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Attraversare i confini religiosi. Un itinerario dall’Oceano Indiano ai Balcani

 

Murale a Gaza, di Banksy (ph. Valentina)

Murale a Gaza, di Banksy (ph. Valentina)

di Giovanni Cordova 

Il tema del confine riveste da sempre una particolare importanza negli studi antropologici, specie dal mutamento di paradigma operato da Fredrik Barth, che in Ethnic Groups and Boundaries. The social Organization of Cultural Difference (1969) argomentò come l’esistenza e la costruzione sociale dell’identità etnico-culturale non precludano l’attraversamento dei confini sociali tra gruppi e/o comunità. Anzi, date determinate condizioni sociali e materiali, tale superamento assume carattere strutturale, portando all’inglobamento più o meno permanente degli individui ‘attraversanti’ il confine nel gruppo ‘altro’ e contribuendo, per paradossale che possa sembrare, alla riproduzione materiale e culturale della o delle società coinvolte in questo complesso e continuo lavoro sociale sulla differenza.

Negli anni successivi, e giungendo a tempi più recenti, una letteratura sempre più ampia si è interrogata su possibili nuove declinazioni del termine e del concetto di confine, individuandone la differenza con la nozione di ‘frontiera’ (Fabietti 2013; Driessen 1992) e valutandone le potenzialità sovversive, conflittuali e anti-egemoniche che esso presuppone (Clifford 1993; Bhabha 2001), senza rinunciare a dettagliate disamine – etnograficamente fondate – delle continue negoziazioni sui significati che il limen non cessa mai di stimolare (Brambilla 2005).

Lo studio di Alain Tarrius (2011) sull’organizzazione sociale della mobilità tra Marocco, Spagna e Francia meridionale e sulla corrispondente economia morale che da questa viene innescata è particolarmente utile da prendere in considerazione. La densa circolarità attivata dal transito migratorio rende quanto meno obsoleti i percorsi di “integrazione” proposti dai vari Paesi europei. Chi riesce a esercitare forme di controllo su luoghi, tempi e spostamenti, connettendoli a centri e periferie del movimento transnazionale, si può giovare dell’opportunità di rimescolare gerarchie tradizionali e locali, fino a elevare il proprio status sociale. Tarrius non si limita a considerare l’abilità o la produttività negli scambi commerciali, ma esamina anche le responsabilità morali, manifeste nella solidarietà e nella risoluzione dei conflitti dispiegate all’interno delle reti sociali attivate dalla migrazione, nonché le responsabilità religiose che i migranti assumono nelle città europee da cui transitano o in cui si stabiliscono. Queste competenze tecniche, morali e culturali possono acquisire una veste inedita se non addirittura antagonista rispetto a quelle formalmente definite nelle società di origine, di transito e di arrivo, dato che le reti sociali della mobilità vengono plasmate entro le maglie politiche, economiche e morali definite nel quadro dell’area Schengen e dei Paesi di provenienza, mostrando però al tempo stesso un certo qual grado di refrattarietà a tale inquadramento. Siamo insomma in presenza di distretti morali nello spazio del confine, che coinvolgono diversi ambiti della vita sociale su scala trans-locale.

barth-ethnic-groups-and-boundariesI confini del sacro

Per questo contributo per Dialoghi Mediterranei vorrei però avviare una riflessione inerente a una particolare declinazione di ‘confine’, riguardante in modo specifico la religione. Senza poter in questa sede addentrarmi in una digressione circa il significato di ‘religione’ e la problematicità semantico-concettuale di tale categoria, l’accezione ‘religiosa’ di confine condivide le qualità e gli attributi che ogni soglia contiene in sé. Come per l’attraversamento dei confini politici, sociali ed etnici, i confini religiosi costituiscono un ambito particolarmente delicato e sensibile dei processi di costruzione dell’identità sociale di persone e comunità. Un maggiore livello di complicazione è presentato, però, dal fatto che tradizioni e pratiche religiose interrogano (fornendovi al tempo stesso le risposte) le verità “ultime” che strutturano la codificazione culturale e politica dell’appartenenza, oltre che la rappresentazione psico-sociale del Sé (Fabietti 2014). Nodi di particolare sensibilità, questi, sempre presenti – quanto meno in forma latente – allorquando si evochi o ci si trovi al cospetto di fenomeni di pluralismo e di coabitazione religiosa.

