È primavera
Vicino al “Monte dei cocci” [1], vive Delia una donna ancor giovane, con il marito Ivano, due figli, una figlia e il suocero, non troppo lontano dal centro, nel quartiere operaio Testaccio [2], sorto come intervento pianificato alla fine del XIX secolo.
Il quartiere non molto esteso (solo 0,66 kmq), fu edificato grazie alle prescrizioni del Piano regolatore per Roma Capitale del 1873 [3], diretto dall’ing. Alessandro Viviani seguito dal Piano del 1883 – su un’area già insediata e caratterizzata da uno storico nodo di interscambio, per la prossimità con il Tevere – per ospitare i lavoratori addetti alle fabbriche lungo la Ostiense e gli operai del nuovo Mattatoio, eretto tra il 1888 e il 1891.
L’edificio dove abita Delia, location [4] del film, realmente sito in via Bodoni n. 98, si sviluppa intorno a un’ampia corte dove la piccola comunità si incontra, scontra e confronta, dove nascono amicizie, complicità, invidie, dove i ragazzini giocano, dove sbocciano amori, mentre si consumano tragici quotidiani, nella stentata realtà immediatamente successiva alla Seconda Guerra mondiale, conflitto che l’Italia aveva perso. In quella corte, che rimanda ad altri spazi semipubblici e ad altre atmosfere del cinema italiano [5], spazio permeabile da cui traspaiono varie realtà domestiche, si accede al seminterrato [6] dove vive la famiglia di Delia. In quella corte le donne chiacchierano, presenziano alle vicende comuni, assistono alle prepotenze e ai maltrattamenti dei mariti, ma non parlano, né denunciano: si sa “Ivano è nervoso, ha fatto due guerre”, giustificando e facendo propria la distorsione simbolica e cognitiva di matrice culturale e sociale, insita in quel comportamento maschile fondato anche sulla vulnerabilità femminile e sulla dipendenza economica dai mariti.
Sotto il sole tiepido di fine maggio quelle donne, forse sentendosi in un posto sicuro dopo i bombardamenti della guerra, preparano i pasti, spesso costituiti da patate, quasi l’unico cibo disponibile durante quegli anni, di poco antecedenti al Boom economico, preceduti dalla Borsa nera [7]. Quelle abitazioni IACP, in via Bodoni, dove la Cortellesi ambienta il suo film, furono promosse dal socialista e massone Ivanoe Bonomi ai primi del Novecento. Questi affidò all’ing. Giulio Magni, nipote dell’importante architetto Giuseppe Valadier, la costruzione di 11 lotti per un totale di 20 fabbricati e 913 appartamenti che dovevano fornire casa a circa 6000 persone. Il progetto, che prevedeva l’edificazione di alloggi dignitosi a costi accessibili per i lavoratori, era caratterizzato da un’edilizia seriale priva di decorazioni: palazzine scarne a quattro piani, con terrazze sul tetto dove le donne stendevano i panni, organizzate tramite isolati a “blocco” e piani tipo, con corpi scala angolari. Gli appartamenti avevano l’acqua corrente, ma i bagni erano di uso comune. Pur non di disegno particolarmente pregevole, per la penuria di case, all’epoca della costruzione vi furono scontri sociali per le assegnazioni, occorreva infatti allegare alle domande il certificato penale del capo famiglia e di tutti i membri del nucleo familiare che avessero raggiunto la maggiore età, insieme al certificato di matrimonio, penalizzando in tal modo molte famiglie che, anche per tale ragione, non rinnovarono la propria fiducia al sindaco Nathan, che perse le elezioni del 1913.
Il film C’è ancora domani [8], narrando una circoscritta tranche di vita della piccola comunità in prevalenza proletaria che ruota intorno alla vicenda, ci pone davanti a numerose contraddizioni, a un viluppo tra ciò che è sommerso e ciò che è visibile e apparentemente immutabile, raccontandoci un pesante destino che sembra tenere prigionieri e legati tutti i protagonisti.
