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Borgo Vecchio piazza universale della Palermo popolare

copertinadi Antonino Cangemi

Chi conosce Palermo sa che Borgo Vecchio è un quartiere popolare tra i più antichi. Nel cuore del suo centro storico, pullula vitalità pur nel degrado che l’attraversa; rione povero di poveri, Borgo Vecchio è ricettacolo di commerci e mercanzie vari, non tutti leciti: lì si annida, assai più che nella zona residenziale ed elegante che vi confina, l’anima dei palermitani con i suoi sussulti e le sue remore, la sua estemporaneità e le sue reticenze, la sua chiassosa allegria e le sue soffuse malinconie.

Giosuè Calaciura, scrittore e giornalista culturale affermato (redattore, tra l’altro, di Fahrenheit, l’unico programma radiofonico dedicato ai libri), ha voluto dedicare il suo ultimo, recentissimo romanzo a quel quartiere, persino nel titolo, Borgo Vecchio appunto, edito da Sellerio (2017).

Si tratta di un romanzo a suo modo corale, un affresco originalissimo per la storia che racconta e per lo stile di scrittura. Una favola nera, se così può definirsi, in cui si muovono personaggi di una Palermo popolare che, malgrado le sue stridenti contraddizioni e i suoi aspetti sinistri, resiste ai processi di omologazione culturale. Nei suoi protagonisti, “sporchi, brutti e cattivi”, il palermitano (anche se da tempo residente a Roma) Calaciura fa risaltare una ingenua, primitiva visione della vita che tempera la durezza e la crudeltà dei loro destini, e persino un’inattesa gentilezza. Al punto che i due giovanissimi amici per la pelle Mimmo e Cristofaro, vittima del padre alcolizzato, la prostituta Carmela, devota alla Madonna, la figlia Celeste, Totò, rapinatore abilissimo con la pistola nascosta nella calza perché non venga usata, Giovanni, salumiere con la bilancia truccata, pur nelle loro psicologie rudimentali e nelle loro esistenze segnate da asprezze di ogni sorta, si rivelano dei sognatori.

Ma è tutto il quartiere che vive sospeso, in questa favola amara, tra la realtà e il sogno, e persino gli animali, a cominciare dal cavallo Nanà che se non parla è come se lo facesse, partecipano alle vicende che animano la piccola comunità.

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Borgo vecchio (ph. Shobha)

Il solito Calaciura, potrebbe dire qualcuno: visionario, preda di deliri onirici, a metà strada, nella sua singolare vena affa- bulatoria, tra una realtà crudissima e l’incanto fiabesco, ostinato nel voler raccontare periferie, emarginazioni, storie di poveri, cocciuto nel voler far assurgere al ruolo di protagonisti gli ultimi, gli esclusi, e spesso i bambini e persino gli animali [1]. Come Fiona nello Sgobbo [2], venuta dall’Africa nera su un barcone a guadagnarsi da vivere (lo “sgobbo”) col più antico e umiliante mestiere, o Henriette de La figlia perduta. La favola dello slum [3], la “prostituta vestita di carta” alla ricerca, tra le baraccopoli di Kampala, della figlia perduta, l’immigrato Kaled di Bambini e altri animali [4.] Già, il solito Calaciura, che non solo è insensibile ai richiami di un mercato editoriale omologato – nei temi e negli stili  – , ma che quel mercato sfida in nome di una letteratura, predicata con pochi sodali, in nome della resistenza dell’umanità [5] e di un’estetica aliena ad appiattimenti e a facili manierismi.

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Borgo vecchio (ph. Shobha)

La scrittura di Calaciura è raffinatissima, coniuga la lingua parlata a impennate liriche con una padronanza descrittiva che riesce a catturare stupefacenti sensazioni olfattive: il profumo del pane che inebria l’intero rione, l’odore del mare, la fragranza della carne che per effetto del vento giunge nelle case di chi la carne non la mangia mai. E, seppure il romanzo si snodi in una sua trama lineare, ciascun capitolo ha la forza narrativa di un autonomo racconto: si legga, in particolare, “Il diluvio”, esempio del personalissimo realismo magico di Calaciura, lontano un miglio da quello estetizzante di Bontempelli e Landolfi o allegorico di Buzzati, un po’ meno da quello degli scrittori sudamericani del secolo scorso.

