di Luca Bertinotti
Qual è il perché della “ruinenlust” [1] che mi pervade? Come mai alberga in me questo trasporto (sano) verso le rovine moderne, nei confronti delle borgate appartate, solitarie, senza più traccia di presenza umana? Più volte mi è stato chiesto di raccontare la mia singolare ricerca fotografica sui paesi in abbandono. Sembrerà strano, ma non ho mai avuto una risposta preconfezionata e ben definita da fornire e, anzi, provo una certa difficoltà nel trovare le parole adeguate a spiegare quello che ho fatto: l’intenzione, infatti, è sempre stata quella di far parlare al posto mio le immagini e non tanto di mettere in mostra me stesso, le sensazioni e le idee nate in cammino.
Ciononostante, confortato dal valore documentativo che è intrinseco a ogni “storia di vita” (Clemente 2013) e poiché Dialoghi Mediterranei ha già ospitato due miei precedenti contributi [2], tento, “gradevolmente obtorto collo”, una malsicura autoanalisi dei perché del mio agire. Prendendo spunto da momenti di vita vissuta, due sono le interpretazioni possibili: l’una tendente al fatalismo, l’altra più orientata, invece, al determinismo.
La prima, a dire il vero, ha quasi il gusto della facezia: le ragioni originarie del mio “lungo viaggio” [3], infatti, potrebbero essere collegate al fatto che sono nato e vissuto per molti anni non lontano dall’ospedale neuropsichiatrico cittadino, da vari lustri ormai fatiscente ex villaggio manicomiale, di cui ricordo la parabola del declino fino al totale abbandono [4]. Tuttavia ritengo che affidarsi solamente a questa constatazione renda troppo semplicistica ogni argomentazione.
Analizzare perché si è fatto ciò che si è fatto, fino a comprendere chi si è diventati oggi, richiede un criterio di approccio che tenga conto, più estesamente, dei vari momenti di un’intera esistenza, segmento per segmento, quasi evento per evento, almeno nella fattispecie delle mie vicende, legati fra loro da nessi di causalità e non di casualità. Questo è un metodo, pertanto, che mi fa preferire un’interpretazione più deterministica.
In effetti, l’impulso ad immortalare le immagini dei luoghi, tutti indistintamente (abbandonati e non), che ho visitato nel corso della mia vita, mi accompagna fedele da oltre trent’anni e non pochi sono i viaggi che lo scrivente ha compiuto fuori Italia prima di venir ammaliato dal richiamo dei suoi borghi abbandonati [5]. Senza dubbio anche la visita di molti paesi stranieri e l’aver conosciuto le culture dei loro popoli e le relative tradizioni e usanze spesso molto diverse dalle mie sono tutte cose che hanno contribuito a formare le mie inclinazioni, poco o tanto, a seconda del “fuoco d’interesse” che ogni posto sapeva accendere in me e del periodo di tempo che vi ho potuto trascorrere. Sarebbero innumerevoli i ricordi e occorrerebbe ben altro, più ampio spazio, ma per i nostri fini qui ne desidero citare solo alcuni, iniziando con un’eccezione. L’esatto contrario dell’abbandono, l’impossibilità ad andarsene da un luogo, è la condizione che connota lo stato del popolo Saharawi, esiliato nel deserto del Sahara occidentale in territorio algerino, dove, in condizioni proibitive, esso riesce comunque a vivere [6]. Della Cambogia, poi, ho ben in mente i templi del sito archeologico di Angkor, archetipo della città abbandonata nel pensiero comune [7]. Ricordo la Cina per com’era nel 1992, proprio all’inizio, dunque, della sua esplosione economica: un Paese complesso e ricco di contraddizioni per le forti differenze sociali. Navigando fra le isole dell’arcipelago della Galápagos, in Ecuador, penso di aver trovato l’ecosistema più simile a quello che poteva essere il giardino dell’Eden, prima dell’avvento dell’uomo! Ho un ricordo limpido, poi, della straordinaria varietà di costumi delle popolazioni tribali della valle del fiume Omo (Konso, Mursi, Hamar, Dorze, Surma), discriminate per la loro miseria e per l’arretratezza dello stile di vita e fragili tanto da essere destinate, forse, a scomparire presto per gli incipienti cambiamenti sociali che la civiltà del progresso determina anche in Etiopia. Della Giordania cito quella che fu la capitale dei Nabatei, la bellissima Petra, città plasmata nella roccia, la cui visita tuttavia è guastata da un flusso turistico sempre eccessivo. Ancora, nel sud del Marocco dai miei ricordi affiorano antichi villaggi in “omocromia” quasi assoluta con le terre che li accolgono e, poi, le distese infinite e senza uomini dei paesaggi della Mongolia e quelle, diversissime, della Namibia [8].