Quel sommerso, che la regista ci mostra simbolicamente sia per l’assenza di comunicazione delle condizioni di vita di Delia, una donna senza voce, che non comunica a nessuno esplicitamente le violenze subite, sia collocando l’abitazione nel seminterrato, dove la luce penetra con difficoltà, sia introducendo un topo che, già nella prima scena, si nasconde sotto al letto coniugale. Un primo segnale in un film, ricco anche di micro “indizi” simbolici e fattuali, che mostra una mascolinità tossica [9] e una famiglia tossica i cui membri, in fondo, palesano esplicitamente ciò che spesso accadeva in molte case in quel periodo, dove i ruoli erano culturalmente avallati e rinforzati dalla visione politica e religiosa imperante in Italia: gli uomini sarebbero stati capi indiscussi e padroni, non soggetti a critiche o a revisione del proprio operato, mentre le donne, madri e mogli, o definite come donnacce se sole, sarebbero state sottomesse ai mariti, ai genitori del marito (anziani di cui obbligatoriamente prendersi cura), ai figli, suddite di una soffocante routine che imponesse, nel contempo, la cura delle innumerevoli faccende domestiche (pulizie, accudimento delle persone, preparazione del cibo, spesa, lavori di cucito, ecc.), e di guadagnare qualche lira per sbarcare il lunario. Per vivere, non rispettate, in ambienti emotivamente miserevoli, dove i mariti sedevano a capotavola (una posizione simbolica ed egemonica, molto spesso non condivisa con le proprie consorti) in attesa di essere serviti, entravano in casa con le scarpe sporche dal lavoro lamentandosi per la mancata cura domestica o per la presunta trasandatezza, mariti che, persino, pretendevano che le mogli li assistessero e profumassero prima di uscire per andare a donne. Uomini dittatori che esercitavano una rozza e autoritaria quotidiana violenza, capillare, sistemica e strutturale.
L’abuso, il subire, non essere dotate di diritti, l’essere considerate meno di niente, gli stigmi, la mancanza di identità e di riconoscimento, le strettoie che impedivano alle donne di affermarsi, essere cittadine, di votare, di cercare la propria realizzazione (era difficilissimo studiare, era pressoché impossibile accedere ad alcune professioni, era tassativo sposarsi ed era impossibile chiudere una relazione, per l’indissolubilità del matrimonio e la condizione di reato se adultere [10]), insieme ai maltrattamenti, configuravano una condizione trasversale e permanente che riguardava, tranne rarissimi casi, ogni forma di strato sociale, come chiaramente Paola Cortellesi ci racconta.
Le donne, insomma, oggetto di controllo (sul corpo, sulle azioni e sui comportamenti, forse sui sogni, smorzati dalle vessazioni) e di giudizio sociale, abitavano in metafora e nella realtà una distopica stanza senza finestre chiusa da muri alti e molto robusti, ma trasparenti: i comportamenti, le azioni, le parole, le idee, erano, infatti, soggetti al dominio e al controllo maschile che zittiva e puniva, denigrava e svalutava (“manco la serva sai fare”, dichiara Ivano a Delia), urlava, distorceva e menava, e alla supervisione di una società essenzialmente patriarcale e giudicante che, attraverso la sorveglianza e il castigo, e tramite una assai stabile architettura asimmetrica dei poteri, castrando le autonomie personali, togliendo la parola, rendendo il dialogo un miraggio, catalogava e stigmatizzava i comportamenti e i pensieri femminili.
Donne che stavano in silenzio, alle quali si insegnavano sacrificio e sottomissione quali uniche ragioni di vita, che avevano grosse difficoltà nel ribellarsi, temendo l’esercizio della forza e subendo una violenza simbolica apparentemente meno aggressiva, consapevoli di non essere ascoltate, vivevano un supplizio domestico, lasciando un orribile patrimonio culturale in eredità alle proprie figlie. Le quali imparavano la subordinazione, oltre che dalle madri, da quegli uomini che negavano i desideri femminili, da padri che spesso picchiavano o maltrattavano le mogli tra le mura domestiche. Mogli, figlie, donne che rappresentavano un esercito silenzioso, persino la parola era considerata eversiva, al quale i propri carnefici attribuivano colpe irreali e non commesse.
