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Autunno 2023 (d.C. o e.v.)

71k4rbzrx1l-_ac_uf10001000_ql80_di Vincenzo Meale 

Giorni fa stavo rivedendo un vecchio western con John Wayne: I Comancheros. Da bambino i western erano tra i miei preferiti: i cattivi indiani massacravano innocenti famiglie di contadini ma poi morivano come mosche davanti agli eroici coloni. C’erano anche indiani buoni, ma spesso erano un po’ scemi e pronti a mendicare un po’ di tabacco e, soprattutto, whisky.

Ma ora non ho potuto finirne la visione: mi faceva star male perché non potevo non vedere attraverso la filigrana del film le scene odierne dei “terroristi” palestinesi e dei “necessari” bombardamenti israeliani su strutture civili, e persino su rifugi gestiti dall’ONU, mentre, in Cisgiordania, i coloni rinverdivano le “glorie” dei loro omologhi statunitensi dei secoli passati. E mi sono chiesto: quanto tempo dovrà passare perché i discendenti dei vincitori ammettano che ai discendenti dei vinti, ormai sparsi nel mondo in un definitivo esilio, si debba almeno riconoscere la pari dignità? 

Semiti o europei? 

Intanto, per qualche settimana, nell’informazione, accanto alle notizie su Gaza, ha occupato molto spazio il ripetersi in Europa di episodi di imbrattamento dei simboli della Shoah. Persistendo il ricordo dell’Assemblea in corso all’ONU, in cui la delegazione israeliana ha applicato sulle proprie giacche la stella gialla, simbolo della persecuzione nazi-fascista, per dire che l’ONU si starebbe comportando con gli ebrei come i nazisti, mi assale il dubbio che questi episodi facciano comodo alla propaganda  israeliana per minare l’effetto delle manifestazioni contro i bombardamenti indiscriminati su Gaza, provando a far passare l’idea che non sono contro la politica  di Israele nei confronti dei palestinesi ma contro gli ebrei in quanto tali.

8c369750fbdd9fbedacc45964e8e2a84_mappalingueMa l’antisemitismo in questo contesto è ridicolo: i palestinesi non possono essere antisemiti per il semplice fatto che essi stessi sono semiti come tutti coloro che hanno come madre lingua l’arabo o l’ebraico, entrambe lingue semitiche. I palestinesi si confrontano con gli israeliani perché li considerano  espressione del colonialismo europeo che nell’arco di settantacinque anni ha espulso dalle loro case e dai loro campi più di un milione e mezzo di palestinesi sfollati nei campi-profughi dei territori occupati e degli Stati confinanti (spesse volte conservando per mezzo secolo e oltre le chiavi della vecchia casa per dire a se stessi che prima o poi a casa si torna), e il governo israeliano continua a favorire l’espansione degli insediamenti dei coloni in Cisgiordania soffocando lentamente la società palestinese per arrivare ad eliminare il motivo per cui non ha ancora annesso la Cisgiordania: l’ancora troppo grande numero degli abitanti arabi avrebbe alterato la composizione dello Stato che invece deve restare a maggioranza ebraica.

Ecco quindi che esiste un intero popolo sotto occupazione militare, che non ha diritto a tribunali civili, ma anche per lievi reati viene processato da tribunali militari, i quali in caso di reati gravi contro coloni o contro l’esercito di occupazione applicano la legge barbara della responsabilità collettiva: la famiglia del condannato subisce la perdita della casa e della terra. Qualcuno obietterà che non era così a Gaza; ed era vero: dentro la “striscia” i palestinesi erano liberi, come si è liberi in un enorme campo di concentramento da cui non si può uscire senza il permesso del carceriere, dalla cui concessione inoltre si dipende per cose essenziali come l’acqua potabile e il combustibile. Anni fa la mia comunità pensò di fornire a un ospedale attrezzature per ottenere energia da fonti rinnovabili e accumulatori in modo che almeno il reparto cardiologico non corresse il rischio di dover interrompere l’attività in caso di mancanza di combustibile. Eppure anche per questo ci furono difficoltà: le attrezzature rimasero ferme al confine con l’Egitto alcune settimane in attesa dell’autorizzazione israeliana. 