Per brevità, del Perù cito solamente le rovine di Machu Picchu, la città abbandonata per antonomasia, eletta fra le sette meraviglie del mondo, ma sarebbero molti di più gli aspetti che resero il mio viaggio nel Paese sudamericano forse quello che più mi è rimasto impresso. Ancora, un cenno solamente ai castelli diroccati davanti al mare nelle Highlands scozzesi e alla Route 66 in USA con i parchi nazionali (un tempo dimore dei Nativi americani) e i suoi molti luoghi in abbandono, fra cui Bodie, la città fantasma più famosa del West [9]. Concludo con l’ultimo dei miei viaggi, quello in Ucraina, compiuto di recente appositamente per visitare la zona di esclusione di Chernobyl: essa mi è apparsa meno spopolata di quanto potevo supporre, fatto salvo quel monumento alla fragilità umana che è Pripyat, un tempo fiorente cittadina, fondata solo 16 anni prima del disastro nucleare del 26 aprile 1986 ed evacuata, in seguito a questo evento e forse per sempre nei secoli avvenire, di tutti i suoi 47 mila abitanti.
Tra le altre motivazioni, in un lungo periodo a cavallo della maturità, l’interesse per la fotografia è stato per me senza dubbio anche un mezzo salvifico per esorcizzare paure e tormenti, come nel più scontato dei cliché, ma al tempo stesso ha contribuito ad alimentarli giacché mi spingeva a ricercare soggetti fotografici, per lo più posti in località non molto frequentate dai miei coetanei. Causa inconsapevole, dunque, e, al contempo, risultato della mia parziale emarginazione durante la fase adolescenziale, la fotografia si è in me manifestata come una passione tanto amena quanto amatoriale, seppur praticata con meticolosa costanza e dedizione, tant’è che chi conosce i due aspetti della mia persona dice di non sapere se dovermi considerare un medico prestato alla fotografia o viceversa. Per tutta risposta, io mi schernisco dichiarando di essere affetto da un evidente caso di sdoppiamento di personalità, autodiagnosticandomi un’immaginaria “Sindrome del Dr Jekyll e Mr Hyde”.
Un Mr Hyde a cui piace far perdere le tracce del Dr Jekyll, occultandolo per diversi giorni l’anno al tran tran della quotidianità, strappandolo agli affetti familiari e al lavoro e spingendolo per boschi e tratturi, verso montagne solitarie e campagne remote, alla volta di insediamenti umani estinti. Un Mr Hyde che anche quando sembra dormire quieto, in realtà suscita nell’altro l’impellenza a procurarsi testi inerenti al fenomeno dell’abbandono, a consultare siti internet dedicati all’argomento, a studiare le mappe, a pianificare itinerari di viaggio e via discorrendo.
Eppure ancora non ho del tutto chiaro se quello sano è davvero il dottore che, con fare impostato e professionale, cerca di ricucire il corpo e l’anima altrui, feriti dalle unghiate dei malanni e dal trascorrere del tempo, o se, invece, lo sia di più il suo alter ego misantropo che vaga per il Bel Paese, tormentato dalla ricerca di una realtà sociale che non c’è più, quasi avesse intuito che, con tutti i suoi limiti e i suoi disagi, essa rappresenti ancora un baluardo pallido contro la decomposizione apparentemente irreversibile della collettività odierna.
Un sognatore deluso, un compulsivo romantico, questo povero Mr Hyde, che, però, col tempo, ha scorto nel modus operandi più pignolo e scientifico del Dr Jekyll una via per quietare l’urgenza di salvare dal galoppare dei secoli il salvabile del mondo che fu.