La violenza, dunque, non era riconosciuta come un problema politico, culturale o sociale, semmai era una questione privata da tenere entro le quattro mura, alimentando così quel sistema di silenzi remissivi e dolorosi, di credenze, di modelli culturali, quel sistema composto da violenza fisica e violenza simbolica in grado di vessare le vittime che, in una certa misura, si trasformavano obtorto collo in complici del carnefice, come suggerisce Bourdieu fin dal 1977, in Sur le pouvoir symbolique, in «Annales», n. 3. La nozione di “violenza domestica” riceve, infatti, riconoscimento giuridico solo nel 2013 con il dl n. 93 che contiene l’aggravamento della pena nel caso ci sia stupro coniugale.
Nel clima stabile di infelicità, di terrore latente, la giornata di Delia inizia con un manrovescio di Ivano in pieno viso: un gesto pretestuoso, un buongiorno al quale lei non reagisce, pur essendo capace di contrastare o controbattere al portiere, a uno dei datori di lavoro, o al suocero Ottorino (“ha il difetto che risponde”, dice di lei lo stesso Ottorino a Ivano), che vive in una camera al primo piano della casa. E prosegue, dopo le iniziali incombenze (la colazione, il rigoverno…), con una dura e frenetica giornata di lavoro.
La Cortellesi, che dedica il film alla figlioletta (lo consacra a se stessa e a tutte le donne, antenate, presenti e future), sceglie, insieme ai suoi co-sceneggiatori Furio Andreotti e Giulia Calenda, di condurre spettatori e spettatrici verso l’inaspettato finale, costruendo con abilità la scrittura, basata su una trama semplice e accessibile, di un film (e lo dico senza polemica) nazionalpopolare, dove i personaggi strumentali alla vicenda, esclusa proprio Delia, non appaiono per nulla sfaccettati. Niente in loro, infatti, con poche eccezioni, ci sorprende. Tra i principali, il suocero, un uomo ignorante, burbero ed egoista che si nutre di convinzioni personali che cerca di trasferire a Ivano: “dai retta al tuo vecchio, nun je poi menà sempre, sennò s’abitua. Una, ma forte!”, i figli, due ragazzini cinici privi di tenerezza che apprendono dal padre l’arte del ménage familiare, la figlia, una ventenne non troppo autodeterminata che ama, ma in fondo sottovaluta la madre, nei confronti della quale nutre risentimento per la sua mancanza di ribellione, Ivano, un uomo brutale e maltrattante, niente affatto capace di ascolto o di alcuna revisione critica, abile a distorcere la realtà. Tra i secondari, la figura dell’amica Marisa, più libera e sposata con un uomo mite, il soldato americano che offre amicizia e aiuto a Delia, il fidanzato e la tipica e stereotipata famiglia di questo, un insieme costituito da quattro componenti, che manifestano, disapprovando la scelta del ragazzo, condiscendenza e disprezzo per il nucleo familiare di Delia.
Quest’ultima, d’altro canto, pare non si lamenti, sorride poco, mentre corre con gli occhi stralunati da un’incombenza all’altra, con abiti consunti e scarpe senza tacco, senza un filo di trucco, sottopagata rispetto ai colleghi maschi, dimostrando – tra iniezioni a domicilio nelle case di un’alta borghesia che resiste alla fase difficile del dopoguerra, riparazioni di ombrelli, di calze e reggipetti per una merciaia che, di contro, rappresenta il fronte femminile reattivo, e pertanto pericoloso – resistenza e qualità organizzative e manuali, quando risolve i piccoli inciampi domestici, alcuni causati da Ivano. Raggelata, a volte spaventata o submissiva, quando il marito le si avvicina, senza eros, triste, quasi disconnessa dal suo quotidiano, apparentemente senza progetti (per sé) e senza speranza (per sé) rammenta l’inizio ingannevole della relazione con Ivano, esprimendo la propria emotività e la propria capacità di sognare solo con l’amica, proprietaria di un banco di frutta al mercato di Testaccio, simile a quello di Roma Garofalo, in Mamma Roma di Pasolini.
