di Alessandro Perduca
«Lo amavo […] come contemplo me stesso
con stolta ripulsa e gioia parimenti stolta» [1].
Il 28 agosto 1598 l’Hector, salpato da Londra nel gennaio di quello stesso anno, approda a Costantinopoli. Reca in dono, personalmente scelti da Elisabetta I, una carrozza per Safıye Sultan, favorita del sultano e un elaborato organo a orologeria per Mehmed III. Faceva parte dell’equipaggio il costruttore dell’organo: Thomas Dallam, un artigiano e musicista di Warrington, piccola cittadina del Lancashire. Il viaggio lungo e lontano dagli standard logistici di oggi, mette a dura prova lo strumento che giungerà alla capitale dell’impero danneggiato e sconnesso. Dallam si mette al lavoro e in un mese circa, sotto gli occhi curiosi e invidiosi del bailo veneziano, dell’ambasciatore francese e quelli preoccupati dell’ambasciatore inglese appronta lo strumento per un’esibizione al palazzo Topkapi alla presenza del sovrano.
Immaginiamo lo strumento condotto nei cortili interni del palazzo e il ventiquattrenne Dallam intento ad azionarne i meccanismi che configurano una fantasmagoria di suoni e figure meccaniche. L’entusiasmo del sultano protrasse lo spettacolo per due ore. Dallam fu ricompensato con oro, condotto nelle stanze private del sultano e gli fu consentito l’accesso all’harem. I consiglieri del sultano cercarono in ogni modo di convincerlo a restare a corte, ma nulla valse, salvo impedirgli di salpare nel dicembre del 1599 con l’Hector, pronto per recare doni e missive diplomatiche a Londra. Con la scusa di una malattia e gli uffici dell’ambasciatore inglese ottenne di ricongiungersi a Zante con la nave di ritorno in patria. Per guidarlo gli fu assegnato un dragomanno [2], interprete imperiale, un compaesano del Lancashire di nome Finch convertito all’Islām. Raggiunta la costa greca i due si separarono e la distanza di ventiquattro miglia che separava i rispettivi paesi natali Warrington e Chorley divenne la distanza fra due mondi all’alba di un incontro e di un dialogo dalla complessità drammatica e in divenire [3].
Viene alla mente Il Castello bianco, romanzo di Orhan Pamuk che racconta la vicenda dell’astrologo musulmano Hoja e dello schiavo veneziano affidatogli in custodia, detentore del sapere tecnico in grado di costruire armi. I due, somiglianti come gocce d’acqua, finiranno per scambiarsi identità e destini consci della profonda omologia della propria condizione umana. Come acutamente nota Marc David Baer: «Sebbene il lettore sia portato a credere che i due uomini si scambino le vite al castello bianco, alla fine del romanzo non si riesce a stabilire chi sia il narratore, chi il padrone, chi lo schiavo e nemmeno se padrone e schiavo siano la stessa persona. Attraverso il personaggio doppio di Hoja, Pamuk chiede al lettore di riflettere su dove si trovi il conflitto tra Oriente e Occidente, e se musulmani e cristiani – l’impero ottomano e il resto d’Europa – siano poi così diversi» [4]. Riconoscere, come propone Marc David Baer, la storia ottomana come parte della storia europea e modello di un’altra Europa, anziché un’Europa altra o di un mondo altro, significa porre uno specchio di fronte a ciascun interlocutore e chiedere a ciascuno di attraversarlo per mettere alla prova quel rapporto delicato e complesso che Amin Maalouf ha così sapientemente articolato nella dialettica fra identità e appartenenze [5].
Fra le figure cardine di questo movimento e di questi passaggi spicca la poliedrica, proteiforme e complessa figura del principe Dimitrie Cantemir. Nato a Silişteni nell’allora Moldavia e attuale Romania nel 1673, era figlio di Ana Bantăş, colta rampolla di una famiglia nobile locale e di Constantin proveniente da una famiglia di origine tatara e illetterata. Questi, soldato di fortuna, servì per il sultano contro svedesi e polacchi guadagnando lo status di sardar [6]; fluente in turco e tataro, divenne uomo di fiducia della sublime Porta tanto da essere nominato Voivoda di Moldavia nel 1685. Nelle sue opere Dimitrie fa opera di cosmesi delle proprie origini facendo risalire le origini della casata a Timur Lenk (1336-1405), il Tamerlano della tradizione occidentale. Il nome Cantemir composto di kan (sangue) e temir (ferro), sconosciuto alla latinità balcanica di Moldavia e Romania, sarebbe un omaggio alle origini tatare di Crimea precedenti il battesimo e alluderebbe alle virtù guerriere della stirpe.