Mi guardo indietro e cerco di scorgere le impronte dell’inizio, di rievocare i momenti d’esordio. Torno con la memoria al 2010. Mi rivedo trentacinquenne, mentre, zaino in spalla, fotocamera a tracolla e passo lieve, percorro il “decumano massimo” del mio primo paese fantasma [10]. Mi affaccio spesso, ancora molto cautamente, dentro alle sue abitazioni vuote. Pochi passi timidi, rabbrividiti da ogni schiocco. Una vertigine delicata mi avverte che, mentre entro nello scrigno – già profanato – di qualche estinto nucleo familiare, al tempo stesso sto valicando anche le “Colonne d’Ercole” del mio vissuto e disattendo ampiamente gli insegnamenti parentali destinati alla mia salvaguardia.
Tuttavia, il “morbo dell’esploratore” col tempo non tende a guarire, ma anzi continua a manifestarsi costantemente con il suo sintomo principale: mi pervade e, al tempo stesso, mi attrae sempre più il timore di incontri insoliti e angoscianti, non necessariamente umani né ferini (e certo non paranormali). Questi sono, invece, le visioni minime di oggetti appartenuti ad esistenze passate; le intimità rivelate dai quaderni, dalle cartoline o dalle fotografie che rinvengo nello sfasciume; i letti disfatti; gli armadi sventrati; le posate, i piatti e i bicchieri sbreccati dell’ultima cena lasciati sulle tovaglie sbiadite; le piante da interno cresciute a dismisura quasi fossero in cerca di chi prima le curava; la polvere e la terra entrate dalle finestre insieme ai rampicanti; lo stupore nel vedere me – stonante e fuori luogo – riflesso in vetri e specchi infranti; l’odore triste dell’abbandono; le tinte imputridite delle mura domestiche; le orme alle pareti dei crocifissi, delle terrecotte e dei quadri scomparsi da tempo; l’oscurità più greve di certe stanze madide di silenzio che altro non è se non l’assenza delle voci, delle urla, dei sospiri, dei gemiti, dei singhiozzi, delle risa e, insomma, della felicità e del dolore di coloro che in quelle dimore risiedettero fino alla fine dei loro giorni.
Quanto struggimento provo ogni volta che mi fermo a riflettere sulla distanza, non solo fisica, dei posti che visito rispetto al resto del Paese! «Come facevano? Come potevano stare, restare qui?», mi chiedo ogni volta e con sempre maggior cognizione di causa.
Pian, piano acquisiscono il significato di una prerogativa personale imprescindibile, di un bisogno, di un dovere, di una responsabilità le mie visite alle terre senza più uomini e la loro documentazione fotografica si fa strumento – mezzo a me più congeniale – per renderne giusta testimonianza: una sorta di ultimo omaggio ad un’umanità estinta.
Gradualmente si forma in me l’idea che da uno, cinque, trenta borghi abbandonati, col tempo, potrei riuscire a visitarne molti di più (e già l’ingenua eccitazione dei primi anni mi suggerisce persino tutti, forse!). Mi dico che può servire a qualcosa, a qualcuno e che, quindi, può essere importante. Lo è senza dubbio per me: diventa essenziale raggiungerli e ogni volta che ne tralascio qualcuno, per un’impossibilità oggettiva o per i miei limiti psicofisici, è una tacca in più sul bastone del fallimento personale. Ne deriva un piccolo, fastidioso, insistente senso di colpa, duro da smorzare.
Ancora, si delinea presto come cosa fondamentale non solo raggiungere la meta, riscoprirla e coglierne le immagini migliori ma anche imparare le strade, le mulattiere, i sentieri, le flebili tracce nel bosco. Diviene importante conoscere l’arrivo così come il percorso, insieme a tutto ciò che durante l’avvicinamento trovo e apprendo: le fonti di acqua così come le esecrate frane lungo il tragitto; il verso degli animali, le varietà botaniche e le peculiarità geologiche così come il dialetto dei pochi viandanti che incontro; le variazioni del tempo atmosferico così come le diverse sfumature della luce che cambia nell’arco delle ore; i segni dell’antropizzazione del territorio così come l’evidenza della sua perdita; i segnali del mio corpo così come l’istinto che imparo a sviluppare per i pericoli; il ritmo del mio respiro così come quello della terra; l’occasione per mettere in campo la fisicità così come quella per riposarsi o per farsi trasportare dalla immortalità di un momento, dalla sacralità di un luogo [11].