A piena voce
La scelta del bianco e nero, in cui predominano sfumature di grigio, forse legata alla volontà autoriale di trascinare gli spettatori in un tempo ormai lontano come fossimo davanti a un album di ricordi (facili i rimandi ai film di De Sica, Rossellini, Matarazzo o Pasolini), e che alcuni critici hanno accostato al neorealismo italiano, rende gli oggetti, se possibile, ancora più miseri, toglie luce alle cose, esaspera il senso di oppressione e, a tratti, di staticità, messo in evidenza dalle riprese frontali. Spesso, infatti i personaggi si muovono o si stagliano su sfondi fissi che sembrano poco importanti. Sfondi che, di contro, forniscono indizi precisi sulla direzione della storia.
Delia ha un passato, ricorda, ha forse dei rimpianti, non può nemmeno viverli, imprigionata in un incalzante presente, ha una sua intima vita, incomunicabile, incontra durante i suoi spostamenti un “primo” amore, Nino, un meccanico ancora innamorato di lei, apparentemente più benevolo del triviale Ivano, con cui scambia qualche parola, che progetta di cambiare città; incrocia tra le strade romane, pattugliate dalla Military Police statunitense post Liberazione, un soldato afroamericano, William, con il quale, nonostante le differenze linguistiche, riesce a comunicare e che comprende la condizione di profondo disagio in cui Delia è costretta a vivere. Egli si rivelerà una sentinella e un ulteriore motore del deus ex machina del racconto, mostrandoci come la protagonista sappia intenzionalmente costruire un nuovo domani e quanto le sue reazioni, infinitesimali o macroscopiche, siano possibili ed efficaci. L’immaginario di Delia, pur vessato e ristretto, infatti, sorprendendo chi osservi, produce soluzioni impensate e radicali, come in una grande Rivoluzione. Essa, nel film, assume valore collettivo, estendendosi a tutte le donne, attivando, e forse soprattutto nelle spettatrici, empatia e identificazione. La regista, infatti, coglie pienamente il nostro bisogno di storie, di favole collettive, così potrebbe definirsi C’è ancora domani, che aprono alla speranza, non certo alla colpevolizzazione. Il film infatti sottolinea le responsabilità, non le colpe.
Delia riceve una lettera che nasconde, non ne conosceremo la natura e il contenuto, se non alla fine, Delia spera e agisce perché il futuro di Marcella sia migliore del suo, modificando l’eredità, rompendo alcune regole, e tutelando amorosamente così la figlia che lavora in una stireria. La giovane ha un innamorato, Giulio, un ragazzo premuroso che comunica a Delia le proprie intenzioni matrimoniali. La madre, felice che la figlia abbia trovato un buon partito, mentre già segretamente raccoglie i soldi per l’abito da sposa, si offre di invitare a pranzo la famiglia del pretendente, rassicurando Marcella che si vergogna sia della povera casa, degli abiti lisi e rabberciati della mamma in forte contrasto con la toilette ricercata della madre del ragazzo, sia della brutalità del padre, della trivialità incontrollata dei fratellini che ruzzano per casa, della villania imprevedibile del nonno e delle loro condizioni di vita, tanto diverse da quelle della benestante famiglia del fidanzato, arricchita con il mercato nero e proprietaria di un bar. Marcella, infatti, cerca di prendere le distanze, oltre che dall’universo materno, da quel mondo maschile estraneo, senza misura e fuori controllo: sapendo bene che tutto è lecito per un maschio, il cui comportamento, a differenza di quello femminile, sul quale si esercita il controllo familiare e sociale, è sempre “giusto”, e pertanto insindacabile, come dirà Anna Garofalo parlando dell’”infallibilità” maschile [11].
In questa dimensione patriarcale ed egemonica i ruoli, i corpi e l’errore hanno un diverso peso: la colpa maschile non esiste e non conta, mentre quella attribuita al femminile viene ipertrofizzata, sottolineata e punita. Una condizione nota e alla quale Delia sembra rassegnata e asservita: quando questa condivide con la famiglia una tavoletta di cioccolata donatale da William, Ivano l’offende dandole della sgualdrina, quando inciampa rovinando al suolo, alla fine del pranzo durante il quale non si è mai seduta (un altro segno esplicito della violenza concreta e simbolica subita che marca la distanza tra i ruoli della donna e dell’uomo di casa), causando la rottura di un piatto e la caduta dei dolci portati dagli ospiti.