Le umili origini del padre non impedirono che la formazione culturale del giovane Dimitrie fosse di primissimo ordine. Secondo la tradizione culturale dei nobili moldavi e valacchi la sua educazione fu condotta in greco e affidata al monaco Ieremias Cacavelas che lo avviò alla lingua e alla letteratura. Cacavelas era un religioso cretese vissuto nelle terre rumene, aveva studiato a Lipsia e a Beciu e conosceva latino, greco e italiano, lingua veicolare dei commerci e della diplomazia nel Levante. Teologo, storico, filosofo e mistico infuse una profonda cultura e interessi variegati nella mente di Dimitrie. Il giovane principe arrivò a Costantinopoli nel 1688, inviato come ostaggio secondo l’uso ottomano. La sua permanenza nella capitale si sarebbe protratta fino al 1710 con brevi ritorni in Moldavia: nel 1691 e fino alla morte del padre Constantin avvenuta nel 1693, per succedergli brevemente. Nel giro di tre settimane fu però rimpiazzato da Constantin Duca, la cui candidatura era sostenuta dal suocero, il Voivoda valacco Constantin Brâncoveanu che, caduto in disgrazia, fu sostituito a propria volta da Antioch fratello di Dimitrie che lo inviò alla Porta come ambasciatore; per sposare, poi, nel 1699 Cassandra Cantacuzino, figlia del Voivoda di Valacchia e divenirne de iure erede. Nel primo soggiorno raggiunse una capitale imperiale nel pieno della sua vitalità cosmopolita, «introduced to the fascinating world of ideological contradictions and semantic ambiguities where he found the stimulating resources to satisfy his effervescent imagination» [7].
Prosegue gli studi nella Μεγάλη του Γένους Σχολή, il Collegio greco ortodosso del Fanar, fondato nel 1454 per l’istruzione degli ortodossi dell’Impero. Il Collegio era noto per la libertà di pensiero spesso in contrasto con la rigidità della tradizione ortodossa e quivi oltre a greco e latino si potevano studiare discipline quali la filosofia, le scienze e la medicina. Dimitrie proseguì la sua istruzione sotto l’egida di Alexandros Mavrocordatos, dragomanno imperiale e politico, campione del neoaristotelismo, del grammatico Iacomi e del geografo Melezio di Arta seguaci del filosofo empirista Van Helmont e di Crisanthos Notaras futuro Arcivescovo di Gerusalemme.
La curiosità e vivacità intellettuali del principe travalicavano i confini delle humanae litterae e ben presto cominciò a studiare il turco e la religione islamica sotto la guida dello scienziato e filosofo Yanyalı Es’ad Efendi bin Ali, si dedicò allo studio dell’arabo con il commentatore coranico Nefioğlu che a sua volta aveva imparato il latino da autodidatta e aveva un’estesa conoscenza dell’umanesimo occidentale.
Parallelamente all’istruzione umanistica persegue studi musicali nell’ambito della musica classica ottomana. Inizia lo studio del Tanbûr, liuto a manico lungo della tradizione, con il greco convertito Kemani Ahmed Çelebi e il greco Angeli, musicista di corte. Per quanto un sicuro conoscitore della liturgia ortodossa e della musica bizantina, non consta che il principe avesse intrapreso studi strumentali occidentali. In breve tempo la sua fama di esecutore si diffonde e il suo talento viene apprezzato fra i circoli della capitale. L’apparente dicotomia avvertita in Occidente fra gli interessi umanistici e quelli musicali orientali va risolta a favore di una visione olistica propria dell’atmosfera culturale che lo circondava.