In sostanza, comprendo, a poco, a poco, che ho la fortuna di compiere un lungo viaggio cimiteriale che tuttavia non ha nulla a che vedere con le aberranti derive di un certo “necroturismo”, ma che, anzi, mi sta insegnando ad apprezzare sempre più, con l’andare del tempo, l’incanto dell’esistenza, intimamente radicato e pronto a farsi scoprire in ogni cosa [12].
Le modalità di visita ai villaggi deserti iniziali, spesso incerte e occasionali (inserite in viaggi compiuti per altre motivazioni), lasciano, quindi, il posto ad un impianto di ricerca molto meno improvvisato e sempre più strutturato [13].
Di pari passo a tutto ciò aumenta l’urgenza, da una parte, di fotografare il maggior numero di siti nel più breve lasso di tempo, per fermare nelle istantanee in modo quanto più omogeneo possibile la situazione di un’Italia che muore o che è già cadavere; dall’altra, di iniziare a far conoscere al mondo non tanto il mio lavoro quanto i motivi e i significati della sua realizzazione.
Ma a questo punto siamo già giunti a tempi più recenti. Risalgono a metà del 2017 i primi timidi contatti col mondo universitario, soprattutto dei Geografi e degli Antropologi [14], così come con quel brulicante e variegato “sottobosco” amatoriale di Autori di libri e di siti dedicati al fenomeno dell’abbandono. La partecipazione di tutti quanti loro ha permesso all’Associazione ‘9cento, di dar vita all’evento congressuale pistoiese “Da borghi abbandonati a borghi ritrovati” [15], svoltosi, a fine ottobre scorso, sotto l’egida di numerosi Enti pubblici e privati e insignito dal Presidente della Repubblica della Medaglia di Rappresentanza.
Sul dondolo della memoria. Paesi terminali e alternative terapeutiche di reviviscenza
Era una giornata gelida dello scorso gennaio quando ricevetti l’invito a redigere questa testimonianza. Avevo appena terminato di leggere il secondo di due libri di Aldo Gorfer, arricchiti dalle belle immagini di Flavio Faganello (Gorfer 1970, 1973). I due avevano compiuto numerose visite nelle zone più remote della provincia trentina, con l’intenzione precisa di raggiungerle a piedi [16], soprattutto durante la stagione invernale e con le condizioni climatiche più proibitive, allo scopo di raccogliere le testimonianze più veraci degli ultimi abitanti dei masi alpestri, in via di spopolamento negli anni ’60 del secolo scorso. Con grande vivacità e ricchezza di particolari i testi raccontano della vita di montagna, toccandone i vari aspetti evidenziati anche da Nuto Revelli nei suoi lavori di ricerca (Revelli 2013, 2016, 2018): le relazioni familiari e sociali, il ruolo della donna, il lavoro, l’educazione scolastica, le tradizioni religiose, i riti e le superstizioni, l’isolamento, i grandi silenzi e il senso di solitudine, la lotta incessante contro gli elementi naturali particolarmente ostili nelle zone alpigiane, i mutamenti sia del paesaggio naturale che di quello antropizzato avvenuti nel corso dei decenni.
Mi avevano colpito, in particolare, i due brani che parlano della Val d’Ultimo [17] che ho frequentato, sebbene solo in qualità di giovanissimo turista stagionale, poco più di un decennio dopo la pubblicazione della prima edizione dell’inchiesta di Gorfer. L’Ultental di metà degli anni ’80 del XX secolo, infatti, non era forse più quella che aveva trovato l’Autore trentino, ma certamente era molto diversa da come si presenta oggi. Analogamente a molte altre valli alpine, anch’essa ha ceduto alle lusinghe del comprovato modello di accoglienza turistica sudtirolese e l’aspetto ineccepibile delle strutture odierne ha cancellato da tempo i connotati residuali che ancora ai tempi delle mie prime vacanze invernali contraddistinguevano la maggioranza delle strutture della remota vallata (il nome non era stato dato a caso). Caratteristiche queste che per la mia giovane età, ovviamente, io percepivo a mala pena allora [18]. Gli abitanti del luogo si rivolgevano agli ospiti bisognosi di informazioni quel poco che bastava, con tiepida cordialità mista a diffidenza, non tanto forse per alterigia o pregiudizio – tra l’altro in Val d’Ultimo, almeno a quei tempi, giungeva perlopiù un turismo di nicchia, ben disposto e rispettoso – quanto per scarsa abitudine ai “grandi” numeri di forestieri e per naturale reticenza.