Se il tema dell’incontro con l’alterità religiosa non ha mai mancato di suscitare l’interesse scientifico di studiose e studiosi, vero è che in tempi più recenti molta ricerca sociale (maturata soprattutto nell’ambito dell’antropologia africanista) ha investigato in particolare le relazioni pluri-religiose (e inter-etniche) oltre lo spettro (talvolta tangibile, talvolta più retorico) della violenza e al di là dell’ambizione ecumenica al dialogo interreligioso (Peel 2016). In una recente pubblicazione (2021) Marloes Janson si focalizza sui plurimi livelli di scambio interreligioso intercorrenti tra cristiani, musulmani e yoruba in Nigeria, suggerendo di non restringere troppo la prospettiva d’indagine scientifica sulla singolarità delle specifiche tradizioni religiose, dando quasi per scontata la staticizzazione particolaristica (e atomistica) di queste nel campo sociale definito dalla religione.

janson-crossing-religious-boundariesIl lavoro della Janson si incentra sulla regione sudoccidentale della Nigeria, conosciuta anche come Yorubaland. Qui il livello di prestiti e interazioni tra cristiani e musulmani acquista un’intensità talmente elevata da poter parlare di Chrislam, un movimento in cui elementi delle fede cristiana (e protestante in particolare) e musulmana si combinano in una coalescenza fluida senza che ciò induca i credenti, sostenuti da un approccio pratico e pragmatico al fatto religioso, a considerare contraddittorie le loro espressioni rituali e devozionali. Stupisce, ad esempio, come alcuni recenti – e spiccatamente giovanili – movimenti religiosi sorti in seno all’Islam abbiano mutuato temi retorici e persino elementi rituali dalle Chiese protestanti che proliferano a Lagos, condividendone lo spirito imprenditoriale che, in una città considerata come il cuore pulsante della Nigeria, non può che alimentare ricerca di miglioramento di Sé, di salvezza e di guadagno.

Secondo la Marlon, si rivelerebbe particolarmente fruttuosa la scelta operata da ricercatori e ricercatrici di estendere il loro sguardo ai modi in cui coloro che ‘praticano’ la religione vivono concretamente l’esperienza religiosa in un ambiente per forza di cosa plurale (ma non per questo a-conflittuale). L’enfasi sulla pratica non è casuale, dato che nella concreta articolazione rituale è più facile osservare reciprocità, scambio e inter-partecipazione religiosa (senza dimenticare conflitti e ostilità, ovviamente). In uno studio dedicato al rituale, Singerman et al. (2008) riflettono su come la capacità che i rituali (non solo religiosi) detengono nell’evocare mondi “al congiuntivo” nei quali si snoda un piano dell’esistenza che per molti aspetti oltrepassa quello ordinario, stimoli la facoltà dei partecipanti al rituale a negoziare la diversità – primariamente tra dimensione rituale e dimensione non rituale ma, aggiungerei, anche tra pratiche e tradizioni religiose diverse. Questa facilitazione alla mediazione rituale mi sembra emergere da già esistenti studi e ricerche su pratiche rituali e luoghi sacri condivisi, ad esempio in ambito mediterraneo (Albera, Couroucli 2009). Dal Nord Africa alla Turchia, la figura del ‘santo’, ad esempio, è oggetto di una devozione interconfessionale che, specie nei momenti di crisi ma anche nella ciclica interpellazione profilattica di queste figure mediatrici, sembra reggere, pur con alterne difficoltà, alla pressione operata dai fondamentalismi di ogni sorta per respingere gli spazi di tali sconfinamenti confessionali e devozionali.

9782742782680E tuttavia, benché di particolare valore data la ben nota gelosia esclusivista che contrassegna la postura di divinità, credenti e pratiche ascrivibili all’orizzonte religioso monoteista, nell’area d’elezione delle grandi religioni semitiche l’interconfessionalità e la condivisione rappresentano momenti e contesti sì di grande vitalità ma piuttosto limitati per quantità di persone e gruppi coinvolti e per capacità di estendersi oltre specifiche evenienze rituali fino a irraggiare la devozione quotidiana e l’ambito, qui isolato per comodità espositiva, delle ‘credenze’. 

Studiosi come Michael Lambek (2008) sono stati molto espliciti nel proporre il superamento di logiche binarie ed esclusive che caratterizzano molta teoria sociale sulle religioni, invitando ad adottare un approccio più inclusivo, reso plasticamente dal paradigma alternativo del “both/and paradigm”: le scelte religiose maturano nel registro ambi- e polivalente dell’“anche”. Si tratta di un livello teorico che comporta un avanzamento rispetto alle pur importanti riflessioni maturate nella sociologia americana dello scorso secolo e che offrivano una cornice interpretativa in cui collocare la crescente porosità dei confini religiosi e la moltiplicazione delle scelte religiose a disposizione di ogni individuo definendo l’appartenenza religiosa in termini di scelta razionale compiuta da attori in grado di bilanciare costi e benefici nell’ampio supermarket religioso.