In tal senso, offrendoci uno spaccato di immediata lettura, in cui i maschi non vivono contraddizioni (se non sull’esercizio della forza per “educare”, come asserisce Ottorino), né si pongono domande sul proprio operato, il film ci spinge a ragionare sui comportamenti reciproci di genere e non solo sulla violenza di genere, inquadrando questa nell’ambito delle discriminazioni subite solo per il fatto di essere donne e quindi svantaggiate. L’intera narrazione di C’è ancora domani, allora, ci suggerisce vari interrogativi: come affrontare il persistere degli stereotipi di genere, nei contesti culturali di riferimento? come sono costruiti i ruoli femminili, in relazione a quelli maschili? in che modo si rapportano i medesimi ruoli, in cui la differenza si traduce in netta diseguaglianza? come gli spazi, urbani e domestici, sono percorsi, usati, governati, da quel maschile e da quel femminile così oppositivo e dicotomico?
Il film ci mostra lo sbilanciato nesso gerarchico di dominanza che cancella ogni possibilità di riconoscimento sociale femminile che esuli dal cliché dentro il quale le donne erano (e purtroppo ancora oggi sono, anche se in modo diverso) condannate: a tratti, dunque, il ritmo narrativo si spezza, l’aria si congela, il bianco e nero della pellicola assume, se possibile, i toni cupi del grigio fosco del supplizio, i figli escono dalla stanza, mentre Ivano, piedi saldi al suolo, greve, primitivo, volgare, picchia sua moglie. Esercitando la violenza simbolica, ricorrendo all’esercizio della forza fisica, che cancella ogni dialettica, per ribadire da un lato la propria posizione e per conservare il proprio potere, mostrando dall’altro la propria fragilità, costretto a difendere una identità, che noi donne avremmo, poi, messo fortemente in discussione, percorrendo individualmente e collettivamente la nostra evoluzione, vivendo la comune e non del tutto compiuta Rivoluzione. Cosa significhi essere uomo, infatti, sta da alcuni decenni cambiando senso anche tramite due componenti, non agenti nel 1946: il movimento delle donne, solo dagli anni ‘60 e ‘70, e la mutazione del mondo lavorativo. Ottenendo l’accesso al lavoro e anche ai lavori tradizionalmente maschili le donne, infatti, hanno iniziato a erodere l’immagine del capofamiglia e hanno iniziato a ridisegnare l’organizzazione dei lavori domestici, minacciando l’immagine del “sovrano del castello”.
La violenza, verbale, fisica, simbolica, che ha per oggetto la donna, che ha per oggetto Delia nel film, non fortuita o impulsiva, ma abituale, ha chiare intenzioni: controllare e dominare e, forse, nascondere la debolezza del maschio (che nega e teme ogni confronto inter pares) e nel contempo umiliare il femminile, riducendolo a una cosa, sfogando una rabbia figlia di una tremenda paura. Emerge il sommerso nella difficoltà, ancora attuale, di conoscere i dati precisi di quella violenza, spesso costitutiva della relazione. Azioni efferate, ricorsive, trasversali, erano e sono presenti [12] in vari strati sociali e in differenti età, mirate, comunque, a una progressiva erosione identitaria. E origine di traumi difficili da superare, sovente soggetti a riattivazione. Dopo una esperienza di violenza, che si configura come una frattura biografica, non si è più come prima.
