A cinque anni da Tre lune in attesa (qui recensito nel numero 35 di gennaio 2019) e a quattro da Le professoresse meccaniche (macedonia di storie di vario stile e misura a loro modo unificate dal tema scolastico) [1], Alfonso Lentini offre un altro, ancor più generoso, vassoio di micronarrazioni: i 117 raccontini di Noi siamo i lupopesci, quarto numero della collana «glossa» di Pièdimosca (principiata nel 2022 da quell’antologia Multiperso cui lo stesso Lentini contribuisce con cinque prove [2], e appunto adibita dal suo ideatore, Carlo Sperduti, alle «prose brevissime, con un’attenzione particolare alla sperimentazione e alla scrittura pura e una vocazione all’eterogeneità»).
Il titolo sottende forse un omaggio al Manual de zoología fantástica di Borges (l’Autore che l’autore, in una recente e ispirata intervista, mette in cima, da «imprescindibile», al suo Olimpo letterario, insieme a Jarry, Cortázar, Monterroso, Olgoso, Charms, Philip Dick, Jarry, Ripellino, Savinio, Pizzuto, Buzzati, Gaetano Testa, Balestrini, Wilcock, Sanguineti) [3], ma le anfibie, avventurose creature che vi sono evocate hanno séguito in tre sole pagine: nella posizione strategica del Prologo premesso ai quattro pannelli in cui il libro si articola (Scale, Del dormire, Nani di mente, Il viaggio sulla Luna), a emblema di una poetica ‘deviante’ (e «fuori tempo», come il ballo dei misteriosi personaggi ‘a rovescio’ di Capire la canzone) che ben converge con la serie che nasce «dirottata» [4] («noi lupopesci, sbagliando strada, non siamo mai riusciti ad arrivare agli appuntamenti. Non essendo mai nati, non siamo mai morti»); nello stordito ‘atto di fede’ di L’apparenza delle cose («Crede nei zirlacchi, nei pitànferi, nei lupopesci, nell’urlapicchio»); in Elogio, a sigillo di un altro elenco che ‘smonta’ un vieto proverbio: «Chi dorme certamente non piglia pesci ma piglia basilischi, uccelli del paradiso, daini albini, topi giganti, pantere profumate, unicorni, leviatani, centauri, lupopesci» (fra parentesi, il richiamo alle fantastiche fiere di Borges si può estendere, nella seconda edizione, alla tigre «acquattata nell’armadio» di È belliiiiiiiiissimo).
Figli anch’essi di un esercizio assiduo, di un giornaliero ‘antirosario’ (perlopiù recitato sul quotidiano di scrittura online «Il cucchiaio nell’orecchio» e sul blog multiperso.wordpress.com), gli odierni ‘nanotesti’ vanno ad allinearsi ai precedenti ‘improvvisi’ di Tre lune in attesa: la ristampa identica, nell’ultima sezione, del suo pezzo conclusivo, l’augurale Battimanine, costituisce un autentico passaggio di testimone che ha poi conferma nel rinnovato impiego di ‘annonimi’ (altri sedici nomi coniati a partire dalla base ‘Anna’: «Annalucignola», «Annalunetta», «Annagreta», ecc.), per non dire delle ulteriori presenze di monti (il pseudo-elvetico Nielsen [5], le africane «vette del Kangchenjunga», i dolomitici Sorapis, Pelmo (confortevole «seggiolone di Dio» e «montagna-poltrona»), Piana, Cristallo, fino all’esemplare Vajont o alla celebrazione collettanea di Cose di montagna) e dei paralleli riferimenti alla natia Sicilia (dal toponimo favarese «Piazza Itria», al «Siamo a Palermo», ai dialettali «incorreggibile femminaro», «cieli di azolo pittati sul nostro soffitto», «tuma, tumazzu, una damigiana di vino moscato», «Mio padre non è cosa», ai nostalgici «mostaccioli, frutta di martorana», «cassetti ancora odorosi di biscotti al sesamo») [6] che tornano ancora a denunciare la doppia identità dell’isolano insediato in Cadore.