La tradizione musicale ottomana giunge nel XVII e soprattutto agli inizi del XVIII secolo ad una maturazione stilistico compositiva che integra e fonde le diverse componenti della sua multiforme genesi; le componenti arabe, bizantine, persiane e centroasiatiche si amalgamano in una koinè stilizzata ed estetizzante in grado di trarre ispirazione da ogni componente del variegato universo ottomano, sia religioso che profano e alla quale la multietnica élite imperiale contribuisce in una commistione di stilemi e linguaggi: turchi, persiani, arabi, armeni, ebraici, balcanici, greci ed italiani dove i confini risultano confusi e sfumati, sfuggenti e precari al modo di correnti marine che lasciano indefinite tracce di una presenza sotterranea secondo la felice intuizione di Predrag Matvejević [8].
Vieppiù l’epoca che vide la presenza del principe a Costantinopoli sotto i sultanati che da Süleyman II (1687-1691) arrivano a Ahmed III (1703-1730) coincide con una fase di rilascio compresa fra la mancata conquista di Vienna nel 1683 e la pace di Karlowitz del 1699 che, parallelamente ad un declino della potenza ottomana, contribuì a delineare un’immagine più conciliante e meno aggressiva del mondo turco pronto, o costretto, a volgere lentamente a Occidente mosso non da mire espansionistiche, ma dalla necessità di ridefinire i confini dei propri saperi e discorsi epistemologici.
Il mondo politico ottomano si reggeva su equilibri delicati, un tessuto di diplomazia e rapporti personali concentrici al potere. Il principe Cantemir, forte dell’esperienza politica del padre, era a conoscenza di queste dinamiche e la sua azione politica in qualità di ambasciatore fu negli anni costantinopolitani un delicato tessuto di relazioni. Il rispetto per le origini tatare, i rapporti con i gran vizir e i consiglieri dei vari sultani gli garantirono appoggi materiali e relazioni proficue, ma il lavoro di Cantemir fu impreziosito dalla capacità di bilanciare la cotê turca e il dialogo costante con la diplomazia occidentale presente nella capitale: potè parimenti fregiarsi dell’amicizia coi i gran vizir Arabacı Ali Paşa (1691-1692) e Daltaban Mustafa Paşa ((1702-1704) come di relazioni con il Marchese di Châteauneuf (1688-1699) e il successore Charles de Ferriol (1699-1710), ambasciatori di Francia.
La rete di aperture e rapporti nascenti con l’Occidente è testimoniata dalla visita nel 1699 del pittore Jean-Baptiste Van Mour (1671-1737) intesa come visita di studio per trarre ispirazione da soggetti esotici, premessa della moda delle Turqueries che ammalierà l’Europa al volgere del secolo. Lo studio di Van Mour fu punto di incontro fra occidentali e turchi e diede la possibilità ad artisti turchi di scoprire la prospettiva e di applicarla all’arte figurativa. Fra gli ospiti e gli acquirenti figura naturalmente Cantemir, trait d’union naturale linguistico e culturale fra le parti. Le relazioni del principe si estendevano all’ambasciatore dei Paesi Bassi Jacob Colier e agli ambasciatori russo e ungherese Pëtr Andreevič Tolstoij e il conte Imre Thököly per discutere dei comuni interessi sulla situazione e sorte dei cristiani d’Oriente, sudditi ottomani.
Ben tre opere testimoniano lo sguardo di Cantemir su questa fase della propria vita: Divanul sau gâlceava înṭeleptului cu lumea sau giudeṭul sufletului cu trupul (Il Divano, ossia la lotta del savio col mondo, ossia la disputa dell’anima col corpo), pubblicata a Iaşi nel 1698, opera di logica e filosofia pubblicata in romeno e parallela traduzione greca di Cacavelas. Tratta del confronto fra anima e corpo e della polarità fra spirituale corporeo alla luce letteratura occidentale e persiana; il Kitâb-ı ‘ilmü’l mûsikî ‘alâ vechiʼl hurufât (libro sulla scienza della musica secondo la notazione alfabetica) composta attorno al 1700 sul quale ritorneremo; la Istoria ieroglifică del 1705, un roman à clè sotto forma di favola di animali che allegorizza il conflitto fra le casate Cantemir e Brâncoveanu.