L’Europa, questa enorme penisola del Vecchio Continente che nella sua superbia si considera, da sola, un continente … Ricordo ancora che, quando insegnavo, la prima cosa che facevo, entrando in una classe che iniziava a studiare con me quella cosa che va sotto il nome di “geografia”, era chiedere la definizione di continente. E quando, alla risposta scontata di “una grande terra completamente circondata dal mare”, chiedevo cosa fosse l’Europa, arrivava immediatamente la risposta: “un continente!”. Era facile far notare l’incongruenza e permettere l’approccio non ideologico a una materia di studio contaminata profondamente dalla sua storia di ancella del potere di popoli su altri popoli, di studio di territori prima sconosciuti per trovare meglio il modo di dominarli e di sfruttarli passando sopra i bisogni di chi li aveva popolati già da millenni. 

Quando recentemente un membro del governo italiano ha sostenuto che bisognava proteggere l’etnia italiana, mi sono chiesto se io fossi da difendere o da espellere, perché il cognome dice chiaramente che il mio sangue è in parte (quella maschile che per secoli ha tramandato il cognome) arbereshe, di antenati arrivati nell’Italia meridionale (nel caso dei miei antenati, in Molise) secoli or sono per fuggire dall’Albania preda dell’esercito ottomano. Quanto al ramo femminile posso solo fare ricorso a ricordi d’infanzia, quando le donne della famiglia della mia nonna materna la sera attorno al focolare vantavano vaghi cenni di nobiltà spagnola.

I Padri Pellegrini nel giorno del Ringraziamento, dipinto di Jean Louis Gerome Ferris, 1932.

I Padri Pellegrini nel giorno del Ringraziamento, dipinto di Jean Louis Gerome Ferris, 1932

Penso che molti italiani abbiano un problema simile; per cominciare penso a chi conserva la lingua di un Paese confinante (valdostani, alto-atesini, sloveni) o lingue locali millenarie;  poi penso ai primi anni del Regno d’Italia, quando, per reprimere il brigantaggio esploso nel sud dopo il crollo della monarchia borbonica, fu usato il nuovo esercito italiano che però da molti meridionali era percepito come “i piemontesi, falsi e cortesi” (tornando ai racconti intorno al focolare, quando si raccontavano storie di briganti percepivo una qualche equidistanza da briganti e “piemontesi”).

L’Europa da millenni è percorsa da ondate migratorie che nel mescolamento, talvolta pacifico ma spesso violento, hanno forgiato (e continuano a forgiare) gli attuali popoli europei, ma anche tanti popoli del resto del mondo giacché, da quando sono state scoperte terre lontane, l’Europa ha mostrato di saper estroflettere i propri problemi: spesse volte la componente più debole ha cercato la soluzione non cambiando la realtà locale ma fuggendo verso terre che l’ideologia dominante indicava come abitate da selvaggi incapaci di governarsi e poco numerosi. Così nacque l’epopea dei Padri pellegrini, cristiani inglesi poco accetti ad altri cristiani inglesi, che nella ricerca di un luogo di pace e libertà avviarono nel diciassettesimo secolo il popolamento europeo del nord-America sovrapponendosi, il più delle volte con la violenza, alla popolazione preesistente, portata spesso all’estinzione.