Resti inteso che, anche quando minimamente allusive, queste ‘invarianti’ non trasportano significati, rispondendo piuttosto al «bisogno istintivo di lavorare con la lingua un po’ come un pittore lavora con il colore, cioè impiegandola come una pasta spalmabile e usandola a volte per il suo valore in sé prima ancora che per ciò a cui può rimandare» [7]. Sono colpi di spatola («tubetti di colori schiacciati», direbbe Ripellino) [8], proprio come, passando al campo automobilistico, la «vecchia Skoda 1000 MB verdolina» di Il sonno della vecchia Skoda, la «vecchia Ford Focus Station Wagon» (in gara con l’«impertinente Citroën blu coleottero») di Come cantava, la Cadillac di Partenza) e la «Opel blu» di La cattedrale di Reims (eredi della «massiccia bmw» di Tre lune in attesa) e come la pattuglia di citazioni ‘a capriccio’: quelle che toccano il feroce fotogramma di Un chien andalou («Affondano una lametta nel bianco del tuo occhio destro»), il cortometraggio charlottesco The Floorwalker (per la protagonista di Mia sorella, «specializzata» nel salire in discesa e discendere in salita le scale mobili, che ne ripete la gag centrale), un capolavoro gaddiano («In un lampo ebbe cognizione del dolore che si irradia sul mondo»), Le avventure del barone di Münchausen (per l’«antico barone che riuscì ad arrampicarsi fin sulla Luna scalando una pianta di fagiolo»), il paradosso di Zenone («fra una chiesetta e l’altra si possono porre infinite chiesette»), la Cabala («Ci fu un tempo in cui tutte le anime erano riunite nell’anima di Adamo»), un notissimo pensiero di Agostino («chi può misurare il passato, che non esiste più, o il futuro, che non esiste ancora?»), una famosa poesia di Gozzano («Rivedrai la tua amica Speranza e la bacerai sulle guance»), i leopardiani Elogio degli uccelli («Sentono giocondità e letizia più che alcun altro animale») e L’infinito («una siepe che escluda lo sguardo dall’ultimo orizzonte»), Paradiso, I, 112-114 («Vorrebbero sciogliersi nel gran mar dell’Essere», riconducibile alla terzina «onde si muovono a diversi porti | per lo gran mar dell’essere, e ciascuna | con istinto a lei dato che la porti») e II, 34-36 («imperturbabile come acqua che si lascia attraversare da un raggio di luce», trasposizione di «Per entro sé l’etterna margarita | ne ricevette, com’acqua recepe | raggio di luce permanendo unita»), un aforisma dei Disastri di Daniil Charms («Quando incontri un cavallo, controlla se ha il becco. Se ha il becco vuol dire che non è un cavallo», che ne varia il vulgato «Quando compri un uccello, guarda se ci sono i denti o se non ci sono. Se ci sono i denti, non è un uccello»), un frammento del Lupo mannaro di Landolfi («una sfera candida, opalescente, i cui riflessi ricordavano i lucori delle meduse», che ne doppia i «riflessi madreperlacei simili a quelli di cui svariano le meduse»), I miracoli di Val Morel di Buzzati («una colonia di scimmiette puzzolenti che sanguinano a causa della loro eterna guerra contro le Formiche Mentali», modulazione di «Io Angelo Dal Pont, tipografo di Polpet, ero seriamente disturbato dalle Formiche Mentali», già posto in epigrafe a Le professoresse meccaniche, dove è anche ‘fonte’ di Il convertitore), le Storie di cronopios e di famas di Cortázar e Le galline pensierose di Malerba, che prestano spunti alle sequenze Nani di mente e Scale.