La produzione musicale teorica e pratica del principe può a buon diritto essere considerata uno dei contributi più originali della sua attività intellettuale. Il testo musicale, come ricorda Giovanni De Zorzi [9] «rinvia sempre e comunque al suo “contesto” culturale, così come conoscere una musica significa conoscere il suo mondo» [10]. La musica ottomana e la sua pratica a cavallo fra XVII e XVIII secolo «crossing over barriers was an important entertainment enjoyed along with many other distractions in the city provided to all layers of the ottoman society» [11]. Le sue molteplici componenti: la raffinata e stratificata tradizione arabo persiana e centroasiatica del maqām, la sua interpretazione da parte delle confraternite sufi, il mondo del mehter, la musica marziale e militare, e non da ultimo le tradizioni popolari non sono che il riflesso omologico di un incontro fra luoghi e saperi di cui Costantinopoli rappresentava il crogiolo alchemico.
Il Kitâb-ı ‘ilmü’l mûsikî ‘alâ vechiʼl hurufât [12] dedicato a Ahmed III si compone di due parti: una teorica che contiene informazioni teoriche sul maqām, l’altezza e il sistema di tempi e ritmi della musica ottomana arricchita dalla proposta di un sistema di notazione musicale, elaborazione di Cantemir, e una raccolta antologica di brani della tradizione colta ottomana uniti a composizioni originali. La lingua del trattato è un turco sui generis dove il manierismo arabo-persiano si fonde con la necessità di creare un linguaggio tecnico con frasi ed espressioni ad hoc. La tradizione musicale ottomana era nella sua trasmissione una prassi orale-aurale e nonostante i tentativi di coniare una scrittura musicale l’elemento scritto non ha mai occupato sino a epoche più recenti uno spazio di rilievo. Esiste una tradizione teorica elaborata che risale ad Al Fārābī (X sec.), ma lo sviluppo di un sistema di notazione, a differenza della musica in Occidente, non è mai stato sentito come un’esigenza se non in tempi molto recenti analogamente ad altre tradizioni musicali del Vicino e Medio Oriente, si pensi alla notazione del sargam indiano, ad esempio.
L’elaborazione di una notazione si configura pertanto come una interessante commistione di linguaggi e pratiche epistemologiche di contatto. Cantemir conosceva peraltro la tradizione bizantina e slavo-ecclesiastica in possesso di un sistema di notazione. Il tentativo di trascrivere la musica ottomana era già stato tentato da un altro viaggiatore fra mondi culturali: Wojcech Bobowski (1610-1675). Nato a Lwów fu catturato dai Tatari nel 1633 venduto schiavo a Costantinopoli. Si convertì all’islām col nome di ʽAli Ufkî Bey entrò in una confraternita di dervisci fino a occupare, grazie alla sua poliglossia, la posizione ufficiale di dragomanno. Talentuoso musicista in patria si dedicò alla musica e agli strumenti della tradizione e utilizzò la scrittura occidentale reinterpretata e con qualche interpolazione di segni alfabetici arabi per la trascrizione del repertorio classico ottomano in un’opera composta nel 1650 e intitolata Mecmûʽa-yi Saz ü Söz (Raccolta di brani strumentali e vocali).
Nel sistema di scrittura Cantemir utilizza invece in modo originale l’alfabeto arabo-persiano nella variante ottomana vergata da destra a sinistra configurando le 34 altezze microtonali da Kaba Çargâh (Do5) a Tiz Hüseyni (Mi7) mostrando con 34 marcatori corrispondenti le altezze presenti sulla tastiera di un liuto a manico lungo Tanbûr. Utilizza i numeri per indicare la durata dei suoni: 1 indica la durata dell’unità, il numero 2 indica il doppio della durata dell’unità, il numero 3 rappresenta 3 volte la durata dell’unità e il numero 4 indica 4 volte la durata dell’unità. Oltre ai nomi dei maqām e alla loro costruzione di cui propone interpretazioni teoriche, scrisse anche istruzioni che indicano la velocità con cui dovrebbero essere eseguiti i brani coniando un frasario tecnico in turco ottomano modellato sull’agogica occidentale.
Le composizioni tradizionali e originali [13], più di trecentocinquanta, compaiono con nome dell’autore e indicazione del ciclo ritmico di riferimento (usül) configurando così il testo come una fra le più importanti antologie musicali dell’epoca moderna. Esse percorrono le sottigliezze del sistema del maqām e sono costituite da peşrev (preludi della suite di corte fasıl), saz semâî genere strofico basato principalmente su un ciclo ritmico di 10/8 e beste, composizioni vocale-strumentale dove un testo viene presentato in un intreccio ritmico e modale [14]. Di questo genere mette conto riportare che ne esiste, in ambito ottomano, un genere danzante chiamato yürük semâî in 6/8 «che è stato più volte in relazione con il walzer, senza che sia chiaro siano stati gli ottomani, giunti alle porte di Vienna ad aver influenzato i viennesi o, viceversa, se sia stato il walzer a influenzare il mondo ottomano» [15].
