di Salvatore Girgenti
Sembrerebbe assurdo, ma il nome di Virgilio Titone, uno dei più grandi storici dell’Italia del secondo dopoguerra, a trent’anni dalla sua morte sembra essere caduto nell’oblio. Nulla di strano in verità: la Sicilia possiede la masochistica tendenza a divorare i suoi figli migliori. Fa parte del suo DNA. Ma al perché il suo nome sembra essere stato dimenticato, potremmo aggiungere un’altra motivazione: ce la fornisce, sulle colonne del Giornale di Sicilia, Antonino Cangemi: «Semplice: perché da sempre voce fuori dal coro, controcorrente, sia a destra che a sinistra… e la sua voce in un panorama culturale, tendente all’omologazione, ci manca tanto». Qualcuno, mentre era ancora in vita, lo paragonava a Pico della Mirandola. Titone, infatti, non solo è stato un grande studioso della nostra storia moderna, disciplina di cui è stato docente all’Università di Palermo, ma anche un profondo conoscitore e un acuto critico della letteratura spagnola. Non solo, ma rileggendo molti suoi saggi o i suoi elzeviri sulle terze pagine del Corriere della Sera, de Il Mondo o di Epoca, notiamo che i suoi interessi spaziavano dall’economia alla sociologia, dalla filosofia della storia alla letteratura.
Ma quel che fa di lui un grande non è tanto l’acume del suo pensiero, la profondità delle sue analisi o l’ammaliante fascino della sua prosa, ma la sorprendente constatazione, a tanti anni di distanza, di una sua capacità profetica nell’avere saputo individuare con decenni di anticipo quelli che sarebbero stati gli sbocchi politici, economici e sociali dell’Italia e della Sicilia in particolare. Qualcuno potrebbe dire che le mie sono parole dettate dall’affetto di un vecchio allievo. Sull’affetto, nulla da dire, ma sulla verità dei contenuti non c’è nulla da obiettare. Per chi ne ha la pazienza, suggerirei di sfogliare le terze pagine del Corriere, de Il Mondo o di Epoca, pubblicate dall’inizio degli anni Sessanta sino ai primi degli anni Settanta o, ancora, i suoi innumerevoli saggi.
Se dovessi approfondire la vasta gamma dei suoi interessi, probabilmente dovrei scrivere un corposo volume, ma, purtroppo, lo spazio concessomi non me lo permette. Mi limiterò ad accennare alla vivacità dei suoi contributi, alla conoscenza della letteratura spagnola e alla sua innovativa rivalutazione storica della dominazione spagnola. Per quanto concerne il primo aspetto, rimando il lettore alla lettura di alcuni suoi saggi su Antonio Machado e Garcia Lorca. Del primo, dice che non fu solo un poeta, uno dei pochissimi – forse il più grande – della letteratura europea del Novecento, ma un pensatore profondo e un originale filosofo. «Poesia e filosofia derivano in lui da una radice comune: da una sensibilità dolorosa e, si potrebbe dire, silenziosa, che per altro verso si traduce nel rifiuto dell’intellettualismo pretensioso e vuoto, delle formule astratte e ambiziose, degli ismi di turno o delle relative avanguardie. Tale, quali l’arte e il pensiero, fu anche la sua vita, nella quale il dolore e il dovere furono da lui accettati virilmente e con quell’antica semplicità che esclude ogni forma di ostentato sentimentalismo o di vanitosa retorica».
Per quanto riguarda Garcia Lorca, Titone sostiene che non solo è stato il rinnovatore del teatro spagnolo con l’introduzione del sogno, del mistero o dell’inquietudine ultraterrena, ma un fine scrittore che nella letteratura europea rappresenta qualcosa di più vivo e vero che non altri noti o fortunati scrittori, non escluso il nostro celebrato Pirandello, del quale evita quel compiaciuto laicismo che rende spesso così monotone e povere di umanità le trovate dello scrittore siciliano. In García Lorca il clima generale è diverso. «È un inno ininterrotto alla vita, considerata sotto un aspetto solo, l’amore o piuttosto una sensualità che, imponendosi con la forza di una legge irresistibile, ci appare vergine e indomita e come connaturata col sole ardente della terra granatina con la tradizione, col costume, con i terribili vincoli di una morale sociale cieca e crudele come un ineluttabile fato».