Le consuetudini della pittura investono anche il traliccio ‘monografico’ (affine a quello costruito in Piccolo inventario degli specchi, il libro apparso da Stampa Alternativa nel 2003) [9] delle prime tre parti, rispettivamente appese a motivi (ascensione, sonno, vista corta) che prevedono una filza virtualmente infinita di variazioni (si pensa, ad esempio, alle molteplici versioni delle creature in volo di Chagall o dei manichini di De Chirico): temperie costruttiva (ne partecipano le riapparizioni del «Regista» di Nani di mente, della «zia», della «nipotina», del «prozio», dello «zio scaleno» di Scale e, in ambito metaletterario, il saluto a distanza fra l’«abbigliamento onomatopeico» che inaugura Per i viali e la Canzonetta sineddochica) che si concede talvolta il lusso di larvate simmetrie. L’incipit del brano iniziale, Cervello blu, della seconda sezione, Del dormire («Salgo tutte queste scale che si inoltrano a cavatappi verso un piano altissimo e vado in cerca di un cervello blu»), è una sorta di ripresa della prima, Scale. La sezione Nani di mente è a sua volta quasi annunciata dalle «montagne nane» del tempo in cui «tutto era sanamente nano» di Mio bisnonno (Scale). E il desiderio di altezze che anima la prima sezione (ma anche qui, in Mia sorella, si avrà una discesa «a picco, verso il basso») ha un suo contraltare negli sprofondamenti di È belliiiiiiiiissimo («Il pavimento diventa friabile e si sgretola in una voragine nera dentro la quale precipiti nudo a occhi bianchi»), Cosa buona («spaccare il pavimento per cercare lampadine sotterranee»), Sotto la vasca («Intanto il pavimento scompariva e sotto la vasca si apriva un bosco fittissimo»), Per cancellare il nero («presto dal suo cellulare si spalancherà una voragine più vasta dell’intero cratere e tutto si tingerà di nero impenetrabile»), e nell’impresa mineraria di Il viaggio sulla Luna («Dissodarono il terreno, aprirono una grande buca e penetrarono sotto la crosta terrestre, scavarono ancora sempre più nel profondo; e scava scava raggiunsero il nucleo del pianeta»).
Ma la procedura delle procedure rimane l’uso intensivo delle enumerazioni ‘a valanga’, chiamate a emulare l’immensa congerie del nostro universo (arricchita, per non farsi mancar nulla, da «invisibili gradini», dalla «scala impossibile», dai «gradini invisibili della sua invisibile scala», dall’«invisibile astromobile», dall’«impossibile giornata dell’impossibile partenza», da «parole inesistenti», come lo saranno il «numero da lei digitato», l’«abisso» e l’«Uomo» di Interno uno), e tangenzialmente rivendicate nel penultimo testo del volumetto, Panopticum: «In questa casa sei inchiodato a una visuale panoramica totale, sei forzato a vedere tutto e sempre e contemporaneamente. Dovunque tu sia». Per questo, ai cataloghi di cose contigue (per tutti, i «Ragni falenuzze scarafaggi roditorini lucertolette moschiciattole acari larve cimici batteri» di Il sonno della vecchia Skoda e i «pezzi di pillole, fiale, aghi, fasciature di garza, lacci emostatici» di Sotto la vasca) si affiancano le elencazioni incongrue, talvolta frammiste di entità inverosimili, soffiate dallo spirito del limerick (oltre alla lista di animali reali e immaginari snocciolata nel Prologo, e ai toponimi che costellano Neppure Bagdad, se ne possono qui ritagliare i «download, swrxztkjzerie, juvzx, spermatozoi, ali di fagiano. Pescecani plastificati. Mitragliatrici trasparenti» di Qui nessuno è sveglio e le «fritturine di gèrbole, concretine, coschietti. E pitòrzole al miele per finire» di Cosa mangiano i nani di mente), per culminare, iniezione di verità che sbaraglia ogni intento ludico, nell’accorato appello della ‘classe morta’, ombre di un cosmo privato che si fanno escrescenze sfogliate (sulla scorta di Inferno III, 112-120) dall’albero-corpo: «Gina, Michelino, Tonio, Ignazio, Fabrizio, Alfio, Lina, Luciano, Mariella, Franchina, Francesco, Patrizia. Cadono giù finché ne resto spoglio e le vedo tutte intorno a me, esauste, adagiate per terra».
L’attonito ossario di La stagione, il luogo più intensamente umano di queste pagine, vale a dichiarare il risvolto ‘serio’, le «cose molto concrete» (diramate in «cenni non casuali a eventi drammatici come la tragedia del Vajont, riferimenti alla contemporaneità come l’assurdità della guerra o il problema degli sbarchi o lo scolorimento della politica»[10]) di un lavoro che pure «rifiuta qualsiasi chiave interpretativa del reale (anzi forse rifiuta persino l’idea che esista un reale esterno alla scrittura) e parte dal presupposto che pretendere di spiegare, fornire ricette, rappresentare fedelmente, possono essere forme di mistificazione», e che è quindi portato a «sollevare dubbi, stravolgere, disorientare», «ad attivare il senso critico e a interrogarci su cosa sia o non sia reale, partendo dall’idea che per chi scrive, la cosa più reale e veramente concreta è la scrittura stessa» [11].