Ma anche in questa vallata altoatesina, già quando io ero poco più che un fanciullo, tutto stava cambiando rapidamente. Accettarlo aprendosi al mondo, sacrificando parte del vecchio modo di vivere secondo tradizioni secolari, probabilmente, anche qui come altrove, ha richiesto di dover compiere una scelta fra il definitivo spopolamento o la sopravvivenza per i molti nuclei abitativi esistenti; fra il rischio di soccombere in povertà o l’agevolare una rinascita economica; fra il lasciare cadere in malora alcuni degli edifici più antichi, immersi nel bosco e raggiungibili solo a piedi, o chiedere che vi arrivasse una strada carrozzabile, ristrutturarli spesso fin dalle fondamenta e ricavarne guadagni col turismo. Gorfer preconizza questi rilevanti mutamenti sociali, non ancora in atto nei luoghi e al tempo della sua indagine (Bocchetti – Zotta 2009). Tali cambiamenti si sarebbero poi effettivamente concretizzati sotto forma di distacco, pressoché radicale e definitivo, dagli atavici usi e costumi d’impronta medioevale, conservati come tali sostanzialmente fino agli anni del boom commerciale. Da allora, il Trentino-Alto Adige (insieme alla Valle d’Aosta) ha imboccato una strada virtuosa che ha condotto la regione verso una condizione di sviluppo e di agiatezza (Cerea – Marcantoni 2016).
Anche se ritengo di poter dare una risposta positiva in tal senso, non ho la competenza per asserire con certezza che un effetto, diretto o indiretto, di tutto questo sia la pressoché totale assenza di borghi “ad abitanti zero” in queste due regioni del Nord Italia. È un fatto evidente, comunque, che oggi lo spopolamento imperi, più o meno marcato, laddove le aree montane e, più in generale, quelle interne del Paese non siano riuscite a rinnovarsi e a scavalcare le paludi del “contro-miracolo” economico.
Ugualmente lascio dire ad altri se nelle due suddette regioni si sia riusciti realmente ad integrare con successo il nuovo con l’antico o se, invece, si sia preferito, una volta giunti sull’orlo della crisi, gettare, tout court, nel baratro il vecchio e faticoso stile di vita delle borgate in via di desertificazione, per alleggerirle e per permettere di spiccare il volo verso il nuovo millennio ad esse e a chi aveva scelto di continuare ad abitarle.
In ogni caso, a distanza di oltre trent’anni dalle mie serene vacanze sulla neve in Val d’Ultimo e dopo tutta l’esperienza di fine vita dei paesi che ho accumulato visitando le zone disabitate di tutta Italia, tutto questo mi fa molto riflettere. Guardando con una prospettiva più generale, il rischio latente è sempre quello di disattendere gli ammonimenti che ci vengono dal passato. Le metafore della mitologia greca (ma anche di tutte le altre culture) appaiono, in questo senso, sempre valide nel descrivere ciò che da millenni minaccia la sopravvivenza del genere umano, ossia la carenza di autocontrollo. Parlando di allontanamento dagli antichi stili di vita, ad esempio, è ben contestualizzabile qui una lettura attualizzata della vicenda di Icaro [19], che perisce in volo, non tanto perché ha sfidato i propri limiti naturali, che, spinto dalla necessità, già ha superato facendo leva sulle proprie duttili capacità intellettive e manuali, quanto perché lo ha fatto con irragionevole smodatezza [20].
In questi ultimi dieci anni molti studiosi di varie discipline ed esperti in differenti settori si sono avvicinati all’argomento a me caro, ma pare proprio che non si sia formata ancora una chiara consapevolezza di quanto ci siamo lasciati indietro (nel bene e nel male). Lo dimostra il fatto che la massima parte delle macerie non sono ancora riuscite a divenire rovine: le ghost town nostrane non riescono, cioè, ad acquisire, come altrove [21], un appeal sufficiente per suscitare, su larga scala, l’interesse delle istituzioni pubbliche così come dei privati cittadini.