Per quanto concerne i suoi studi storici, accennavo alla rivalutazione della dominazione spagnola, andando in controtendenza a quella che era la storiografia ufficiale. Addossare alla Spagna i mali della Sicilia è, secondo Titone, un comodo alibi, tendente a nascondere le reali colpe della sua classe dirigente. Lo storico castelvetranese, oltre a rilevare che i sovrani di Spagna cercarono di dare nuovo impulso all’agricoltura siciliana, non manca di evidenziare che il conte di Olivares, nella sua relazione finale allo scadere del suo mandato di vicerè, si lamentò della «ociosidad» dell’aristocrazia siciliana, mentre altrove, a Genova, Firenze, Lucca e Siena, «salen para tomar habitos de San Juan». Ma al di là dei dati economici, assolutamente inconfutabili, Titone invita a riflettere su un fatto ben preciso. Le dominazioni straniere – sostiene – sono sempre deprecabili, anche quando apportino l’ordine e la pace interna, e solo da preferirsi ad altre peggiori sciagure del genere, come sarebbe stata un’occupazione turca, forse difficilmente evitabile senza la potenza spagnola. Ma – si chiede – perché attribuire alla dominazione spagnola l’origine della questione meridionale? La Lombardia subì la dominazione spagnola per un numero di anni uguali a quelli della Sicilia, ma i milanesi non ne uscirono così malconci. Non si vede, dunque, perché gli spagnoli sarebbero stati tanto rovinosi in Sicilia, mentre non lo furono a Milano.
Oltre a una rivalutazione della dominazione spagnola c’è in Titone un’altra grande intuizione: quella di avere individuato nei Riveli (le antiche dichiarazioni dei redditi del Cinquecento siciliano) una fonte preziosa per la ricostruzione della storia materiale dell’Isola in merito alle strutture abitative, all’alimentazione, alla cultura e alle condizioni economiche dei siciliani. Non solo, ma lo studio dei Riveli ha contribuito in larga parte anche a una conoscenza più precisa e dettagliata del fenomeno della schiavitù in Sicilia. «Apparentemente – diceva Titone – i Riveli appaiono come un lungo elenco di numeri e di dati. La prima sensazione che offrono è quella della freddezza, ma calandoci in questi dati, in questi numeri diamo loro anche un’anima».
Vorrei a questo punto evitare di parlare dello spessore culturale di Titone. È qualcosa che molti della mia generazione sanno e che altri, attraverso le sue pubblicazioni, potrebbero iniziare facilmente a conoscere. Mi piace, invece, parlare del Titone giornalista e, attraverso i ricordi, grazie anche alla quotidianità dei rapporti di lavoro che avevo con lui all’Istituto di Storia moderna, dell’uomo, dello studioso senza maschere pirandelliane con addosso il solo vestito della sua umanità. Un giorno lo accompagnai presso la Cassa di Risparmio di Piazza Bologna, a quel tempo tesoreria dell’Università di Palermo, dove doveva svolgere alcune operazioni bancarie. Si parlava del più e del meno, mentre si aspettava il turno; non ricordo ciò di cui si discuteva, ma ad un certo punto mi disse: «vedi quando non mi conoscono e mi chiedono la mia attività professionale, io non dico mai che sono un professore; preferisco qualificarmi come giornalista». Generalmente aveva una capacità di analisi e una lungimiranza non comuni; ma in quegli anni non riuscì a intuire (o forse l’aveva intuito, ma preferiva illudersi che così non fosse) che tra qualche decennio si sarebbe anche vergognato di presentarsi come giornalista.
Perché si vergognava di essere un professore? Non mi diede mai una risposta precisa, ma la motivazione posso desumerla, estrapolandola da alcuni suoi sfoghi registrati in altre occasioni. C’eravamo lasciati alle spalle il ’68 da un anno e quel che stava accadendo nelle università italiane non lo soddisfaceva affatto. Da tempo avvertiva un certo malessere sia nella scuola italiana che nel mondo della formazione universitaria. Non condivideva, per esempio, come rileva già nella Nuova Tribuna del dicembre ’68, che si spendessero i soldi del contribuente «per l’istituzione di cattedre o il conferimento di incarichi o la nomina di assistenti, inutili o inutilizzabili, o la moda degli studenti di chiedere la libertà di studiare meno o di abolire gli esami e optare per il voto politico». Pur condividendo alcuni punti delle agitazioni studentesche, avvertiva il pericolo che queste stesse agitazioni avrebbero consentito e continuato a consentire a tutti quelli che lo volevano di arrivare alla laurea senza alcuna discriminazione fra chi realmente ne avrebbe avuto titolo e chi no. In poche parole, con quell’andazzo, si sarebbe moltiplicato il numero dei laureati. «Così avverrà – scriveva sul Corriere della Sera – che i nostri ragazzi dovranno subìre in cattedra degli asini con tutte le carte in regola, ma spesso meno preparati dei loro stessi alunni. Il che vuol dire che irresponsabilmente o talvolta cinicamente si tradisce la scuola, si tradiscono gli scolari stessi e le loro famiglie. Si tradisce la società. Tutto il conclamato diritto allo studio va a finire in questa dolorosa realtà da tutti costatabile». Un sistema scolastico di formazione che non condivideva ancora prima della contestazione.