A giudicarlo sul piano delle attitudini sovversive della scrittura, il libro si tiene o, per meglio dire, si autodistrugge con produttiva destrezza: le sue schegge incrementano il mondo, ne restituiscono semi segreti, dilatano il tempo («erano le sette e venti ormai da sei ore, era il 38 di maggio e le stagioni si accalcavano disordinatamente dietro la porta») e lo spazio («i settantamila invisibili chilometri che separano il piano di sotto da quello di sopra»), specchiano «ipertempi iperluoghi». L’agguato del paradosso, la sistematica smentita dell’orizzonte di attesa (esemplata dal portentoso «Ho indossato il vestito da palombaro e via, in volo»), la proditoria attuazione della metafora e altre consimili manovre (come la ‘denudazione del congegno’ perpetrata da Il mio biscugino, a partire dalla «figurina in bilico sulle scale del carcere») convogliano spesso un clima circense, numeri da cartoon, da comiche finali, riassunti dalla bombetta che «somigliava a quella di Stan Laurel» di L’altro mio zio. Ne avremo allora lo zio che «tenta di salire su se stesso e, non riuscendoci, piange e strepita alla disperata», il trisavolo uso a corteggiare solo «scale femmine» («nessuna poteva resistergli; così, ogni volta che ne saliva una, la scalessa cedeva, i gradini si spaccavano e lui giù a capitombolo»), la biscugina che «si arrampicava su un concetto, faceva forza con i piedi e saliva sul successivo», il nano di mente che «aveva piantato nel suo giardino qualcosa come duemila stuzzicadenti disposti in file regolari e non riusciva a capacitarsi di come neppure uno fosse germogliato» (e gli stuzzicadenti che lo irridono «senza ritegno»), la bambina che, ‘rimorchiato’ «il figlio del dentista», muove a concupire «il figlio del giostraio, quel bambino con la barba blu», gli appassionati di politica che «lanciano in aria coriandoli, girano le manovelle di piccoli carillon, battono tappeti, ciucciano Chupa Chups», il «concorso» che si risolve in un «correre alla rinfusa nel buio più totale», l’omino che si crede Tyrannosaurus Rex e fa pertanto «rimbombare nel viale i passi delle sue zampe mastodontiche» (e quelli che camminano «curvi con un pezzetto di vetro davanti all’occhio e il gilè bene in vista»), il «Capo» che «ci osserva a lungo curioso e infine parte col dito in bocca a ciucciare imbronciato, poi pian piano piega il testone sul petto e si addorme».
Al lato opposto, diresti a contrappeso del buffo, e nel segno di un deliberato pluristilismo [12]. si fanno scorgere, lo si è anticipato, le brevi pause di assorta contemplazione (iconizzate da chi «Guarda le scale, le guarda intensamente»), che adottano senza parere un registro quasi lirico, prossimo al canto, quando non (in Una dolomia volante e in Cose di montagna) latamente elegiaco. Ne sono contagiati la cugina «tristissima, sola, senza pensieri né respiro» (Mia cugina), la pianista che esegue «una ninna nanna dolcissima, tutta fatta di scale» (Mia zia), la «cantilena senza parole né paure» di La mia nipotina, Mio nonno («il firmamento, come un gigantesco ombrello, calava a incappucciare il mondo e le stelle si facevano più consenzienti»), Da molte stelle («Toccami il piede e sognami. Sognami brano a brano. La luce che percorre i vasi sanguigni è presente al richiamo del nero. Da molte stelle mi vien questa luce»), Battimanine («Tu avevi solo tre anni e alla vista di quello sbattere d’ali, dimenticando fulmini e montagna, battevi le manine per la gioia»).
