissime pareti interne delle stanze che presentano dipinti di motivi naturalistici, quasi a voler rompere la barriera architettonica, in una soluzione di diretta continuità con l’ambiente esterno.
La villa è il quinto interno abitato che Antonioni ci presenta (dopo l’ospedale, la casa dei coniugi Pontano, la libreria ed il locale notturno) ed il terzo che Giovanni “vive”, il quale, dopo la flânerie con la moglie per la periferia della città e il breve passaggio dal locale notturno, si sente finalmente in una dimensione più propria, in un certo senso, “a casa”. Come appunto era avvenuto tra le mura domestiche, anche qui sembra che si “coltivino atmosfere”: anzi la villa sembra filtrare, ancora meglio rispetto alla casa, quelle che sono le atmosfere esterne, mostrandosi in una soluzione di aperta continuità con lo spazio circostante. Qui privato e pubblico si con-fondono: la villa è da una parte un luogo privato, che appartiene a una ricca famiglia borghese e che nelle forme e negli arredi sembra richiamare quel gusto o, se vogliamo, non-gusto sfarzoso e composito che rinvia ad un’identità sociale. Dall’altra, tuttavia, è un ambiente aperto al pubblico, che gli rende disponibile il suo spazio e, al tempo stesso, permette di determinarlo, offrendo quindi un filtraggio meno netto rispetto a quello della casa nei confronti dell’ambiente esterno.
Accade quindi che i numerosi ospiti si approprino dei suoi spazi e gli diano pregnanza atmosferica, facendo involontariamente sì che con le loro risate, la vivacità dei loro abiti, dei loro movimenti e dei loro gesti, ri-creino una nuova atmosfera a discapito di quella prettamente domestica e familiare: paesaggio umano ( la “folla umana”) e paesaggio vegetale entrano nell’ennesima relazione-con ri-plasmandosi. A questa nuova armonia atmosferica raggiunta, fanno però da contrasto Lidia che vaga per la villa osservando gli altri ma non riuscendo ad entrarvi in relazione e la giovane Valentina (Monica Vitti) che tenta di estraniarsi dalla calca, prima leggendo I sonnambuli di H. Broch, poi giocando tutta sola in una stanza della villa.
Valentina, figlia dell’industriale Gherardini, molto bella e giocosamente cinica, rappresenta un personaggio sospeso tra voglia di estraniarsi rispetto a quel contesto di sonnambuli della notte che si rincorrono quasi senza un perché all’interno di quell’artificio umano che è la villa, e dall’altro un personaggio camaleontico, in grado di adattarsi ad essa e agli avvenimenti che vi accadono al suo interno-esterno, tenendo testa alla smodatezza di tutti i suoi ospiti. Quando Giovanni, attratto dal fascino della ragazza, le si avvicina cercando e forse trovando in lei una qualche sensibilità letteraria, Valentina dice di essere solo sveglia e di essere in grado di adattarsi alle situazioni e alle cose, tradendo quindi le aspettative romantiche dell’uomo.Valentina appare quindi un personaggio liminare, in un equilibrio precario, che tuttavia mantiene, rifiutando le avances di Giovanni (mandato da lei dalla stessa moglie) e mostrando la sua disillusione nei confronti dei sentimenti umani e, allo stesso tempo, ritirandosi nella sua camera quando la notte si va dilatando in giochi, urla e risa ubriache senza misura.
È interessante notare come Antonioni dipinga in maniera sottile e sofisticata un quadro di personaggi eterogenei e curiosi, buffi e cinici, sguaiati e profondi insieme, non posizionandoli geometricamente in uno spazio che pure appare ben calibrato e sottilmente pensato, ma situazionandoli in un contesto-compagine denso e opaco in cui essi si amalgano perfettamente con quello che non è più un semplice sfondo (la villa, la natura, la città di Milano…) ma un contesto di azione in cui essi sono perfettamente integrati e vi corrispondono. In ciò consiste l’occhio fenomenologico del regista, nell’esercitare un pensiero-in-situazioni che prenda corpo direttamente su uno schermo che lo sviluppi in tanti sguardi sui movimenti, non semplicemente delle cose, ma, neofenomenologicamente, degli stati delle cose. La stessa rappresentazione di un contesto milanese che muta nel corso della giornata in tre diversi tempi, dall’ingorgo della città metropolitana alla periferia semi abbandonata e decadente, allo spostarsi in un contesto straniato e altro (quale quello della villa dove la ricca borghesia milanese si sposta “di notte”), vuole essere un tentativo di rappresentare questo mutare dello stato di una realtà.