Nel novembre del 1710 Cantemir viene nominato Voivoda di Moldavia. I turchi sono convinti di avere nel principe un nome sicuro e fidato la cui lealtà era stata dimostrata in ogni occasione e politicamente cercano di sfruttare l’inimicizia con la casata dei Brâncoveanu. La nomina avviene ufficialmente di fronte al sovrano e lo stesso Gran vizir affida alle mani di Cantemir il ferman imperiale. Quello che non sospettano è che le cose sono destinate a intraprendere un corso affatto diverso. Appena insediato a Iaşi, il principe inizia una trattativa con lo zar Pietro I facendo al contempo fede di lealtà al gran Signore. Probabilmente, come nota Eugenia Popescu Judetz, «Dimitrie was fully aware that he could not achieve his ideal of a national independence and hereditary monarchy as a vassal Prince of the Ottoman sovereign, and consequently surrended himself to a mighty monarch of a powerful Christian nation» [16]. Nel 1711 concluse un trattato segreto con lo zar fornendogli assistenza militare per una campagna contro gli ottomani. In cambio lo zar gli assicurò una indipendenza totale e garanzie di protezione personali e asilo in Russia in caso di sconfitta.
Le speranze dello zar di infliggere una sconfitta decisiva agli ottomani, di garantire una protezione ai cristiani orientali si infransero sulle rive del fiume Prut dove l’esercito di Pietro fu circondato dalle forze turche sotto il comando del Gran visir Baltacı Mehmed Pascià. Cantemir rientrò di fretta a Iaşi e si preparò all’esilio russo. Pietro il grande lo nominò principe ereditario di Moldavia e knjazʼ (principe) russo. Già i primi anni di esilio russo fecero perdere al principe ogni speranza di riguadagnare il trono moldavo e le sue energie si volsero a sostenere le riforme di Pietro e alla prosecuzione della sua attività intellettuale. Sposò la principessa Trubeckoij dopo la morte della prima moglie e fantasticò persino che la relazione della figlia Maria con lo zar potesse aprire alla sua casata le porte del trono russo. Le sue doti intellettuali e le sue conoscenze furono messe al servizio di Pietro e la fama di studioso gli valse un seggio all’Accademia delle Scienze di Berlino. Si adoperò, conoscitore dello slavo ecclesiastico e del greco per una redazione della liturgia ortodossa dal canone bizantino e ideò uno strumento, forse mutuato dal tambûr turco, per la esatta intonazione degli intervalli musicali ad uso degli interpreti di musica sacra ortodossa. Partecipò attivamente alla vita di corte e ai suoi spettacoli e intrattenimenti dando prova delle sue doti atletiche e militari e mettendo le sue doti al servizio della diplomazia russa. Il figlio Antioch, padre delle lettere russe moderne, sarà diplomatico a Londra e Parigi.
Gli anni russi vissuti fra Mosca e San Pietroburgo furono anni dedicati alla produzione di opere storiche e geografiche, opere che hanno contribuito alla fama di Cantemir in Occidente, ma che hanno sovente messo in secondo piano la sua appartenenza osmotica a mondi diversi. Risale al periodo compreso fra il 1714 e il 1722 la stesura delle opere latine Descriptio Moldaviae (commissionata dall’Accademia reale berlinese) e la Historia Moldavo-Vlachica sulla genesi storica e linguistica della romanità balcanica. La descrizione che parte dall’idea di una comunità di origine latina ed esplora, sviscerandoli, descrizioni geografiche, aspetti istituzionali, costumi religiosi e sviluppi storici. L’opera che decretò la sua fama in Occidente e redatta in latino fu scritta fra il 1714 e il 1716: Historia incrementorum atque decrementorum Aulae Othomanicae (Storia della ascesa e declino dell’Impero ottomano). Basata su documenti e sull’osservazione diretta e debitrice di un modello empirico della storia vista nel suo dipanarsi fra nascita, sviluppo e senescenza, quest’opera monumentale circolò per alcuni anni in Europa come manoscritto fino alla sua edizione a stampa in inglese a Londra nel 1734 con successive traduzioni in tedesco e francese. Il modello è la storiografia ottomana che mescola parti logografiche, aneddoti e descrizioni di battaglie e anche se in epoca contemporanea fu ampiamente criticata e alcune delle sue fonti documentali furono messe in dubbio, la Historia del principe moldavo rimase il principale lavoro storico sull’impero ottomano fino alla metà del XIX secolo e fu usata come fonte da Edward Gibbon nella stesura dell’altrettanto monumentale Storia del declino e della caduta dell’Impero Romano (1776-1789).