L’esperienza israeliana mi pare molto simile: europei discriminati in patria per motivi religiosi (o pseudoreligiosi) e desiderosi di avere una propria terra dove dar vita a una nuova nazione ripercorrendo il cammino di un antico popolo, sicuramente di origine semitica ma che, sparso in mezzo ad altri popoli per duemila anni, con quei popoli ha interagito diventando altro, mentre quelli che discendono da coloro che rimasero in patria hanno assorbito il modo di pensare arabo (mi chiedo quanti tra i palestinesi vessati dai coloni o sottoposti ai bombardamenti a Gaza portino ancora tracce dell’antico sangue ebraico). Se non si parte da qui non si può capire l’origine della tragedia riapparsa sui nostri schermi il 7 ottobre. 

Eliezer ben Yehuda

Eliezer Ben Yehuda

Lingua e pensiero 

Logos in greco significa parola ma anche pensiero. Il popolo ebraico ha articolato il pensiero con una lingua che esprimeva la vicinanza culturale a una serie di altri popoli insediatisi nel vicino Oriente migliaia di anni or sono.  Ma gli ebrei provenienti dall’Europa che hanno costituito il nucleo fondativo di Israele erano culturalmente ancora semiti? Nel progresso culturale non può non aver avuto un peso enorme la fuoriuscita dalla terra dei padri, spargendosi in mezzo ad altri popoli. Esistono differenze culturali tra chi proviene dall’Europa e chi porta nel proprio bagaglio culturale secoli di tradizioni nordafricane o addirittura etiopi (sono note le difficoltà di adattamento dei falascià etiopi che il governo israeliano invitò a tornare nella patria considerata d’origine, ritorno che rese possibile con ponti aerei tra il 1984 e il 1991).

E in Europa la lingua dei padri è rimasta per quasi due millenni lingua per le funzioni religiose (come era il latino nelle funzioni religiose cattoliche fino agli anni sessanta del secolo scorso), ma nella vita di tutti i giorni era sostituita dalle lingue locali, o addirittura da una propria nuova lingua (l’esempio più famoso è l’yiddish nato in Europa dalla mescolanza di lingue europee con l’ebraico). E chi non era particolarmente religioso non conosceva neppure l’ebraico tradizionale. La lingua ebraica moderna è figlia del riscatto ebraico dalle vessazioni cristiane nell’Europa ottocentesca delle nazionalità, ed è opera soprattutto di un ebreo russo, Eliezer Ben Yehuda, filologo e giornalista, nato col cognome Perlman nel 1858 nell’Impero Russo ed emigrato a Gerusalemme nel 1881, che con un lavoro enorme aggiornò la lingua antica alle novità di quasi duemila anni di vita quotidiana attingendo ad altre lingue incluso l’arabo.

Quindi siamo di fronte a una lingua che cerca di amalgamare con un linguaggio semitico moderno percorsi culturali molto diversificati ma dando voce a una cultura prevalentemente europea, perché contemporaneamente al lavoro linguistico di Ben Yehuda prendeva forma, sempre in Europa, il movimento sionista, fondato da Theodor Herzl, un intellettuale ebreo, suddito austro-ungarico, e che tenne il suo primo convegno a Basilea, in Svizzera.

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Theodor Herzl

Il sionismo quindi è sorto in Europa nel 19° secolo, nell’Europa in cui i movimenti nazionali stavano disintegrando gli imperi; il problema dei sionisti, però, era che sentivano di essere nazione ma con un popolo privo di continuità territoriale perché sparso in mezzo ad altri popoli di cui spesso si sentivano parte ma dai cui pregiudizi altrettanto spesso si sentivano respinti, per cui, ragionando da europei, si sono chiesti in quale delle colonie fuori dell’Europa, tra popoli privi di potere e di legame con la terra (secondo uno stereotipo europeo!), ci si potesse riunire e costituire una nazione. E prevalse alla fine la Palestina, sia per legami ideologici con la terra della tradizione, sia poi per opportunità politica poiché la Gran Bretagna, che durante la Prima Guerra mondiale, grazie all’aiuto arabo, nel 1917 aveva preso il controllo della Palestina sottraendola all’impero turco, nel novembre di quell’anno si impegnò con il movimento sionista a favorire «la costituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico»). Quindi si restava nella tradizione europea: è stato ripreso l’esempio dato nel 17° secolo dai Padri pellegrini quando avviarono nell’America del Nord il popolamento europeo che nell’arco di tre secoli ha portato alla scomparsa di molti dei popoli nativi, qualche volta mediante guerre, ma più spesso mediante l’opera dei coloni che rosicchiavano terra ai nativi, rendendo sempre più difficile la loro autonomia economica. Coloni: negli ultimi decenni quante volte abbiamo sentito questa parola nei notiziari dalla Palestina?! 