L’ordinamento giuridico italiano è stato a lungo veicolo di violenza di genere. Come non ricordare lo ius corrigendi? Il potere correttivo del pater familias che comprendeva anche la coazione fisica e la forza; come non ricordare che solo nel 1996 lo stupro è stato inserito tra i reati contro la persona? Una cultura della violenza che continua ancor oggi ad alimentarsi, fondata su modi e su credenze che disegnano la natura maschile come forte e autoritaria, indirizzata a possedere, controllare e governare. In tal senso le percosse quando non uccidono provocano shock e lasciano indelebili segnali sulla psiche, non unicamente sulla pelle o sulle ossa, sulla personalità e sull’immaginario femminile, castrato e gravato, orientato verso la perdita di autostima. In Italia i doveri delle spose, i precetti, per esempio veicolati da predicazione della sacra famiglia che si tenne a Fellicarolo tra fine giugno e primi di luglio del 1895, indicavano comportamenti da adottare e legittimavano le esplosioni di ira maschili alle quali le mogli dovevano rispondere chinando il capo, considerando, appunto, la violenza domestica quasi come fosse un fatto naturale.
Insomma Chiesa, Stato e Società alimentavano l’immaginario patriarcale, poi attenuato nel nostro ordinamento, ma resistente nella cultura e nei comportamenti. Ricordiamo che: solo nel 1975 il nostro ordinamento giuridico ha sostituito la famiglia strutturata gerarchicamente con un nuovo modello di famiglia paritaria; solo dopo la legge n. 442 del 1981, che ha abolito la rilevanza penale della causa d’onore dei delitti compiuti per salvaguardare l’onore proprio e della propria famiglia, non sarebbero stati più sanzionati con pene attenuate rispetto agli analoghi delitti di movente diverso, cassando finalmente così il presupposto che l’offesa all’onore causata da comportamento “disonorevole” costituisse un oltraggio così tanto grave da giustificare la risposta dell’“offeso”.
Durante gli anni in cui si svolge la vicenda narrata da Paola Cortellesi, siamo nella primavera del 1946, difettavano non unicamente leggi e sanzioni punitive contro la violenza sulle donne, ma mancavano la consapevolezza (sia negli uomini, sia nelle donne) e gli strumenti di intervento sociale, come gli sportelli di ascolto, i centri anti-violenza (spesso ancor oggi purtroppo poco validi ed efficaci), le case rifugio per le donne maltrattate, e ovviamente mancavano, tranne rari casi, training di istruzione o specifici percorsi formativi, sia in famiglia, sia a scuola, mirati a invertire l’immaginario dominante, di contro fortemente alimentato dalla difficoltà di studiare o di portare avanti scelte che fornissero chance di emancipazione.
La Cortellesi sceglie di raccontare il concreto e ripugnante rito delle percosse con un espediente ingegnoso che trascende la semplice estetizzazione dell’atto, con un meccanismo di dissociazione, trasformando le botte in una sorta di coreografia, sulle note di Nessuno, nella versione di Musica Nuda. La dinamica disfunzionale tra Delia e Ivano viene così tutt’altro che edulcorata e consente di esplorare, rinforzata dallo straniante accostamento con le parole del brano [13], uno dei nodi relativi ai soprusi sulle donne, in ambito familiare; la danza, infatti, a mio parere mostra quanto esistessero, e purtroppo ancora esistano, molti casi in cui le donne picchiate non siano in grado di reagire, per difficoltà a denunciare, per legami di dipendenza, o perché, socialmente e culturalmente, sussista un reale rischio di vittimizzazione secondaria, doloroso giogo al quale molte donne stuprate o picchiate furono e sono costrette a sottostare. La danza, allora, che consente di osservare l’orrore senza essere posti davanti a una consueta rappresentazione cruenta dello stesso (a cui la visione di serie e film o di documenti visivi ci ha avvezzi), rende più intenso, stridente e alienante l’evento, rappresentando simbolicamente questo doppio vincolo tra il carnefice e la vittima. Che, malgrado se stessa e il proprio profondo sentire, soggiace a una cultura difettiva del rispetto, che non valorizza le differenze, che esaspera ogni forma di discriminazione.