Parafrasando l’avvio di In cima alla collina («Posto in cima alla collina, il generatore automatico di parole inesistenti lavorava a pieno ritmo per rifornire i parlanti»), Noi siamo i lupopesci può essere definito un ‘generatore automatico di storielle inesistenti’, che lavora senza sosta per rifornire i chimerici lettori attesi dal Prologo («E tu che ci leggi e senti il nostro cocciuto batticuore puoi ancora farci esistere, se ci percepisci sia pure per qualche minuto»): un macchinario ‘a maglie larghe’, da laboratorio surrealista, che lascia letteralmente passare, in un disordine diegetico che è insieme la sua forza e il suo vizio d’origine, tutto e il contrario di tutto: pula e grano, diamanti e carbone. A tralasciarne i prodotti ‘rivedibili’ (Sospensione, Luci, Chiodi, In cammino, Proposte, Allegri e nudissimi, Noi, Strade), si deve dire che l’arruffata officina funziona, in genere, egregiamente. Fra le invenzioni più vivide si distinguono lo «zio scaleno» di Mio zio, con i «suoi amici più scalmalati di lui» (e con lui che, per troppo bere, «scalava scaliva e scaleva più del solito»), il bambino di Dalla finestra («Stava facendo i compiti ma poi ha iniziato a pensare ed è volato via»), i perigliosi occhi di Occhi («La garanzia è scaduta; se si rompono, il salumiere non te li cambia più»), il finale in calembour di Dentro un cratere («Qui dove mi trovo, al centro di questo cratere commerciale, non c’è campo. Solo sabbia e denaro. Non c’è scampo»), il nano chapliniano di Politica («salì sul terrazzo e dall’alto arringava la folla incitandola a partecipare a una nuova guerra, una qualsiasi»), il «bambino di marzapane» di Le cose in sé («Era l’unico essere in grado di carezzare le cose in sé, dette anche noumeni, cioè quelle deboli sostanze di forma sferoidale incolori insapori inodori che scovava talvolta sotto il divano, nel buio, oscillanti fra i batuffoli di polvere»), le trasversali, ma estremamente efficaci, denunzie di Sbarchi («a nuoto, dal Nordafrica sta arrivando la Fenomenologia dello Spirito. […] A nuoto, dall’Asia Minore sta arrivando la Critica della Ragion Pura») e Battaglia grande («Piantò un coltello e crebbe il monte Piana, irto di scheletri e trincee, dove per molti millenni imperversò Battaglia Grande della Guerra Grande, la Rissa più citrulla e miserevole del mondo»), l’apologo parakafkiano di Il Luogo della liberazione, innervato fra Il processo e Sciacalli e arabi («Forse i lupi o le iene ci osservavano nascosti nella tenebra»; «Le guardie mi spinsero dentro e inchiavardarono la porta. Finalmente libero»), l’affilato nichilismo di Mille spade: «Se non ti resta niente da dire, scrivi».
Questo vero ‘jukebox all’ossigeno’ (marchio autorizzato, via Ginsberg, dalle «bambole d’ossigeno» di Per i viali – frutto beffardo, come i Nani di mente, di un «cambio di lettera» da Settimana Enigmistica) appare così una delle opere più riuscite di un ‘artista a tutto campo’ che ho avuto agio di seguire, nelle sue esplorazioni fra scrittura e arti figurative, sin dai nostri anni universitari (i primi Settanta, alla facoltà di Lettere e Filosofia di Palermo), quando mi parlava della sua collaborazione alla rivista sperimentale «Fasis» e mi mostrava i primi quadri. L’assimilazione delle avanguardie novecentesche (da Jarry al gruppo 63 e oltre) è ormai divenuta per lui una seconda pelle, se non la marsina di un navigato prestigiatore che crea i suoi trucchi eseguendoli, senza pensarci, come un’estensione della sua biologia, con una disinvoltura in cui senti insieme il vino che migliora con gli anni e il brio, la felicità di una seconda giovinezza (bolle di euforia che, in questi tempi di colera e di collera, ci sollevano per un interminato istante dalla trista terra).
Dialoghi Mediterranei, n. 63, settembre 2023
Note
[1] Alfonso Lentini, Le professoresse meccaniche e altre storie di scuola, Roma, Graphofeel Edizioni («Intuizioni»), 2019.
[2] Una delle quali, Tredici pezzi, si vede ora replicata a p. 55.
[3] Vd. La scrittura come meraviglia: conversazione con Alfonso Lentini, a cura di Vito Bianco, bacbac.eu, 25 giugno 2023.