Già nel 1965 su Epoca scriveva: «la formazione dei futuri docenti universitari attraverso la via obbligata dell’assistentato riflette il clima morale del nostro Paese. L’assistente è in molti casi qualcosa di mezzo tra l’amico di famiglia, il fattorino e il segretario del suo professore. Gli porta la borsa per anni. Deve anche saper sorridere. Poi diviene a sua volta un professore. È evidente che non i migliori, ma i peggiori dei giovani possono accettare questo tirocinio di umiliante servitù e accedere alle cattedre».
Per lui studiare, come spesso diceva, era una sofferenza, ma non come potremmo comunemente intenderla, nel senso, invece, che studiare significava rinunziare a qualcosa di piacevole come una partita al pallone, uscire con una ragazza, andare al cinema o una semplice passeggiata con gli amici. Ora per superare questi sacrifici bisognava credere in un ideale e soprattutto amare lo studio, bruciare dalla voglia di allargare e approfondire le proprie conoscenze. La sua amarezza consisteva proprio nel non respirare più questo clima. Trovava, viceversa, più elettrizzante e stimolante, sotto un profilo culturale, l’ambiente giornalistico. Non dimentichiamo che negli anni ’50 e ’60 si pubblicavano in Italia ottimi settimanali (basterebbe ricordare Il Mondo, L’Espresso, La Fiera Letteraria, Epoca) e che molte terze pagine dei nostri quotidiani, a partire dal Corriere della Sera, ospitavano firme prestigiose e di grande spessore culturale. Erano gli anni, fra l’altro, di Montanelli, di Ricciardetto, di Barzini e, perché no, di Pitigrilli. E su questo argomento, in maniera alquanto provocatoria, come spesso era suo costume, non mancò di accendere la miccia.
«In generale si nega – scrive su La Nuova Tribuna, nel 1966 – che il giornalismo possa avere una sua dignità culturale. Giornalismo si usa come sinonimo di superficiale e di improvvisato e giornalista sarebbe colui che deve saper parlare di tutte le cose che non sa: non le sa ma deve parlarne. Inoltre deve poter dire oggi precisamente il contrario di quello che ha detto ieri e con altrettanta sicurezza. E a tal punto codeste opinioni appaiono diffuse e radicate, che a priori si rifiuta di attribuire una qualsiasi dignità scientifica o letteraria a tutto ciò che da un giornale possa pubblicarsi». Come tutte le opinioni radicate nella tradizione, anche questa aveva una sua giustificazione storica.
Solo il libro sembra avere valore scientifico. È lo spirito della civiltà cristiana, che è ancora la nostra civiltà, in base al quale il libro appare come il deposito eterno sia della parola divina, sia dell’insegnamento della Chiesa o dell’antica sapienza. «Per quanto la cosa possa sembrare assurda e paradossale – sostiene Titone –, la veste esterna, e non il contenuto o l’intrinseco valore, si assume a criterio di giudizio. Il che in fondo sarebbe come se un libro dovesse giudicarsi dal peso o dal numero delle pagine. […] Eppure – continua Titone – non credo sia eccessivo affermare – e del resto del medesimo parere fu lo stesso Croce – che quanto di meglio in questo secolo abbiamo avuto in Italia nel campo della saggistica, della critica, dell’economia politica e anche di studi storici, sociali, ecc., è passato per i giornali e i settimanali. D’altro lato, alcuni saggi del De Sanctis, le novelle del Maupassant, le più acute analisi economiche dell’Einaudi non furono pubblicati altrove. Ma si potrebbe continuare. E del resto che cos’altro sono se non giornalismo l’Anabasi di Senofonte o i tanti libri di viaggi che si pubblicarono nel Sette e Ottocento? Se invece non fossimo né così ciechi, né così sordi come mostriamo volutamente di essere, non potremmo non confessare che i peggiori ritratti, per citare un esempio, che un noto quotidiano vien pubblicando in una sua vasta galleria dei Protagonisti o le Memorie o le Conversazioni coi lettori di un non meno noto settimanale, per l’acume, la verità, la freschezza dello stile, valgono molto di più delle migliori pagine gozziane, di cui non può negarsi che null’altro sono se non pitture di maniera e scritte in uno stile troppo sorvegliato per potersi veramente dire disinvolto o leggiadro come vorrebbero apparire. Un rotocalco, quindi, non può considerarsi una cosa seria, ma una scipita pagina del Gozzi o di simili letterati lo è invece di pieno diritto».