Se abbiamo parlato di pelle atmosferica della città, riferendoci al suo aspetto più superficialmente tangibile, che insiste sinesteticamente sui nostri sensi, ciò che fa Antonioni è offrirci tre affreschi diversi della città, come se volesse ri-cucire la sua pelle atmosferica sintetizzando nel lungometraggio tre momenti diversi, tre stati delle cose che i protagonisti attraversano, dilatando in particolare l’ultimo, quello della notte, chiave tematica di tutto il film.
Arrivati a questo punto, però, si potrebbe obiettare dicendo che la villa in Brianza non è Milano ed è dislocata in un altro spazio estraneo ai suoi confini: ciò è vero se si considera lo spazio in senso geometrico, cartesiano, analitico. Tuttavia il nostro discorso, spostandosi su un asse più prettamente fenomenologico, induce a guardare allo spazio come dimensione pre-dimensionale caratterizzata, come abbiamo visto, da un corpo-proprio che recepisce l’irradiarsi delle atmosfere. Ne consegue, perciò, che la città di Milano non è soltanto semplicemente lo spazio incluso nei suoi confini, bensì la sua atmosfera, ciò che “fa Milano”, ciò in cui si racchiude la sua pregnanza. E la moltitudine di uomini e donne che, potremmo dire, è in una continua villeggiatura dalla città alla villa, non è forse sempre Milano che si sposta oltre i suoi confini? Non è forse parte dell’atmosfera della Milano alto-borghese con tutta la sua alienazione e impersonalità? Assistiamo quindi a una Milano mobile, a una Milano dislocata, che possiamo percepire nella misura in cui la consideriamo atmosfera, l’atmosfera-di-Milano.
Così il tutto continua a scorrere in un’atmosfera di artificiosa e smodata allegria finchè la notte, che sembrava ormai dilatarsi in un non-tempo perenne, lascia spazio a un’alba che vede diradarsi e sparire progressivamente i suoi sonnambuli per lasciare posto a qualche musicista che, in giardino, ancora intona qualche nota. Di qui Giovanni e Lidia passano, e quando quest’ultima manifesta la sua voglia di oltrepassare l’atmosfera della villa, il suo giardino, per recarsi nello spazio aperto della campagna circostante, Giovanni, seppure titubante, accetta. La donna si è ora riappropriata del suo spazio aperto (com’era aperto quello che accompagnava la sua flânerie per Milano), l’uomo invece ha perduto il suo spazio chiuso, la sua artificiosa quiete. Proprio qui, in un mistero aperto sugli spazi aperti, la donna rivela all’uomo, incredulo, ciò che lentamente si era profilato sotto gli occhi dello spettatore: non lo ama più. Anche ne La notte, come ne L’avventura, abbiamo a conclusione un uomo e una donna di spalle, di fronte ad un paesaggio aperto sullo spazio-tempo dell’alba che, con la sua atmosfera quasi-cosale, irradia un nuovo inizio.
Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020
Note
[1] Si ci riferisce qui, in particolare, al concetto di atmosfera dal punto di vista neofenomenologico: le atmosfere sono i sentimenti effusi nello spazio circostante, con le quasi-cose da cui sono costituite ed espresse. Si legga a tale proposito Schmitz, Nuova Fenomelogia tr. a cura di T. Griffero, Christian Marinotti Edizioni, Milano, 2011; T. Griffero, Atmosferologia, estetica degli spazi emozionali, Laterza, Roma-Bari, 2010; T. Griffero, Quasi-cose, la realtà dei sentimenti, Mondadori, Milano, 2013; T. Griffero, Il pensiero dei sensi, Atmosfere ed estetica patica, Guerini e associati, Milano, 2016; G. Böhme, Atmosfere, estasi, messe in scena, L’estetica come teoria generale della percezione, trad. a cura di T. Griffero, Christian Marinotti Edizioni, Milano, 2010.
[2] T. Griffero, I confini (atmosferici) del paesaggio, «Imago», V (2014), 9 (Il paesaggio nel cinema contemporaneo, a cura di S. Parigi e G. Ravanesi): 11-22.
[3] L’abbaglio si oppone al concetto si atmosfera, dal momento che neofenomenologicamente, intendiamo per atmosfera tutto ciò che ha la caratteristica di una quasi-cosa, e che quindi rappresenta un ente non contornato, non discreto, indeterminato, sfumato dunque nelle sue qualità. Si veda a tal proposito il concetto di abbaglio in Griffero in Atmosferologia, estetica degli spazi emozionali, cit.