91tvytqtfflSimilmente, Nolte e Ogen (2017) hanno sostenuto che la concettualizzazione dei confini religiosi si basi sul riconoscimento dell’agentività religiosa dell’‘altro’, riconoscimento che prevede tanto la preservazione di tali confini quanto la facilitazione dell’interazione. Per inciso, si noti come tali proposte teoriche comportino un ripensamento, se non un vero e proprio superamento, di nozioni e paradigmi a lungo dominanti nell’antropologia e negli studi sulla religione in genere, come quelli di ‘ibridismo’ e ‘sincretismo’. Il potere evocativo di simili categorie risiede nel proporre una prospettiva unitaria entro cui situare la diversità culturale e religiosa – la tendenza del molteplice a diventare uno, sia pure un ‘uno’ multiforme e integrato da spinte diversificate. Il lato problematico di ‘sincretismo’, come sottolinea Spies (2013) risiede però nell’impedire di scorgere come i tratti culturali (ivi compresi gli elementi delle culture materiali religiose, le figure della devozione, i rituali, ecc.) non stiano semplicemente l’uno con l’altro o l’uno contro l’altro: essi «semplicemente stanno fianco a fianco» (ivi: 123). In altri termini, secondo Spies concetti come ‘sincretismo’ inducono a sovrastimare la tendenza centripeta delle dinamiche sociali e culturali, riflesso – forse – di tradizioni di pensiero come quella occidentale, in cui la semplice giustapposizione, la pacifica compresenza, la serena coabitazione non trovano senso se non all’interno del telos universalista (e intimamente belligerante) dell’‘uno’ che ogni cosa comprende.

Da questo punto di vista, un decisivo apporto teorico è stato offerto da Filippo Osella e Benjamin Soares (2020), che hanno provato a sviluppare una nuova prospettiva analitica per tematizzare la religiosità come «formata ed esperita attraverso l’impegno e l’incontro con gli Altri, siano essi [Altri] dal punto di vista religioso, etnico o politico, sia localmente che globalmente» (ivi: 466). Non è un caso che l’analisi dei due studiosi muova da due contesti di ricerca etnografica che assurgono facilmente a emblema di coabitazione multi-religiosa – oltre che di tensioni inter-confessionali: la Nigeria e lo Stato indiano del Kerala. Della Nigeria si è già accennato in precedenza; quanto all’Asia meridionale si dirà più diffusamente oltre. In ogni caso, Osella e Soares si sono prefissi di fornire una cornice interpretativa allo studio del pluralismo oltre il livello dell’analisi testuale e dei dibattiti teologici, pur necessari e meritevoli di interesse, situandolo nelle complesse interrelazioni tra reti sociali religiose locali e trans-locali, che «costituiscono i terreni storici e contestuali in cui le religioni sono fatte e vissute, entro l’ambiente sociale, culturale, politico ed economico in cui esse sono dibattute […] e cambiano nel tempo» (ivi: 477). 

38673344-_sy475_Dall’Oceano Indiano…

L’Asia, e la regione del subcontinente indiano in particolare, si candida invece a esprimere una maggiore complessificazione in materia di coabitazione religiosa e pluralismo, categorie che – come emerge da studi e ricerche etnografiche d’area – esercitano un impatto trasformativo sulla costituzione stessa delle tradizioni religiose.

Oltre al già citato lavoro di Filippo Osella, e senza poter debitamente passare in rassegna una serie di opere, autrici e autori che hanno offerto un utilissimo contributo per concepire l’eterogeneità del campo religioso sud-asiatico in termini di incontro piuttosto che di singole e de-finite tradizioni (Das 2017; Alam 2004; Flueckiger 2006), non può non essere menzionato il ben noto lavoro di antropologia storica realizzato da David Mosse sulle relazioni tra induismo e cattolicesimo nello stato indiano del Tamil Nadu. Incrociando fonti storiche e dati etnografici, Mosse (2012) ha articolato una riflessione che delinea finemente il complesso panorama scaturito dall’incontro tra cattolicesimo missionario e induismo, ricostruendo le modalità pragmatiche con cui il primo non osteggiò sistemi di relazioni sociali di matrice induista, come quello delle caste, formalmente in contrasto con l’impianto teologico e dottrinale cattolico, favorendone semmai un originale adattamento che ha portato, in tempi più recenti, alla soggettivazione politica dei gruppi “fuori casta” dalit, le cui rivendicazioni contemporanee attingono al linguaggio universalista del cristianesimo.