Ma esistono le condizioni obiettive per cui un articolo di giornale debba ritenersi inferiore al libro? Per Titone è un pregiudizio che deve assolutamente negarsi. «Nulla toglie – sostiene Titone – che un lungo discorso possa riassumersi in una breve pagina. Che, anzi, si deve osservare che quando questo non è possibile, il libro manca di una sua idea centrale. Né le sue cento o mille pagine valgono per sé stesse e a priori più delle due colonne di un articolo. Questa necessaria brevità può dire più cose e meglio e con più degna forma, allo stesso modo come un sonetto può considerarsi veramente più poesia di un vuoto e prolisso poema. Inoltre in un paese qual è il nostro, di inveterata tradizione libresca, i giornali potrebbero tra l’altro insegnare ai professori e letterati a scrivere in una lingua più duttile o viva e meno sostenuta o incolore».
Non mancava, però, di cogliere in quegli anni il principio di una grave malattia che stava contagiando anche i migliori giornali dell’epoca: quella di un inguaribile provincialismo. «Pur di apparire a ogni costo moderni e originale – sosteneva –, ci si vuole americanizzare». Ma occorre riflettere che il fenomeno dell’americanizzazione non è americano. Si americanizzano i popoli più arretrati o di colore. Un esempio. Qualche giornale ha soppresso come cose vecchie e superate, la terza pagina e l’elzeviro, ma si è solo malamente imitato quel che si è fatto e continua a farsi all’estero. La terza pagina era ormai una gloriosa tradizione italiana. Si potrebbe dire di essa quel che Quintiliano diceva della satira, il solo genere letterario che i romani non avessero imitato dai greci: «Satura tota nostra est».
Titone era dell’idea che i vecchi tromboni della cultura scrivessero noiosissimi libri per leggersi unicamente fra di loro. Si tradiva così quella che era la loro missione educativa. Il giornale, invece, penetra più capillarmente fra le masse, si insinua tra le pieghe del tessuto sociale, consente, diversamente da un telegiornale che si può ascoltare in determinate fasce orarie, di potere essere letto in qualsiasi momento della giornata, e di assolvere così alla sua funzione informativa ed educativa. Si rendeva però conto che i giornali stavano cominciando ad abdicare a questo compito, lasciandosi ammaliare dal richiamo di una società consumistica e priva di ideali. «Un esempio di questa degenerazione ideale può vedersi – scriveva – nel gran posto che suol darsi alle stupide vicende sentimentali dei personaggi di moda, attricette, attori, urlatori e simili. Come sta il cagnolino della famosa diva? Ed è vero che la medesima diva si è incontrata con il famoso divo? Con tali indegni discorsi non si contribuisce a educare, ma a diseducare il lettore. Si obietta: il lettore vuole proprio queste notizie e il giornale è costretto a dargliele. Non è vero, né solo non è vero, ma è vero il contrario. Proprio perché il giornale dedica ad esse un così largo spazio e così spesso e con tale rilievo, tali informazioni finiscono con l’apparire tanto importanti e necessarie. Ma certamente, se non se ne pubblicassero più, nessuno se ne accorgerebbe».
Titone non era un tipo facile da gestire, né tantomeno da etichettare. Di lui è stato detto che era anticonformista, testardo, misogino, misantropo, un lupo solitario, antimeridionalista, eccentrico, un uomo che amava il paradosso, stupire il lettore o chi lo ascoltava. Aveva il vezzo, per esempio, nel corso di alcune sue conferenze di stupire il pubblico, ricorrendo a qualche eccezione della grammatica italiana, poco conosciuta, raramente usata nel linguaggio quotidiano e che, per questo motivo, suonava ai più come un grossolano errore di grammatica. Tra gli ascoltatori si coglieva qualche malizioso sorrisetto, che voleva avere il sapore del tipo «anche i grandi sbagliano!». Ma, conoscendolo, sapevo che non era così. Infatti, a casa, sfogliando un mio vecchio testo di grammatica, trovavo l’eccezione che dava ragione a lui e torto a noi.