[4] Citiamo qui Griffero che, sempre nel suo saggio “I confini (atmosferici) del paesaggio”, cit., riporta Baensch e Bollnow:«Il paesaggio non esprime l’intonazione emotiva (Stimmung) ma la possiede» (Baensch 1924, 2). «Non è neppure una trasposizione posteriore, puramente metaforica, bensì una caratterizzazione diretta e originaria, quando si attribuisce anche a un paesaggio (in particolare in certe condizioni atmosferiche) […] una determinata tonalità emotiva» (Bollnow 1941, 33).
[5] G. Böhme, Atmosfere, estasi, messe in scena, L’estetica come teoria generale della percezione, cit.: 184.
[6] Ibidem.
[7] Ivi: 180.
[8] Si veda Griffero, Atmosferologia, estetica degli spazi emozionali, cit.: 30-31: «Il corpo fisico (Korper) è stabile esteso, dotato di una superficie e divisibile in parti occupanti uno spazio locale relativo, quindi un legittimo oggetto delle scienze naturali (anatomia in primis), il corpo proprio (Leib) è viceversa privo di superfici e occupa un luogo ‘assoluto’ e non geometrico, è capace di autoauscultarsi senza mediazioni organiche e, siccome eccede il contorno cutaneo, solo occasionalmente coincide con il corpo fisico. Manifesto della sfera affettiva e, in modo totalmente diverso dal corpo fisico, secondo un ritmo polarizzato (contrazione o angustia/espansione o vastità) i cui estremi, entrambi incoscienti, sono il terrore paralizzante (incorporazione) e il rilassamento totale (decorporizzazione), esso si articola non in parti discrete, ma ‘in isole proprio corporee’».
[9] G. Matteucci, Estetica e natura umana, La mente estesa tra percezione, emozione ed espressione, Carocci, Roma, 2019: 80.
[10] A tal proposito si veda la differenza tra “esperienza-con” ed “esperienza-di” dal punto di vista fenomenologico, illustrata da G. Matteucci in Estetica e natura umana, La mente estesa tra percezione, emozione ed espressione, cit.
[11] T. Griffero, I confini (atmosferici) del paesaggio, cit.
[12] Il critico d’arte senese Cesare Brandi, a tal proposito, ha definito Noto “giardino di pietra” facendo riferimento all’armonia e alla luminosità dorata e rosata insieme dei suoi tufi e marmi.
[13] G. Bufalino, N. Zago, Cento Sicilie, Bompiani, Milano, 2012: 6.
[14] L. Pirandello, Isole nell’isola, Ivi: 30.
[15] T. Griffero, Il pensiero dei sensi, atmosfere ed estetica patica, cit.: 181.
[16] Ibidem.
[17] Ivi: 182.
[18] Ivi: 186.
[19] Ivi: 193.
[20] Si fa qui riferimento al fatto che, confondendosi con il mondo, in una relazione-con quest’ultimo, Lidia è anch’ella mondo: per citare Calvino, potremmo dire che è mondo che guarda il mondo (I. Calvino, Palomar, Mondadori, Milano, 2014. Si veda la sottosezione Il mondo guarda il mondo contenuta nella sezione Le meditazioni di Palomar). Ed è per tale motivo che lo sguardo di Lidia coincide con lo sguardo del mondo (e che quindi gli appartiene), uno dei tanti possibili che il mondo compie nella perenne autoscopia di se stesso su se stesso. Viceversa, lo sguardo di Giovanni è tale da essere sguardo dal mondo, separato da qualcosa con cui lui non vuole confondersi: citando sempre Calvino, il suo è uno sguardo dato dal pathos della distanza (si fa qui riferimento alla celebre espressione tratta da Il barone rampante).
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Clarissa Arvizzigno, ha conseguito una laurea triennale in Lettere (curriculum classico) presso l’Università di Palermo, discutendo una tesi dal titolo Riflettere-riflettersi: la poetica dello sguardo in Palomar e in Ora serrata retinae. Studiando il ruolo della vista come strumento fenomenologico per la conoscenza del reale, si è occupata di Italo Calvino e Valerio Magrelli esaminandone analogie e differenze soprattutto in chiave estetica. Successivamente ha conseguito la specialistica in Italianistica presso l’Università di Bologna discutendo una tesi sull’opera di Caproni letta in chiave neofenomenologica. È impegnata in ricerche su temi di estetica e di letteratura comparata. Ha collaborato con alcuni portali antimafia online: www.liberainformazione.org , www.antimafia2000.com, www.corleonedialogos.it.
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