Vorrei però concentrarmi su un altro contesto dell’Asia meridionale, lo Sri Lanka [1], dove il livello di condivisione delle pratiche religiose interroga costantemente la tenuta di confini sociali e religiosi quotidianamente attraversati sia negli ambiti rituali convenzionali e pubblici sia nell’articolazione devozionale quotidiana.

Un altare religioso in un negozio srilankese a Messina. Si distinguono le figure di Buddha, Sant'Antonio di Padova, San Sebastiano, della Madonna di Tindari e dell'Arcangelo Gabriele (ph. Giovanni Cordova)

Un altare religioso in un negozio srilankese a Messina. Si distinguono le figure di Buddha, Sant’Antonio di Padova, San Sebastiano, della Madonna di Tindari e dell’Arcangelo Gabriele (ph. Giovanni Cordova)

Basterebbe visitare un qualunque negozio singalese delle nostre città maggiormente coinvolte nella mobilità internazionale che fa capo a quest’isola dell’oceano indiano. Statue di Buddha e una particolareggiata iconografia cattolica (la Madonna – nelle sue manifestazioni locali, a seconda del territorio; i santi – in particolare Sant’Antonio; Gesù) convivono nel medesimo spazio-altare religioso, insieme a incensi, ceri votivi e lampade tradizionali. Lo stesso può dirsi per le abitazioni private, in particolare per quelle in cui vivono famiglie ‘miste’ derivate dal matrimonio tra buddhisti e cattolici. Qui, sono soprattutto i buddhisti a incorporare agevolmente figure e pratiche religiose cattoliche in modelli devozionali e ‘pantheon’ nei quali, per proporre un esempio ricavato dalla mia esperienza di ricerca, Lord Buddha, la divinità indu-buddhista Pattini e la Madonna di Tindari convivono senza che questa coesistenza venga considerata problematica o contraddittoria. La Madonna nera di Tindari, oggetto di forte devozione tra srilankesi cattolici, buddhisti e induisti residenti nella Sicilia nord-orientale, si ritrova ad assumere caratteristiche condivise da altre entità femminili induiste e buddhiste. I diversi appellativi (Amma, Maniyo) col quale vengono salutate in chiesa, templi e santuari e che richiamano il piano della maternità, schiudono orizzonti condivisi, fluidamente sovrapponibili e accessibili, di richiesta di protezione, intercessione, mediazione, ascolto, e financo salvezza.

Non è poi infrequente ritrovare ceri e icone di Padre Pio presso i templi buddhisti; buddhisti che non esitano a proporre percorsi di socializzazione religiosa tutt’altro che univoca ai propri figli, sulla base di valutazioni insieme spirituali e paradigmatiche – come la considerazione del maggior radicamento di una religione piuttosto che di un’altra nel contesto di immigrazione. I buddhisti non esitano a partecipare alle principali feste religiose cattoliche e anche i cattolici (che, e questo vale soprattutto per i più giovani, al cospetto del prete/cappellano eseguono la medesima modalità rituale di saluto, inchinandosi e toccando terra con gomiti e fronte, che i fedeli buddhisti eseguono in presenza del monaco, thero) sogliono recarsi al tempio in particolari occasioni, sebbene preti e cappellani non manchino di esprimere la loro disapprovazione quando vengono a sapere che i loro parrocchiani manifestano forme di deferenza rituale nei confronti dei monaci buddhisti. Gelosia monoteistica, si diceva…

Suore Sri Lanka: Diversi ordini religiosi, comprese le suore cattoliche, si sono uniti ai manifestanti, nella capitale e in altre città srilankesi.

Diversi ordini religiosi, comprese le suore cattoliche, si sono uniti ai manifestanti, nella capitale e in altre città srilankesi

Del resto, gli srilankesi (emigrati in Italia o residenti altrove) attingono a un’esperienza religiosa di superamento del confine sedimentata nella tradizione di condivisione di siti pellegrinali e luoghi di culto tra i più popolari nel Paese. È il caso del monte Sri Pada, del santuario di Kataragama e di quello della Madonna di Madhu, nel nord-est dell’isola, che irradia forme di devozione trans-nazionale le quali mobilitano gli srilankesi cattolici in ogni parte del mondo. Il pellegrinaggio al santuario, specie quello che si compie il giorno della Festa, il 15 agosto, coinvolge diversi gruppi confessionali per più giorni (e va ricordato che almeno una cappella del santuario è stata restaurata dalla comunità musulmana). Questa esperienza pellegrinale viene ricalcata dall’organizzazione di pellegrinaggi e feste mariane che nello stesso periodo si svolgono nei contesti della migrazione [2].