Alcuni dei giudizi che davano su Titone, come dicevamo, potremmo anche condividerli, ma spesso erano il risultato di un incontro superficiale e, come accade quando incontriamo persone geniali, non è inconsueto che il nostro giudizio venga falsato per i nostri congeniali limiti. Le sue feroci critiche al malcostume siciliano, per fare un esempio, hanno fatto sì che spesso venisse etichettato come un anti-sicilianista. Era un’accusa che lo amareggiava. «Io amo la Sicilia – diceva spesso – e non si comprende che quel che io scrivo ha un solo obiettivo: contribuire a svegliare le coscienze, ridare orgoglio e dignità ai siciliani, svegliarli dall’apatia mentale in cui versano e liberarli da una diffusa e inconsapevole viltà». E ancora: «Quando all’estero o, peggio, nel Nord ci accusano dei nostri mali antichi, della nostra arretratezza o di certi tipici fenomeni di asocialità o criminalità, si insorge e si protesta indignati contro i denigratori. Non si protesta contro quei mali o colpe, presenti e innegabili. Si protesta perché se ne parla, ricorrendosi, come avviene, alla stupida retorica vittimistica, che non si è mai domandata il motivo dell’unanimità delle accuse o di questa universale congiura che si sarebbe ordita contro il Sud e si perpetuerebbe da secoli».
Indubbiamente era un personaggio scomodo. Senza peli sulla lingua e senza alcun timore reverenziale nei confronti dei potenti di turno, come vedremo in seguito. E dicevano che era un misantropo, un lupo solitario. Apparentemente per tale poteva passare, ma, in realtà, credeva nell’amicizia ed era di una generosità senza pari. Ma detestava la stupidità, i luoghi comuni, la vacuità, l’atteggiamento tronfio e spagnolesco di molte persone del tipo «lei non sa chi sono io!». A tutto questo preferiva di gran lunga vivere appartato, coltivare i suoi studi e i suoi interessi, poiché la maggior parte della gente – a suo dire – aveva mandato il proprio cervello all’ammasso.
Quando i suoi interlocutori erano di ben altra tempra, altro che vivere appartato o apparire misantropo. Ricordo che un pomeriggio lo accompagnai all’Hotel delle Palme, a Palermo, dove aveva un appuntamento con Montanelli e Gervaso. In compagnia di quei due mostri sacri del giornalismo italiano era completamente a suo agio. Era completamente rilassato, dalla battuta facile e densa di umorismo.
Poi, il discorso cadde su Dante Alighieri e sulla Divina Commedia. Via via i tre si addentrarono in una analisi dell’opera dantesca a un livello talmente elevato, che io giovane studente del terzo anno di Filosofia non potevo che ascoltarli a bocca aperta.
Ma in questo ricordo c’è anche un aspetto comico. Mentre Titone concordava con alcune interpretazioni dei suoi due interlocutori e discordava con altre, seguendo un filo logico di un discorso che nella varietà delle varie forme richiedeva un’alta concentrazione, si ferma per un secondo, gira lentamente la testa ed esclama: «che donna meravigliosa!». Tutti noi ci girammo verso il punto in cui lui guardava ed effettivamente nella hall dell’albergo stava passando una donna molto bella, dal portamento aristocratico e vestita con molto gusto. Insomma, una donna non solo bella, ma di gran classe e ricca di fascino. Il suo giudizio fu largamente condiviso da Montanelli e Gervaso. Ma fu questione di un secondo, dopodiché i tre si ricalarono nuovamente nella loro complessa analisi della Divina Commedia.
A questo proposito vorrei tirare fuori un altro ricordo. Un giorno venne in Istituto una mia collega con la quale in quel periodo studiavo Storia del Risorgimento. Non sto più a ricordare di cosa avesse bisogno, ma per quel che chiedeva occorreva l’intervento personale del direttore dell’Istituto. Era una studentessa, laureanda in Lettere e, per inciso, la più bella della Facoltà. Le dissi che Titone sarebbe stato in Istituto l’indomani mattina e, per l’occasione, le consigliai di venire al massimo dell’eleganza e possibilmente con la minigonna. Seguì a puntino le mie istruzioni ed in forma smagliante si presentò l’indomani in Istituto. La presentai a Titone ed esposi brevemente il motivo per cui voleva incontrarlo. Titone era raggiante in viso, quasi estasiato nel guardare quella ragazza e, stranamente per lui quando stava in Facoltà, di una particolare allegria.
