«Noi siamo come il narratore in terza persona di un romanzo. È lui che decide e racconta, ma nessuno può interpellarlo né mettere in dubbio quello che dice. Non ha nome e non è un personaggio, a differenza del narratore in prima persona; viene creduto e ci si fida di lui, quindi; si ignora perché sa quel che sa e perché omette quello che omette e perché tace quello che tace e come mai ha il potere di determinare il destino di tutte le sue creature, ma nonostante questo non lo si mette mai in discussione. È evidente che c’è, ma al tempo stesso non esiste, o viceversa, è evidente che esiste, ma al tempo stesso è introvabile». J. Marias – Berta Isla, 2017
Da sempre, almeno da E. B. Tylor in poi, il compito cui ambisce l’antropologo culturale è quello di comprendere e rappresentare una cultura, sia essa intesa come un tutto monolitico (I Nuer di Evans Pritchard; The Balinese Character di M. Mead, per intenderci), sia essa intesa come una pratica simbolica che si inscrive e rimanda ad un contesto più grande (Naven di G. Bateson), sia essa intesa come una sineddoche, laddove un personaggio (in genere l’informatore) assurge a simbolo di tutta la sua cultura. A volerla intendere così, insomma, l’opera antropologica ha sempre preteso di tendere verso la comprensione del senso e del sentire di un popolo, per restituirne un’interpretazione intelligibile. Su questa scia, dato che il periodo coloniale non ha arriso alle aspirazioni imperiali italiche, l’antropologia nostrana si è difatti orientata a piantare la tenda in prossimità delle classi subalterne, concentrandosi (in modo ad un tempo positivo e romantico) sul sentire e l’immaginare del volgo, contrapposto alla cultura alta (e implicitamente più evoluta) delle classi egemoniche.
Il punto di contatto che unisce la pretesa cognitiva degli antropologi colonialisti e di quelli gramsciani è, di fondo, un fastidioso paternalismo: comprendere gli altri meglio di quanto gli altri comprendano se stessi e, per ciò stesso, avere il diritto di darne una rappresentazione. Per buona parte della storia dell’antropologia, per gran parte degli antropologi e per la maggioranza dei non addetti ai lavori sembrerebbe valere l’assioma (assolutamente non dimostrato, né, temo, dimostrabile) che il lavoro dell’antropologo, la sua etnografia, consista nel mettere per iscritto (valendosi oggi sempre più dei sistemi digitali audiovisuali) una cultura, una mentalità, un modo di essere e pensare, ovvero il sentire profondo di un popolo: il suo etnos, insomma.
Tuttavia, dato che fra gli specialisti non vi è mai stato accordo su cosa debba intendersi col termine cultura, lo stesso sembrerebbe valere per la categoria popolo. Così come non esiste un monolite astorico ed astratto di cultura, se non come semplificazione reificante di una diversità e di una complessità che non si riescono ad intendere e che, proprio per questo, vengono ridotte e costrette in schemi e contenitori politici ed epistemici semplicistici (le pratiche culturali, infatti, non a caso sono pratiche e pertanto soggette a variabilità, storicità, soggettività, trasformazioni, ecc.), lo stesso avviene quando si parla di sentimenti popolari e popoli: è l’annoso problema, fra teoria della narrazione e discorso politico, che si interseca e implode nel collante fra la prima ed il secondo, la retorica.
Chi ha il diritto di parlare? Chi ha il diritto di definire? Di chi è la voce narrante? Quale storia ci vuole raccontare? Quali effetti cerca di ottenere? Quanta luce può fare sulla realtà, e di conseguenza quali ombre crea? In fondo, come sanno tutti i fotografi ed i pittori, nessun ritratto è possibile senza ombre.
Col suo essere ufficialmente oggettivo e scientifico, il discorso antropologico si è da sempre prestato, coscientemente o meno non importa, a giocare un ruolo politico col suo costante discorrere e narrare – voce onnisciente (strutturalismo o materialismo culturale) o narratore intradiegetico (ermeneuta geertziano) – per rassicurare: il logos, come dicevano i greci, doma sempre il kaos rendendolo kosmos, nulla sfugge alla ragione opportunamente educata dall’accademia e, per quanto selvaggio possa essere, ogni pensiero e ogni sentire possono essere addomesticati e resi logici.