La facilità di queste interrelazioni, che può generare creative e competitive interazioni teologico-morale, come ha mostrato Mahadev (2019) in relazione alle reciproche compenetrazioni tra la nozione cristiana di ‘grazia’ e quella buddhista di ‘karma’, non deve in ogni caso far dimenticare la matrice etnico-religiosa assunta da alcuni tra i più feroci conflitti della storia contemporanea srilankese, e su cui si è innestata la guerra civile (ovvero la contrapposizione tra esercito singalese e milizie indipendentiste tamil) conclusasi solo nel 2009, al prezzo di quasi cento mila vittime e di un irrigidimento in senso politico e militare della configurazione politico-statuale srilankese (Withaker et al. 2022), recentemente avversata da una vasta mobilitazione popolare innescata dalla crisi economica che continua a imperversare sull’isola.

Può sembrare paradossale che in un Paese in cui alcune tra le maggiori tradizioni religiose su scala mondiale (buddhismo, induismo, Islam e cattolicesimo) detengono una visibilità e un’agibilità nello spazio pubblico altrove inimmaginabile, prevedendo l’agile passaggio della soglia interconfessionale, come testimoniato dalla presenza di siti pellegrinali e luoghi di culto nei quali convergono tradizionalmente gruppi di varia estrazione religiosa, l’appartenenza confessionale possa alimentare retoriche e politiche ferocemente connotate in senso etno-nazionalista (Obeyesekere 1988; Tambiah 1992), tessendo la trama dei miti di fondazione della nazione, condizione che il Buddhismo – religione pacifica e pacifista par excellence – si è ritrovato storicamente ad assumere in relazione al nazionalismo singalese (sinhala), alle traiettorie dello Stato post-coloniale e alla violenza etnica (Kapferer 1988).

Più recentemente, nel 2019, gli “attentati di Pasqua” hanno scosso l’opinione pubblica e contribuito a determinare un’incertezza politica confluita poi nell’attuale crisi istituzionale ed economica che l’isola sta vivendo tutt’oggi. Il 21 aprile del 2019, giorno di Pasqua, una serie di esplosioni innescate da kamikaze hanno colpito luoghi di culto cristiani come il santuario di Sant’Antonio di Kotahena e la chiesa di San Sebastiano di Negombo, particolarmente affollati vista la giornata di festa, nonché altri siti della capitale, Colombo, come alberghi di lusso frequentati anche da turisti, causando in totale 253 morti. La responsabilità degli attentati è stata attribuita all’organizzazione jihadista locale Thowheeth Jama’ath. Tuttavia, nei mesi successivi la Chiesa cattolica srilankese ha aspramente rimproverato il governo di non aver individuato i ‘reali’ mandanti degli attentati, evocando l’inefficacia dell’azione governativa ma, soprattutto, dando parzialmente sostanza a dubbi e sospetti ben presenti nell’opinione pubblica, secondo la quale l’orchestrazione degli attentati avrebbe riflesso interessi politici, legittimando candidati – come Gotabaya Rajapaksa, vincitore delle elezioni presidenziali che si sarebbero tenute nel novembre dello stesso anno – ben noti nel panorama politico srilankese (la famiglia Rajapaksa è attiva nel quadro politico nazionale da lungo tempo: il fratello di Gotabaya, Mahinda, è stato presidente dal 2005 al 2015) e votati per la paura del caos e dell’instabilità politica.

La crisi economica e sociale che ha raggiunto il suo culmine nel 2022 è stata originata da diversi fattori concomitanti:

«la mancanza di una rodata struttura produttiva di base in qualsivoglia settore, da quello agricolo a quello industriale, che è in parte l’eredità del dominio coloniale; la dipendenza dagli Investimenti Diretti Esteri (IDE) e la loro contemporanea improduttività per il Paese, con particolare riguardo a quelli della Cina (ma anche dell’India); l’incidenza di settori molto colpiti dalla pandemia, come il turismo sul Prodotto Interno Lordo (PIL) e infine una debole politica economica e monetaria» (Valacchi 2022).
Protesta Sri Lanka. Durante la mobilitazione del 2022 contro il presidente Rajapaksa il tema del sacrificio di Cristo è stato ricorrente in immagini e scenografie della protesta.