Perché racconto questi due episodi? Se mi fermassi qualcuno potrebbe farsi, e giustamente, un’idea errata del personaggio. Ma niente sarebbe più sbagliato. Titone aveva il culto del bello. Il bello lo estasiava e sarebbe stato ore intere a contemplarlo, rapito in una dimensione che era tutta sua. Così si comportava dinnanzi ad un panorama di rara bellezza (Taormina, per esempio, era sempre nei suoi pensieri; la definiva «vacanza dello spirito»), dinnanzi a un’opera d’arte e dinnanzi a una donna, quando la sua bellezza richiamava un’opera d’arte.
Per quanto concerne le donne, potrei condividere l’accusa che molti gli hanno rivolto di essere un maschilista. D’altra parte nemmeno lui ne faceva un mistero e, stranamente, il più delle volte questi argomenti diventavano oggetto di discorso nelle sue pause pomeridiane, quando andavamo a prendere un caffè da Caflisch, a Villa Sperlinga, o il gelato al bar Santoro di piazza Indipendenza, in estate e quasi sempre dopocena.
A questo proposito amava citare Carducci, il quale pur non essendo un misogino e per nulla insensibile al fascino femminile, sosteneva che «le donne sono sempre senza poesia». In un articolo pubblicato nel 1966 su Epoca, scrisse provocatoriamente che la filosofia è di genere maschile e, testualmente riporto le sue parole, «per dirla con Kant, potremmo definire la filosofia una risposta al bisogno dello spirito di porsi problemi inerenti sia al soggetto stesso del pensiero, sia al mondo che ne è l’oggetto, e al principio loro e al fine. In poche parole, il soggetto diviene dunque oggetto a sé stesso. Ora – dice Titone – questo distacco del proprio io non è possibile alla donna… La donna è volitiva, più volitiva dell’uomo. Ma per l’appunto questa volitività esclude quel profondo sentire che negli spiriti superiori si esprime nel bisogno opposto della meditazione o contemplazione… e femminile deve dirsi quella volitività che, essendo in essa il volere fine a sé stesso, non può risolversi se non nelle varie forme dell’esibizionismo». Ancora più chiaro nella parte finale dell’articolo, quando aggiunge: «qualcuno potrebbe obiettare che “la presunta inferiorità” non è se non l’effetto della schiavitù in cui la donna è stata tenuta. Rispondiamo: nel Rinascimento, nel Settecento, nell’età romantica eccetera abbiamo avuto migliaia di verseggiatrici, pittrici, cultrici di musica e così via. Nessuna si è levata al di sopra della mediocrità o, nel migliore dei casi, all’altezza sovrana di coloro cui si attribuiscono le qualità del genio».
La donna, poi, entrava suo malgrado in una sua teoria dei cicli economici del mondo. Nel mondo egli diceva ci sono periodi di contrazione economica e di espansione. «Si possono dedurre – sosteneva in un articolo pubblicato nel 1969 – le oscillazioni della borsa dai progressi o regressi della minigonna o meglio un ulteriore suo accorciamento può farci prevedere un sicuro miglioramento dei corsi». In poche parole, gonna corta borsa alta e viceversa. Poteva sembrare che Titone volesse fare dello spirito, ma sull’argomento numerosi giornali esteri e ben quotati pubblicavano seri studi sulla lunghezza delle gonne e le fluttuazioni a lungo periodo del mercato americano. Virgilio Titone ne era un convinto sostenitore. A tal punto, che trasferiva questa sua convinzione nei rapporti umani e, a tal proposito, ricordo un fatto abbastanza divertente. Un pomeriggio stavamo andando a prendere un caffè al bar di Villa Sperlinga. Poco prima di sederci al tavolino incontrammo l’on. Vincenzo Carollo, allora Presidente della Regione Siciliana, con un codazzo di persone. Saluti, strette di mano, i soliti convenevoli e, dopo pochi minuti, nuovamente saluti e strette di mano. Una signora al seguito dell’on. Carollo dice: «professor Titone, perché non mi saluta, non si ricorda di me? Sono stata una sua allieva all’Università e mi ha seguita anche per la tesi di laurea». Senza scomporsi Titone risponde: «Certo che mi ricordo di lei, ma non la saluto perché porta il maxi cappotto». E senza scomporsi le girò le spalle e andò via.