La dimensione immaginifica, potente nella narrazione, non è finalizzata in Borgo Vecchio ad approdi evasivi o a soluzioni edulcorate. La favola non conosce il lieto fine, il riscatto tentato è oscurato da una realtà spietata.

Ciò non stupisce per chi conosce Calaciura, una delle voci più autentiche del nostro patrimonio letterario che nulla concede a esigenze di mercato, anche nella scrittura a tratti vorticosa e funambolica, la cui eleganza mai è fine a se stessa od ornamentale, ma sempre funzionale alle storie raccontate.

Dialoghi Mediterranei, n.28, novembre 2017 
Note
[1] In un’intervista rilasciata a “Il Messaggero” all’uscita della raccolta di racconti Bambini e altri animali (Sellerio, 2013), Calaciura ha spiegato: «Perché ho affrontato il tema dei bambini in questa raccolta di racconti? Perché i bambini come gli animali sono gli anelli più importanti di una catena del profitto capitalistico che, con la complicità dei media, sta divorando oggigiorno soprattutto l’universo infantile» (in spettacoliecultura.ilmessaggero.it)
[2] Sgobbo, Baldini & Castoldi, 2002, Premio Campiello, Selezione Giuria dei Letterati, è il secondo romanzo di Calaciura.
[3] La figlia perduta. La favola dello slum, Bompiani, Milano 2005.
[4] op. cit. Riguardo al tema dell’immigrazione, in un’intervista alla pubblicazione on-line d’ispirazione cristiana Aleteia, Calaciura confessa: «Mi stupisce come pochi autori in Italia abbiano attraversato il tema delle migrazioni non solo come scelta morale ma letteraria, considerato che si tratta di un tema dai contenuti fortemente drammatici»
[5] Insignito, nel luglio del 2017, del premio intitolato al cantastorie selinuntino Pino Veneziano, si legge nella motivazione: «“Viaggiare  in direzione ostinata e contraria” richiede, oggi come ieri, tempra caratteriale forte, nitida pulizia morale, coerenza inossidabile. Giosuè Calaciura è stato sempre “disobbediente alle leggi del branco”: dalle prime esperienze nel giornalismo maturate in un quotidiano, L’Ora, “storico” per l’avversione al potere – mafioso, innanzitutto –, all’affermazione nella redazione di un programma radiofonico, Fahrenheit, unico per il coraggio di occuparsi di libri, merce destinata al rogo in una società omologata e declinante verso l’incultura; dal suo primo romanzo, Malacarne, all’ultimo, Borgo vecchio, proiettati in realtà di degrado ma trasudanti umanità variegate. Scrittore originalissimo in un panorama editoriale appiattito da logiche di mercato, Giosuè Calaciura, pur nella sua multiforme produzione, punta i riflettori sull’universo degli ultimi, cogliendone l’anima nelle sue molteplici sfaccettature, oscillante tra la luce e il buio, la disperazione e la speranza, senza nulla concedere a raffigurazioni di maniera. Il suo singolare timbro di scrittura – sospeso tra teatrale visionarietà, immaginazione onirica, crudo realismo – è ravvivato dalla pietas che anima le sue “creature” e i luoghi –talora incantati, altre volte prigionieri di malefici sortilegi – in cui si muovono. Lo sguardo rivolto a uomini e donne relegati ai margini del consorzio sociale e l’impegno pervicace per una resistenza umana in tempi pericolosamente inclini allo smarrimento dei valori più autentici accostano Giosuè Calaciura, per sensibilità e spirito controcorrente, a Pino Veneziano, testardo paladino, come lui, delle istanze degli ultimi».
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Antonino Cangemi, dirigente alla Regione Siciliana, ha pubblicato, per le edizioni della Regione, Semplificazione del linguaggio dei testi amministrativi (Palermo, 2007) e Mobbing: saperne di più per contrastarlo (Palermo, 2007); con Antonio La Spina, Comunicazione pubblica e burocrazia (Franco Angeli, Milano 2009); I soliloqui del passista (Zona, Arezzo 2009); Siculaspremuta (Dario Flaccovio, Palermo 2011); Beddamatri Palermo! (Di Girolamo, Trapani 2013); Il bacio delle formiche (Lieto Colle, Faloppio-Como 2014); D’amore in Sicilia. Storia d’amore nell’Isola delle isole (Dario Flaccovio, Palermo 2015). Collabora con i quotidiani «La Sicilia», «Sicilia Informazioni» e, saltuariamente, con «La Repubblica» (edizione di Palermo).

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