Protesta Sri Lanka. Durante la mobilitazione del 2022 contro il presidente Rajapaksa il tema del sacrificio di Cristo è stato ricorrente in immagini e scenografie della protesta

Durante le imponenti manifestazioni di piazza, nelle quali la popolazione chiedeva le dimissioni del presidente Rajapaksa, da questi finalmente rese nel luglio 2022, si è assistita a una originale messa in scena di solidarietà e relazioni interconfessionali. Monaci buddhisti, sacerdoti induisti, suore e preti cattolici hanno sfilato insieme per le strade di Colombo, rivendicando maggiore giustizia sociale, chiedendo le dimissioni del presidente e – soprattutto da parte cattolica – denunciando le persistenti incertezze intorno gli attentati del 2019. La componente cattolica della protesta ha assunto una funzione centrale nelle proteste; si pensi alla potente eco scenica della raffigurazione drammaturgica del corpo sofferente del Cristo condotto alla croce e crocifisso, presente nelle strade e nelle piazze (reali e virtuali) della mobilitazione. Una rappresentazione, questa, volta a proporre un parallelo tra il sacrificio di Gesù e le sofferenze del popolo srilankese, fiaccato da una grave crisi economica che si concretizza nella penuria di beni di prima necessità come alimenti, farmaci e benzina, oltre che dalla spietata repressione delle forze dell’ordine contro i manifestanti.

Le immagini di attori religiosi posti gli uni accanto agli altri nel subire le cariche della polizia hanno fatto il giro del mondo. È ancora presto per stabilire se la mobilitazione abbia innescato una nuova ricomposizione delle fratture etnico-religiose (in un Paese, ricordiamolo, in cui il nazionalismo singalese-buddhista non manca di agire periodicamente nel plasmare le tassonomie dell’inclusione e dell’esclusione sociale) incoraggiando un’originale rinegoziazione dei confini religiosi e sociali. Del resto, ogni crisi è opportunità, e gli usi politici della religione non si inscrivono necessariamente nel campo delle ostilità e delle frizioni, potendo invece inaugurare solidarietà, mutualismo, legami di fiducia.

… alla penisola balcanica

«Chi passa la notte sveglio a Sarajevo può udire le voci della sua oscurità. Pesantemente e inesorabilmente batte l’ora sulla cattedrale cattolica: due dopo la mezzanotte. Passa più di un minuto – esattamente, ho contato, 75 secondi – e solo allora si annuncia con un suono più debole, ma acuto, l’orologio della chiesa ortodossa che batte anch’esso le “sue” due ore. Poco dopo si avverte con un suono rauco e lontano la torre dell’orologio della Moschea del Bey, che batte le undici, undici ore degli spiriti turchi, in base a uno strano calcolo di mondi lontani e stranieri.
Gli ebrei non hanno un loro orologio che batte le ore… Il loro Dio è l’unico a sapere che ore sono in quel momento da loro. Quante in base al calcolo dei sefarditi, quante secondo il calcolo degli askenazi…
Così anche di notte, mentre tutto dorme, nel conto delle ore vuote del tempo veglia la differenza che divide questa gente assopita che da desta gioisce e soffre, che si nutre e digiuna in base a quattro diversi calendari, ostili tra loro, e che rivolge tutte le sue preghiere allo stesso cielo in quattro diverse lingue ecclesiali».

102413009_3013457505374001_6687152135978524555_oLa prosa di Ivo Andrić nella sua Lettera del 1920 fa addentrare il lettore nel fascino inquietante di Sarajevo, percorsa dai fantasmi di divinità e spiriti mai domi, pronti ad alimentare distinzioni e divisioni che dalla messa in ordine del quotidiano scivolano inesorabilmente nell’ombra tetra dei massacri e dei revanchismi etnico-identitari.

Dall’Oceano Indiano scivoliamo nella penisola balcanica e precisamente nei Balcani occidentali, per concludere queste riflessioni preliminari in tema di confini religiosi. In queste poche righe non è possibile analizzare compiutamente il conflitto bosniaco della prima metà degli anni Novanta dello scorso secolo, il lungo “secolo breve”. “Guerra mondiale nascosta”, come ebbe a definire il conflitto in Bosnia l’ex segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, per via delle omissioni e degli interessi sotterranei che non risparmiavano alcuna delle potenze mondiali; guerra che può giustamente essere considerata l’esito della dissoluzione del progetto unitario jugoslavo destinato alla marcescenza dopo la morte del maresciallo Tito. Alla genesi della guerra in Bosnia, al pari delle altre guerre jugoslave, hanno concorso potenti interessi nazionalistici (nel caso specifico, quello della Croazia e della Serbia). Parliamo di confini politici che peraltro interrogano la nostra stessa Unione Europea, ente finanziatore di innovativi e costosissimi progetti tecnologico-militari biometrici di profilazione etnica con cui reprimere i flussi migratori lungo la cosiddetta ‘rotta balcanica’, come recentemente denunciato da associazioni e osservatori. Ma parliamo anche di confini religiosi, come dimostra la partita sulla definizione di un islam europeo che trova in Bosnia una possibile sintesi tra fondazione ottomana, centralità storica di sufismo e sistema educativo imperniato su ulema e madrase (Diez 2017) e vocazione plurale insita nell’ineliminabile compresenza cristiano-ortodossa che compone il paesaggio storico-religioso bosniaco [3].