La responsabilità di chi scrive e di chi sacralizza 

Dal Deuteronomio (il 5° libro della Torah ebraica e della Bibbia cristiana) 

20,10-17 Se ti avvicinerai a una città per combattere contro di essa, la inviterai alla pace. Se ti risponderà pace e ti aprirà, allora tutto il popolo che sarà in essa sia tuo tributario e ti serva, ma se non farà pace con te e ti farà guerra, cingila d’assedio. Il Signore, tuo Dio, te la darà in mano; allora passa ogni suo maschio a fil di spada, ma le donne, i bambini, le bestie e tutto ciò che sarà nella città, tutto il suo bottino, prendilo per te… Fa così a tutte le città molto lontane da te … Però delle città di quei popoli che il Signore, tuo Dio, ti dà in eredità, non lasciare nessuno in vita, ma votali allo sterminio: gli Etei, gli Amorrei, i Cananei, … 

ebra35Il Deuteronomio, databile intorno al 7° secolo a.C. (o a.e.v.), fa parte della Torah ed è considerato d’ispirazione divina anche da molti cristiani, inclusi, da quel che mi risulta, i vertici delle Chiese. A me invece pare il progetto costituzionale di uno Stato ferocemente identitario ben diverso da come era descritto l’antico regno davidico, in cui un eteo come Uria poteva essere uno dei comandanti dell’esercito, e la vedova, Betsabea, poteva sposare Davide e generare il suo successore. Qui invece gli etei sono nell’elenco dei popoli da sterminare eliminandone anche le donne e i bambini.

Possiamo veramente pensare che questo testo sia d’ispirazione divina? So bene che i fedeli ebrei e cristiani che ho conosciuto nel corso della vita mi avrebbero risposto che no, che si tratta d’un testo scritto millenni or sono, quando le guerre si facevano così perché gli uomini di allora avevano un cuore più duro. Ma oggi, di fronte a questa guerra, in questo autunno del 2023, in quella terra che ancora oggi siamo abituati a chiamare santa, quando due armate si affrontano con diversità di strategie e di strutture ma, da quel che si vede, con la stessa sete di vendetta e determinatezza, non solo a vincere, ma persino ad eliminare il nemico e a impedire che si riproduca?

Oggi, di fronte al ripetersi di simili orrori, non è giunto il momento di dichiarare che simili parole non possono essere d’ispirazione divina? La morte di tanti innocenti non merita almeno questo? In particolare, rivolgendomi alle Chiese cristiane, domando come sia stato possibile che Chiese, nate dalla predicazione di un ebreo che aveva considerato superato questo testo (ricordo in particolare l’amore per i nemici, la relativizzazione dei 10 comandamenti superati appunto dall’amore, e il ruolo della donna come appare nella genealogia di Gesù scritta da Matteo, nel confronto tra Marta e Maria e nell’episodio della cosiddetta adultera) e per questo era stato condannato come bestemmiatore, lo abbiano poi considerato sacro? Quale enorme responsabilità si assume chi continui ad affermarlo! 

Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024
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Vincenzo Meale, laureato in Scienze Politiche, per trenta anni ha insegnato geografia economica negli Istituti tecnici commerciali e professionali per il commercio. Partecipa da sempre alla vita della comunità cristiana di base di San Paolo, di cui è stato uno dei fondatori assieme all’abate Franzoni e a tanti altri.

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