Quando lo zar Pietro decise di intraprendere una campagna di espansione a est verso i confini persiani, si rivolse ancora una volta al consiglio del principe. Gli fu commissionata un’opera dedita all’esposizione della religione islamica e dei suoi usi e costumi. L’opera, abbozzata in latino, prese forma nel 1722 in lingua russa: Kniga sistima ili sostoianie muhammedanskoi religii (libro del sistema e dello stato della religione maomettana). Questo testo risponde più a criteri di tipo ideologico che strettamente scientifici e il complesso impianto articolato in sei parti, pur valendosi delle conoscenze dirette e del ricorso a fonti che avevano permesso a Cantemir di studiare la religione islamica durante il suo soggiorno costantinopolitano, risulta pregno di pregiudizi e polemiche apologetiche cristiane e spesso fa affidamento sulla memoria di eventi lontani e sfumati nei ricordi del principe; nondimeno si tratta di una lavoro che, ad esempio, ha l’ambizione di tessere un dialogo fra Oriente e Occidente dove opere come il poema didattico sufi Muhammediye di Yazıncıoğlu Muhammed del 1499 [17] e il trattato Vasiyetnâme del giurisperito Mehmed Birgevî (1520-1573) si confrontano con l’Histoire de l’état présent de l’Empire ottoman di Paul Rycaut [18] del 1668. Le sue opere minori includono scritti di natura teologica e filosofica, osservazioni orientalistiche e persino una biografia di Jan Baptiste Van Helmont (1579-1644) chimico, medico e fisiologo, allievo di Paracelso.
Raggiunto lo zar nella sua campagna caucasica del 1722, approfittò della presenza sul campo per raccogliere materiali di studio e prestare la propria opera di interprete. Di ritorno si ritirò nella propria tenuta per morirvi il 21 agosto del 1723. Un bilancio della sua figura è impresa complessa, ma con le parole di Eugenia Popescu Judetz si può concordare che «Dimitrie Cantemir’s historical and cultural legacy has been a reservoir of information and ideas which have uniterruptedly nourished researchers and students for three centuries. The prince was a man of two worlds, looking out to the West for enlightenment and living in the realities of the East» [19]. Il ritratto conservato al Museo di belle Arti di Rouen, probabilmente anonimo, e attribuito a Jean-Baptiste Van Mour ritrae il principe Cantemir rasato con un accenno di baffi, una lunga parrucca e un justeaucorps di foggia francese, indossa però un turbante e una fascia di stile orientale cinge i suoi fianchi. Lo immaginiamo di fronte a uno specchio contemplare la propria immagine e sovrapporla a quella di un dignitario ottomano in entari e kaftan e il volto incorniciato dalla barba, la sua immagine usuale alla corte del sultano. Il principe contempla i propri doppi: Dimitrie, Demetrios, Kantemiroğlu, Dimitri si scambiano posto in continui passaggi che, come correnti, tracciano i destini e le rotte del Mediterraneo.
Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024
Note
[1] O. Pamuk, Il castello bianco, Einaudi, Torino 2016: 155.
[2] Su questa figura si legga a mo’ di introduzione B.Lewis, From Babel to Dragomans. Interpreting the Middle East, Weidenfeld & Nicolson, Londra 2004: 21-40.
[3] Si consulti su questo tema la storia dell’intreccio diplomatico fra Inghilterra elisabettiana e mondo ottomano in J. Brotton, The Sultan and the Queen: The Untold Story of Elizabeth and Islam, Penguin, London 2016.
[4] M.D. Baer, Gli ottomani, Einaudi, Torino, 2023: 7.