Era fatto così, spontaneo, genuino e, spesso, anticonformista. Spesso sembrava vivere in un mondo tutto suo. Odiava l’ipocrisia e la falsa morale borghese. Di Pirandello non apprezzava la farraginosità e tortuosità del suo scavare nei labirinti della psiche umana, ma condivideva la sua chiara denunzia dell’ipocrisia borghese. «Vedi – mi diceva – dietro le persiane delle finestre di casa guardiamo la gente che passa e notiamo che camminano, si muovono per come la società vuole che camminiamo e ci muoviamo. Di questo ridiamo e notiamo l’ipocrisia del nostro vivere; ma quando scendiamo e attraversiamo la piazza, ci comportiamo nella stessa maniera degli altri, assumendo gli stessi atteggiamenti che pochi minuti prima avevamo ridicolizzato». Forse era questo uno dei motivi per cui amava, come forma ricreativa, trascorrere una mezz’ora in un bar della città. Si abbandonava ai ricordi e nello stesso tempo osservava la recita quotidiana della società che lo circondava, cogliendone ironicamente gli aspetti surreali. «Col passare degli anni – soleva ripetere – persino i ricordi brutti si colorano di poesia, come gocce distillate di una giovinezza oramai lontana, ma anche bisogno volitivo di sentirsi vivere».
È per questo suo modo di intendere il passato che evidentemente gli faceva senso un episodio della vita di Ignazio Florio, quando oramai era in età molto avanzata. Me ne parlò per la prima volta mentre gustavamo il solito caffè nei giardini di Villa Igea. Il panorama del golfo di Palermo è una visione splendida e questo stesso panorama stava quasi tutto il giorno a guardare Ignazio Florio, avanti negli anni e in uno stato di quasi indigenza, che lo costringeva a vivere della carità del genero in una villa che si affacciava sul golfo. Probabilmente più che attratto dallo splendore del panorama, i pensieri di Ignazio Florio, vedendo attraccare o partire le navi, andavano ai tempi che furono, agli anni dello splendore della sua casata e quando questa stessa considerava il porto di Palermo come di sua proprietà. In uno di questi giorni giunse la notizia della morte della contessa Anna Morosini, una veneziana di cui Ignazio in gioventù si era perdutamente innamorato e che forse fu l’unica donna che fece seriamente preoccupare donna Franca Florio. Temendo per la sua salute cagionevole e preoccupati che la notizia potesse procurargli una emozione fatale, cercarono di tenergli nascosta la notizia. Ma poi prevalse il buon senso di informarlo della triste notizia e affidarono il compito al suo fedele servitore. Apprendendo la notizia, Ignazio Florio non ebbe alcuna emozione o espressione di dolore. Al contrario. «Megghiu a idda ca a mia!» fu la sua laconica risposta. Era una caduta di stile e a Titone non piacevano le cadute di stile, a maggior ragione in un personaggio che a Palermo era divenuto un mito.
Ritorniamo adesso al giornalista e ai rapporti che Titone ebbe con il mondo della politica. Liberale convinto, riteneva che onore, legalità e onestà fossero gli elementi costitutivi di ogni essere umano e il mondo della politica non doveva farne eccezione. Purtroppo, l’aria che si cominciava a respirare nei primi anni Settanta gli faceva intuire che qualcosa stava cambiando e in peggio. Molti articoli, pubblicati da Titone in quel periodo, riletti oggi appaiono di una lungimiranza che impressiona.
E che i tempi stavano cambiando se ne accorse un giorno in cui al Corriere della Sera, dove pubblicava regolarmente i suoi elzeviri, gli bloccarono un articolo che era una denunzia contro il malcostume politico, sindacale e sociale di quegli anni. Ci avviavamo verso il compromesso storico e lo stesso Corriere della Sera, breviario della borghesia italiana, si stava largamente spostando a sinistra. Titone, viceversa, era un liberale e acerrimo nemico del comunismo. La notizia si sparse immediatamente nel mondo accademico ed editoriale, tanto che La Sicilia di Catania lo contattò, impegnandosi a pubblicarlo per l’indomani se Titone glielo avesse fatto avere nel primo pomeriggio. L’articolo fu affidato ad una macchina a noleggio e l’indomani venne regolarmente pubblicato. Inutile sottolineare che Titone cessò ogni forma di collaborazione col Corriere. In quell’articolo ce ne era per tutti. Per i politici, che mentre tutto andava in dissoluzione, si preoccupavano di dividersi le grasse greppie dei posti di comando negli enti pubblici. Per «le iene sindacali, che sostituendosi al governo e al parlamento, non hanno soltanto imposto la loro dittatura, ma rappresentano la negazione istituzionalizzata di ogni elementare principio di umanità. Se esiste una commissione antimafia – aggiungeva – dovrebbe anche esistere una commissione contro la criminalità sindacale». Quell’articolo non risparmiò neppure i comunisti italiani.