Dietro questi nodi, realtà ancora presenti, attualmente sono assai poche le donne picchiate che denunciano. Ancor più a metà degli anni ‘40, quando in Italia tali problemi irrisolti sebbene fossero assai impellenti, erano poco dibattuti collettivamente. Gli innumerevoli dispositivi di dominio ai quali assistiamo, dunque, ci spingono a pensare. E, anche grazie all’accessibile narrazione della Cortellesi (tale accessibilità è un pregio, rendendo il film veicolo di riflessione allargata non solo a un pubblico elitario o accademico), è naturale chiedersi, come sia possibile che l’organizzazione sociale fondata su tali palesi ingiustizie sia stata e ancora sia perpetrata? Come mai non si sia posta in modo stringente l’illegittimità di tali ingiustizie, se non in condizioni estreme?
Occorre, però e ancora, ragionare su quanto il potere, che articola e fonda le relazioni di dominio sulla coercizione o sulla violenza fisica, non basi la propria stabilità su tale componente fisica, ma sulla legittimazione. Nella realtà di Delia e di Ivano, infatti, è determinante che si giustifichi l’ordine attraverso la concordanza tra le configurazioni cognitive e quelle sociali. Nel mondo di Delia e delle donne che hanno vissuto esperienze simili esiste una coincidenza tra i sistemi simbolici e il mondo sociale, politicamente e, sino a un certo periodo, giuridicamente edificato. I personaggi tutti, eccetto Delia che sceglie di divergere, appaiono coerenti nei loro pensieri, azioni, comportamenti, con l’ordine costituito. Che garantisce il rinnovarsi dell’ordine stesso e delle percezioni dei singoli soggetti: i sistemi simbolici quindi operano anch’essi come strumenti di potere, perché agiscono in modo costitutivo sul quotidiano sociale. Il potere simbolico maschile, nella realtà narrata da C’è ancora domani, garantisce, ancor più delle legnate, il dominio sociale maschile sulle donne. E proprio in quanto tale forma di violenza necessita della complicità di tutti i soggetti coinvolti, dominanti e dominati, mostra la propria orribile stabilità.
Questa simbiosi, difficile da rompere sul piano dialettico, in contesti come quello narrato dal film, in cui il piano dialettico appunto non esiste, descrive condizioni sociali e necessita anche di atti dirompenti e destabilizzanti, concepiti da Delia che non agisce per sé, ma soprattutto per capovolgere il destino della figlia. Delia, infatti, dopo aver assistito a un comportamento minaccioso di Giulio nei confronti della ragazza, e oramai in grado di leggere i “segnali” della possessività schiacciante, attiva quella consapevolezza personale che la porterà ad agire per proteggere Marcella e, poi, ad agire anche per se stessa. Destinando persino i denari faticosamente raccolti per il vestito da sposa, allo studio per la giovane figlia, affinché il suo destino si diversifichi e possa compiersi altrimenti.
Tale dinamica tra madre e figlia nobilita la maternità che trasla da una coazione, condotta secondo regole determinate, a un’azione extra copione, volontaria e deliberata di una donna che rompe la ripetizione del dogma comportamentale e apre a un futuro nuovo. Marcella e Delia, per la prima volta sperimentano quella complicità che nutre la relazione madre/figlia, quando, prima di uno tra gli eventi catartici Delia dice a Marcella: “Te però sei in tempo”, mentre questa risponde: “Pure te, ma’”. Tale complicità, fatta di emozioni, di volontà trasformativa, di istinto, di lucida e strategica intelligenza, di amore reciproco, di cura e di stima, ci indica la rivoluzione in itinere. Raccontata con piccoli atti liberatori, con il sottofondo dell’emozionante atmosfera de La sera dei miracoli di Dalla e di un perfetto brano di Daniele Silvestri, A bocca chiusa, quando il sogno di libertà si traduce in progetto.
Il 2 e il 3 giugno del 1946 furono giorni determinanti non solo per la nostra Nazione, ma per tutte le donne che, per la prima volta, dopo una lunga e controversa battaglia per il suffragio [14], acquisirono il diritto di contare, votando, alcune abbigliate come per una festa di auto-liberazione, per il referendum costituzionale e per l’Assemblea costituente, recandosi alle urne in quasi 13 milioni, contro i circa 14 milioni e mezzo aventi diritto. Delia, nostra silenziosa ma potente antenata, fu tra queste, una nella moltitudine di donne che quel giorno acquisì coscienza di esser presente nello stato politico.