[5] Si legga a tale proposito A. Maalouf, Identità assassine. La violenza e il bisogno di appartenenza, La nave di Teseo, 2021.
[6] Serdar (dal persiano sardār, letteralmente comandante) nell’Impero ottomano era un grado militare. Il serdar serviva soprattutto ai confini dell’Impero ottomano ed era responsabile della sicurezza di quei territori. Diffuso anche nella penisola balcanica come titolo onorario, inferiore a quello di Voivoda.
[7] E. Popescu-Judetz, Prince Cantemir, Theorist and Composer of Turkish Music, Pan, Istanbul 1999, p. 15. «introdotto all’affascinante mondo delle contraddizioni ideologiche e delle ambiguità semantiche dove ha trovato le risorse stimolanti per soddisfare la sua effervescente immaginazione».
[8] P. Matvejević, Mediterraneo. Un nuovo breviario, Garzanti, Milano 1998: 41-42.
[9] Per la conoscenza approfondita del mondo musicale ottomano, delle sue pratiche, strumenti e contesti è fondamentale G. De Zorzi, Musiche di Turchia, Ricordi, Milano 2010.
[10] Musiche di Turchia, cit.: 191.
[11] Prince Cantemir, Theorist and Composer of Turkish Music, cit.:21-22. «L’attraversamento delle barriere, nella città, era un intrattenimento importante, goduto insieme a molte altre distrazioni a disposizione di tutti gli strati della società ottomana».
[12] Un’edizione moderna dei testi musicali e commento si trova nei volumi O. Wright, Demetrius Cantemir, The Collection of Notations vol I: texts, Soas, London 1993; O. Wright, Demetrius Cantemir, The Collection of Notations vol II: Commentary, Soas, London 2000.
[13] Incisioni e interpretazioni: Dimitrie Cantemir, The Golden Horn Ensemble, Istanbul, Sony BMG Music Enterteinment, 2009, CD: 88697483172; J. Savall, Istanbul (Ensemble Hésperio XXI, Kudsi Erguner Ensemble, Gaguik Mouradian), Alia Vox, CD: 9870.
[14] Per un’analisi di forme, strutture o organologia della musica ottomana si consulti Musiche di Turchia, cit.: pp. 69-111 e il saggio di Kudsi Erguner contenuto nello stesso volume: K. Erguner, Sulla teoria, gli intervalli e i cicli ritmici del maqâm ottomano in Musiche di Turchia, cit.: 203-288.
[15] Musiche di Turchia, cit.: 76.
[16] Prince Cantemir, Theorist and Composer of Turkish Music, cit.: p. 27. «Dimitrie era pienamente consapevole di non poter realizzare il suo ideale di indipendenza nazionale e di monarchia ereditaria come principe vassallo del sovrano ottomano, e di conseguenza si consegnò al potente monarca di una potente nazione cristiana».
[17] Una descrizione accurate di questa popolare opera è presente sulla pagina: https://islamansiklopedisi.org.tr/muhammediyye–yazicioglu.
[18] Prince Cantemir, Theorist and Composer of Turkish Music, cit.: 35.
[19] Prince Cantemir, Theorist and Composer of Turkish Music, cit.: 36. «L’eredità storica e culturale di Dimitrie Cantemir è stata un serbatoio di informazioni e di idee che hanno nutrito in modo ininterrotto ricercatori e studenti per tre secoli. Il principe era un uomo dei due mondi, che guardava all’Occidente per ottenere l’illuminazione e viveva nelle realtà dell’Oriente».
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Alessandro Perduca è un anglista e germanista di formazione, con esperienza universitaria di insegnamento e ricerca. Si è occupato di letteratura inglese premoderna, moderna e contemporanea in diversi interventi e articoli. Si interessa di storia delle idee in chiave comparatistica e interculturale. Ha all’attivo contributi e studi su Shakespeare, la poesia romantica, Conrad, Auden e Heaney, oltre a numerose traduzioni. Ha tradotto Le ali spezzate di Kahlil Gibran per le Edizioni San Paolo e pubblicistica in lingua tedesca nel campo della teologia e delle scienze dell’antichità. Docente di lingua e cultura inglese nella scuola secondaria, lavora attualmente presso il liceo classico statale “Salvatore Quasimodo” di Magenta (MI).
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