Perciò, stante la situazione, i puristi della cosiddetta “abbandonologia” continueranno a godersi indisturbati i propri siti preferiti ancora per qualche tempo, fino a che i villaggi disabitati non saranno caduti definitivamente a terra sotto il loro stesso peso o saranno resi invisitabili dal groviglio dei rovi o, ancora, verranno divorati dalle selve. Sono profondamente convinto – ma sarei sinceramente felice di venir smentito dal contrario – che la maggior parte delle opere di costruzione, in primis quelle antiche, andranno perdute nel giro di pochi decenni poiché non più curate da mano umana (Weisman 2008).
Eppure non mancano le idee per provare a salvare i paesi abbandonati e Vito Teti ne ha suggerito le sue linee guida con un bel “Manifesto”, pubblicato nel precedente numero di Dialoghi Mediterranei (Teti 2018b), di cui si sentiva fortemente l’esigenza. Numerosi sono, inoltre, i libri recentemente dedicati all’argomento delle aree interne d’Italia (Cavuta – Ferrari 2018, De Rossi 2018, Lucatelli – Monaco 2018, Manella 2017, Marchetti 2017), alcuni dei quali analizzano anche le potenziali strategie di investimento turistico.
Nel frattempo, in attesa degli sviluppi attuativi delle varie proposte, si potrebbe già favorire la conoscenza dei paesi fantasma anche mediante un loro agile “utilizzo” per finalità escursionistiche. Ad esempio, sarebbe già un trionfo di popolarità per questi posti, dimessi e abituati a ricevere ben pochi visitatori all’anno e ad ancor meno estimatori, se fossero inseriti all’interno di guide turistiche e di siti internet dedicati alle vie di transito del passato [22]: la Via del Sale, la Strada Taverna, la Via degli Abati, la Via degli Dei, senza dimenticare le varie Vie Romee, fra le quali spicca la sempreverde Via Francigena, sono solo alcuni dei più noti fra gli antichi tragitti che mi è capitato di incrociare durante l’avvicinamento alle mie mete fotografiche.
Torno in conclusione a parlare brevemente proprio di immagini. Ho provato a spiegare (e a spiegarmi) le ragioni per cui ho scelto come bandiera della mia modesta “ars fotografica” il complesso tema dei borghi abbandonati. Non so se sono riuscito in modo esaustivo nell’intento, ma sono certo che, pur in qualità di semplice “fotoamatore avanzato”, mi sono dedicato a qualcosa di importante che da parte mia richiederà ancora tanto spirito di abnegazione e a cui mi auguro molti altri in varia veste destineranno impegno e risorse.
Per quanto riguarda la mia metodica espressiva primaria, l’immagine fotografica, so già tuttavia di essere in ottima compagnia: il rapporto fra fotografia amatoriale e i luoghi dell’abbandono, infatti, è già vivace da tempo, ma anche in quella professionistica se ne trova traccia, ad esempio, nel lavoro fotografico sulla Sardegna nuragica di Gianni Berengo Gardin (Atzeni 1985).
In cinematografia, poi, si sprecano gli esempi dei registi che hanno scelto i paesi abbandonati come set per alcune scene dei propri film: Michelangelo Antonioni, Francesco Rosi, Mario Monicelli, fra gli altri [23]. Ampliando lo sguardo, poi, si potrebbe affermare che anche la “fotografia manicomiale” [24], a suo modo, strizza l’occhio alla materia trattata.
Sono giunto finalmente al termine del mio scritto. Come per prendere fiato, rievoco visioni e sensazioni di luoghi e di momenti. Su tutte si impongono quelle di pace e di serenità, inattese, provate mentre facevo smarrire lo sguardo in lontananza, affacciato alle finestre all’ultimo piano di qualche edificio pericolante, eretto su siti impensabili, con panorami da strozzare il cuore in gola.
Per associazione di idee, mi vengono in mente le belle fotografie di Vito Teti che egli propone con frequenza ai suoi tanti follower. Queste sono immagini di incantevoli tramonti che quasi ogni giorno il paese calabrese di San Nicola da Crissa regala al suo “professore ritrovato”, come per ringraziarlo di essersi ricordato delle sue origini e di averle ossequiate non solo mediante il suo impegno in qualità di antropologo, di cattedratico, di scrittore (Teti 2014a, 2014b, 2017, 2018), ma anche con il suo stesso ritorno come abitante, come uomo, come figlio.