«Sarebbe assurdo parlare di un comunismo all’italiana, di un comunismo all’acqua di rose. Forse ci saranno anche dei comunisti in buona fede, ma i fatti stanno lì a smentirli. L’aggressione sovietica ha risparmiato solo quei Paesi che si sapevano decisi a difendersi: la Cina e la Jugoslavia. Oggi l’Italia si potrebbe conquistare con un centinaio di uomini». Il potere – precisava – è oggi fine a sé stesso. E, per limitarne i danni, sosteneva il principio generale della non rieleggibilità, «poiché l’Italia non ha bisogno di una classe politica, ma solamente di uomini di buona volontà. […] Chi è stato eletto pensa solo a sé stesso e al suo interesse, alla sua rielezione e alla sua carriera, e se con questo modo di fare politica ha contribuito alla putredine sociale, all’anarchia, poco importa. Questa classe politica vive alla giornata, cede dinnanzi ai più forti, aggredisce i più deboli e si procura segrete alleanze con i diversi centri del potere. Così si spiega la corsa a scavalcarsi verso sinistra, che alla sua volta è la ragione per la quale si è oggi stabilita la dittatura dei sindacati. Ne è derivata una condizione di cose intollerabili. Il principio della lotta sindacale è quello di procurare il maggior vantaggio possibile alle singole categorie per mezzo del maggior danno possibile alla comunità. Bisogna impedire che i pochi si sovrappongano ai molti e cioè di restituire al popolo i suoi diritti». Dai contenuti di quest’articolo si può comprendere il motivo per cui il Corriere, che con la direzione di Piero Ottone si era convertito al compromesso storico, ne avesse bloccato la pubblicazione.
Cinque anni prima, ma stavolta sul Giornale di Sicilia, aveva duramente criticato l’istituzione della Regione Siciliana, il cui bilancio per lui risultava estremamente negativo. «Tutto ciò che di buono è stato fatto, poteva anche realizzarsi senza l’autonomia. Anzi, per ogni miliardo speso per opere pubbliche, si può calcolare che senza l’enorme costo della burocrazia, dell’Assemblea e degli enti regionali se ne sarebbero potuti spendere tre o quattro. Se poi si mettono nel conto le varie e variamente mascherate ruberie, gli sperperi infiniti per opere decisamente inutili, opere incomplete e quindi inutilizzabili, o anche mal fatte e quindi da rifare, i tre o quattro miliardi diventano dieci o venti. Fra l’altro è sotto gli occhi di tutti che non esiste una classe politica che ha a cuore gli interessi della Sicilia, poiché i partiti si conformano agl’indirizzi delle rispettive direzioni romane. L’Assemblea siciliana può dunque considerarsi come la brutta copia del parlamento italiano. Il che nega l’essenza stessa dello spirito autonomistico».
Qualcuno può non condividere taluni aspetti del pensiero politico e sociale di Titone, ma nessuno può negare che molte sue dure analisi mostrano una straordinaria capacità profetica, tanto che una rilettura dei suoi saggi e dei numerosi articoli di quegli anni si gusterebbero oggi, ancor meglio di ieri. Nessuno può, infine, negare la sua onestà intellettuale; poteva benissimo adattarsi ai tempi e cedere alle lusinghe di molte sirene del nuovo corso, che non mancarono di corteggiarlo, ma non volle mai tradire i suoi ideali, né venir meno a quello che aveva sempre insegnato ai suoi allievi: non perdere l’onore e il rispetto di sé stessi.
Dialoghi Mediterranei, n. 37, maggio 2019
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Salvatore Girgenti, docente di storia e filosofia, giornalista, saggista, Preside dell’I.T.C. “Europa” di Erice, è stato direttore della Scuola Superiore di Giornalismo della Libera Università di Trapani, dove ha anche insegnato Storia contemporanea. È presidente dell’Accademia di Studi Medievali di Trapani. Ha collaborato alla terza pagina della “Sicilia” di Catania e alle riviste “I Nuovi Quaderni del Meridione”, “Incontri Meridionali”, “Il Trimestre”, “La Fardelliana”, “Libera Università del Mediterraneo” e “Cronache Parlamentari”. Ha pubblicato, tra l’altro: La vicenda Nasi e i suoi riflessi nell’opinione pubblica italiana (1985), Siciliani Illustri (1985), La Compagnia dei Bianchi di Trapani (1988), Cent’anni fa l’esposizione nazionale di Palermo (1991), Le radici ebraiche dell’ordine templare: un’ipotesi di ricerca (2011), Il caso Tancredi. Una storia siciliana (2018).
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