Biblioteca Sarajevo: targa all'ingresso della biblioteca nazionale di Sarajevo che ricorda l'attacco incendiario serbo del 1992 (ph. Giovanni Cordova)

Biblioteca Sarajevo: targa all’ingresso della biblioteca nazionale di Sarajevo che ricorda l’attacco incendiario serbo del 1992 (ph. Giovanni Cordova)

I ponti della Bosnia Erzegovina rammentano l’inesorabilità di una soglia che può farsi comunicazione e annientamento al tempo stesso. Lo testimonia già il ponte ‘latino’ della capitale, dove ebbe luogo l’attentato che nel 1914 portò alla morte l’erede al trono dell’impero austroungarico, Francesco Ferdinando, e sua moglie Sofia per mano di Gavrilo Princip, la cui sagoma figurava pubblicamente, riprodotta a un’estremità del ponte, fino a non molti anni fa, prima che venisse rimossa. Non distante dal ponte ‘latino’, la meravigliosa biblioteca nazionale di Sarajevo, alla quale i nazionalisti serbi appiccarono il fuoco nel 1992, portando alla distruzione circa due milioni di libri. La lenta e cumulativa stratificazione del sapere, condensata nel patrimonio culturale, sembra contrapporsi alla rapida ferocia dei crimini di guerra, richiedendo protezione e cura, come quella mostrata dal curatore della libreria Gazi-Husrev bey, fondata dall’omonimo governatore ottomano nel 1527. Una collezione straordinaria per ricchezza e rarità dei testi e dei manoscritti (in arabo, persiano, turco e bosniaco) custoditi, inclusi capolavori dell’arte calligrafica islamica e i testi stampati nella prima tipografia islamica di Istanbul. Un patrimonio che sarebbe andato perduto, nei primi anni Novanta, se il curatore Mustafa Jahic non avesse congegnato un astuto piano per porlo in salvo, trasportandolo in altri luoghi della città all’interno di insospettabili casse adibite al trasporto della frutta. La biblioteca ha riaperto al pubblico nel 2014, grazie soprattutto ai fondi del Qatar.

Ponte latino di Sarajevo (ph. Giovanni Cordova)

Ponte latino di Sarajevo (ph. Giovanni Cordova)

Dei ponti bosniaci che uniscono e dividono, l’emblema è però quello di Stari Most, nella città meridionale di Mostar, a ridosso della Croazia e non distante da Medjugorie, altra storia che – come tutte le apparizioni mariane – rivela e amplifica i sommovimenti tellurici ribollenti nel tessuto sociale, politico e identitario delle comunità e dei gruppi coinvolti. Il ponte ottomano di Mostar, risalente al XVI secolo, venne distrutto dalle milizie croato-bosniache nel 1993. La ragione strategico-funzionale di quello che potrebbe essere definito ragionevolmente un “urbicidio” (Coward, 2009) risiedeva nell’interrompere il flusso di comunicazione tra le due parti della città unite dal ponte. Ma non occorre eccessivo sforzo di fantasia per immaginare come il portato simbolico e identitario del patrimonio culturale possa costituire un obiettivo sensibile per operazioni militari di ogni sorta. Il ponte di Mostar è stato ricostruito impiegando le sue originali 1088 pietre grazie al sostegno dell’UNESCO (e degli Stati che hanno finanziato l’operazione, con l’Italia in prima fila nelle donazioni) e riaperto ufficialmente nel 2004. Oggi è un affollato sito turistico, da cui giovani uomini si tuffano nelle acque del sottostante fiume Narenta in prove di virilità ben integrate e mercificate nell’economia del turismo internazionale.

Sarejevo Meeting of Cultures: Inscrizione sulla strada a Sarajevo, realizzata da un'associazione locale impegnata nella valorizzazione del patrimonio culturale della città (foto dell'autore).