[4] «Glossa è una collana a margine dirottata da Carlo Sperduti: a margine della collana di narrativa ossa di pièdimosca edizioni; a margine della letteratura e dell’editoria attuali» (ivi: 5).
[5] Anamorfosi di Niesen.
[6] Corsivi nostri. Nella menzionata intervista La scrittura come meraviglia: conversazione con Alfonso Lentini, a illustrazione del ciclo Scale, l’autore dichiara: «l’idea di partenza nasce da uno spunto molto concreto, direi “paesaggistico”, perché io, pur essendo siciliano di origine, abito a Belluno, cioè in un territorio circondato dalle sontuose Dolomiti e frequento persone che amano la montagna sino al punto da fare dello scalare quasi una ragione di vita».
[7] Vd. La scrittura come meraviglia: conversazione con Alfonso Lentini, cit.
[8] Vd. Angelo Maria Ripellino, La fortezza d’Alvernia e altre poesie, Milano, Rizzoli («Poesia»), 1967: 134 (Congedo).
[9] Forse alluso in Se pensi: «I palmizi mossi dal vento raccontano storie come questa: che la stagione degli specchi arriverà a sorpresa là dove nessuno la aspetta».
[10] Ventilato in Il ventilatore, che prefigura «il partito del ventilatore», Notte di San Giovanni («Nascondevamo la nostra passione civile nei tubetti del dentifricio, pronti a tirarla fuori qualora un colpo di stato ci avesse proibito di lavarci i denti»), Cervello blu («Vorrei imparare a leggere ma anche a cucinare il pesce e a distinguere le passioni civili da quelle incivili»), e ironicamente asserito in Politica: «non esiste più la politica di una volta». Alla scherzosa censura di discutibili costumi provvedono invece Casa di intolleranza, i nani di A pancia all’aria («in attesa della dissolvenza, vanno fieri della loro entità individuale, assorbiti nelle sciagurate iperboli dell’io») e di Convenevoli.
[11] Vd. La scrittura come meraviglia: conversazione con Alfonso Lentini, cit.
[12] «Scrivo per il piacere o per il bisogno di farlo, e scrivo nelle modalità più diverse avendo come unico criterio la massima libertà espressiva. In questo mi sento anarchico. Gli spunti arrivano forse da un colpo di vento. A volte basta che nella mia mente compaia una parola (Lexotan, ossigeno, tigre…) o un’immagine casuale e intorno a quel nucleo iniziale germoglia quasi involontariamente qualcosa. Il lavoro poi consiste nel curvare pericolosamente, deformare, stravolgere» (ivi).
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Antonio Pane, dottore di ricerca e studioso di letteratura italiana contemporanea, ha curato la pubblicazione di scritti inediti o rari di Angelo Maria Ripellino, Antonio Pizzuto, Angelo Fiore, Lucio Piccolo, Salvatore Spinelli, Simone Ciani, Giacomo Debenedetti, autori cui ha anche dedicato vari saggi: quelli su Pizzuto, sono parzialmente raccolti in Il leggibile Pizzuto (Polistampa, 1999). Ha, inoltre, dato alle stampe le raccolte poetiche Rime (1985), Petrarchista penultimo (1986), Dei verdi giardini d’infanzia (2001). Fra i suoi lavori più recenti, i commenti integrali a Testamento e Sinfonia di Antonio Pizzuto (Polistampa, 2009 e 2012), i saggi Notizie dal carteggio Ripellino-Einaudi (1945-1977) (in «Annali di Studi Umanistici», 7, 2019), Bibliografia degli scritti di Angelo Maria Ripellino (in «Russica Romana», xxvii, 2020), Per Simone Ciani: un ricordo nel giorno della laurea (in «Annali di Studi Umanistici», IX, 2021) e la cura di volumi di Angelo Maria Ripellino (Lettere e schede editoriali (1954-1977), Einaudi, 2018; Iridescenze. Note e recensioni letterarie (1941-1976), Aragno, 2020; Fantocci di legno e di suono, Aragno, 2021; L’arte della prefazione, Pacini, 2022) e di Antonio Pizzuto (Sullo scetticismo di Hume, Palermo University Press, 2020).
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