Iscrizione sulla strada a Sarajevo, realizzata da un’associazione locale impegnata nella valorizzazione del patrimonio culturale della città (ph. Giovanni Cordova)

“Sarajevo Meeting of Cultures”, recita un’iscrizione nella città vecchia di Sarajevo, incisa sulla strada di via Ferhadija, non distante dalle cattedrali cattolica, serbo-ortodossa e dalla moschea di Gazi Husrev Bey. La valorizzazione della diversità culturale, recentemente perseguita da attori nazionali e internazionali, e la commutazione del confine in ricchezza (culturale e materiale) non cancellano l’assedio di Sarajevo, tra i più lunghi dello scorso secolo; né la memoria del genocidio di Srebrenica, dichiarata già nel 1993 ‘zona protetta’ dalle Nazioni Unite, e dove nel 1995 circa ottomila uomini bosgnacchi (bosniaci di religione musulmana), tra cui tanti giovani e giovanissimi, vennero uccisi dalle truppe serbo-bosniache guidate dal ‘macellaio dei Balcani’, il serbo Ratko Mladić. Quest’ultimo legittimò l’epurazione genocida evocando una vendetta storica contro l’impero ottomano e l’Islam che il disegno della Repubblica Serba di Bosnia e Erzegovina avrebbe portato a termine. 

Stari Most, il ponte della città vecchia, Mostar (ph. Giovanni Cordova).

Stari Most, il ponte della città vecchia, Mostar (ph. Giovanni Cordova)

Ben prima della guerra in Ucraina scatenata dall’invasione russa, l’Europa faceva i conti con lo scenario delineatosi dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e la definitiva dissoluzione degli imperi e dei progetti politici sovra-statali (la Jugoslavia), sempre in bilico tra vocazione cosmopolita e accentramento nazionalista. L’eredità di questa configurazione composita si è trasposta sul piano istituzionale dei sistemi politici nazionali. Il sistema istituzionale bosniaco, generato dagli accordi di Dayton, prevede tre presidenti – un bosgnacco, un serbo e un croato – e ambiti parlamentari ripartiti tra cantoni, entità e Stato. Dalla fine della guerra, nel 1995, la Bosnia-Erzegovina è infatti composta da due entità (la Republika Srpska, a maggioranza serba, e la Federacija, abitata principalmente da bosgnacchi e croati). È l’istituzionalizzazione del confine.

I confini religiosi incorporano differenze e marcatori identitari più ampi: dall’appartenenza etnica alle affiliazioni politiche. La religione non è mai solo ‘credenza’, come sanno bene antropologhe e antropologi. E nel confine, che nell’atto di separare unisce, convivono romanticismo e poesia al pari di violenza e primati identitari. Lo si tiene bene a mente percorrendo la strada che, dalla Bosnia nord-orientale, conduce in Serbia dritto fino alla capitale, Belgrado. Sui cavalcavia di strade e autostrade campeggia la scritta “Kosovo is Serbia!”. Altre vicende, altri confini, altre memorie, comunque condensate nel significante oscillante della soglia e nelle sue dinamiche declinazioni. Ma questa è, appunto, un’altra storia.

Dialoghi Mediterranei, n. 58, novembre 2022 
Note
[1] Queste considerazioni si basano su una ricerca etnografica in corso nella città di Messina, nell’ambito del PRIN 2017 “Migrazioni, spaesamento e appaesamento: letture antropologiche del nesso rituali/migrazioni in contesti di Italia meridionale”. In quanto tali, riflettono la composizione etnico-religiosa della popolazione srilankese residente a Messina (maggioritariamente cattolica e singalese, sebbene vi sia una nutrita comunità buddhista). 
[2] Nel contesto messinese, che ho esaminato, la festa della Madonna di Dinnammare, della Madonna delle Lacrime di Siracusa e anche quella dell’Assunta di Messina (tutte e tre ricadenti nel mese di agosto) vengono rappresentate come parte di un unico ciclo festivo-rituale.
[3] Cfr. https://www.oasiscenter.eu/it/il-volto-istituzionale-dellislam-bosnia.  
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Giovanni Cordova, assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dellUniversità degli Studi di Catania, dove conduce uno studio sulla ritualità religiosa delle comunità di origine asiatica residenti in Sicilia, ha condotto ricerche etnografiche in Italia (Lazio, Calabria, Sicilia) e in Tunisia, dove ha preso in esame i processi di soggettivazione politica e religiosa tra i giovani delle classi medie e popolari dopo la Rivoluzione. Tra i suoi principali interessi scientifici, le migrazioni internazionali (con particolare riferimento ai contesti del lavoro e dell’accoglienza nell’Italia meridionale) e l’articolazione del rapporto tra politica e religione in Nord Africa. 

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