Non importa che si tratti di popoli lontani, di comunità primitive o di classi subalterne, la narrazione antropologica ha sempre trovato il filo e l’antropologo, novello Teseo, è sempre tornato da Arianna. Poco importa, al discorso politico, che noi addetti ai lavori sappiamo che le cose non stanno e non sono mai state così, e che certe generalizzazioni, come le metafore, le sineddochi, le metonimie in poesia, non siano altro che licenze poetiche, stratagemmi per cercare di dire quello che, in sé, non potrebbe essere detto o tradotto.
Quando si esce dall’astrattismo teorico per entrare nell’arena della pratica, infatti, il discorso politico ci appare per quel che è: un insieme di atti culturali e perlocutivi che qualcuno, che mira a blandire e persuadere, performa e, per questo (per convincere e agire nella sua funzione più meramente conativa) non scende mai completamente al fondo problematico delle questioni, preferendo cavalcarle come sa ogni surfista che non vuole soccombere alle onde.
Ultimamente, anche a seguito della comunicazione social, del gossip dei talk-show, e di parte della stampa, il discorso politico si è ridotto all’osso, dal ragionamento si è passati agli slogan e da questi agli hashtag, la performance teatrale del politico che, dal palco, arringava il suo popolo convenuto in piazza, rischia di tramontare a favore del politico che, col cellulare, parla a se stesso di sé, mentre mangia, beve o ripropone gag adolescenziali.
È in questo contesto, una vera e propria era dell’egemonia sottoculturale, che dobbiamo leggere ed interrogarci circa il concetto di popolo, e capire che, oggi, il compito di noi addetti ai lavori è simile a quello del filamento nelle vecchia lampadine di tungsteno: per fare luce, dobbiamo fare resistenza.
Anzitutto, dovremmo chiederci se ha senso, oggi, parlare di popolo o nazione? Così come dovremmo riflettere circa le categorie di classe sociale: sono ancora fattuali o stanno scivolando nell’anacronismo? Infine, ultimo ma non certo per importanza, dobbiamo interrogarci seriamente sull’efficacia del nostro discorso, ovvero su chi ne sono, realmente, i fruitori e fino a che punto esso funzioni, e se siamo in grado, laddove qualcosa filtri nel senso comune, di comunicare le nostre istanze, o se, al contrario, esse vengano usate per significare e supportare in modo fallace ciò che noi non avevamo intenzione di dire, suffragare e argomentare.
Come spesso accade, nel senso comune filtrano dei concetti che, nella pratica del discorso quotidiano, perdono la loro efficacia e la loro densità semantica specifica, fino a divenire confusi e dannosi, soprattutto quando utilizzati con approssimazione e in modo inopportuno, branditi come mazze e bastoni. Per meglio intenderci, un coltello, un seghetto ed un bisturi, in fondo, hanno degli elementi comuni, un filo tagliente, ma nessun chirurgo, in una sala operatoria adeguata, penserebbe di sezionare i tessuti con una lama da bistecca, e ciascuno di noi, se nel ristorante gli portassero un seghetto per mangiare un filetto rimarrebbe, quantomeno, perplesso.
Lo stesso, mutatis mutandis, dovrebbe valere per termini e concetti che, sempre più spesso, sono usati a sproposito per fomentare divisioni ed implementare consensi e che, amplificati dai media e dai social, producono effetti distorcenti e socialmente pericolosi. I Padri costituenti, consci dell’importanza delle parole, hanno centellinato l’uso dei termini popolo e nazione, e di fatto essi ricorrono un numero limitato di volte in pochi articoli. Tuttavia, la parsimonia di quegli uomini e quelle donne, deve oggi fare i conti con l’uso, per non dire l’abuso, che la retorica politica fa di Popolo e Nazione, incentivando un imbarbarimento di fondo del discorso sociale e del dibattito pubblico, ridotto a reificazioni affastellate e semplificazioni acritiche ed astoriche.
Nella nostra Costituzione, il termine Popolo, appare in quattro articoli, mentre quello di Nazione tre, una volta ciascuno nei primi dodici articoli:
Articolo 1. L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.
Art. 9. La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica [33, 34]. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.
Rimandando alla Costituzione per gli articoli 98, 71, 101, 102 (che regolano l’iniziativa delle leggi popolari; l’amministrazione della giustizia e il ruolo indipendente della magistratura; ed il servizio esclusivo alla Nazione degli impiegati pubblici) è interessante ribadire e riportare il testo dell’Articolo 67: Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato.
Gli articoli citati, sono importanti perché affermano che la sovranità appartiene al popolo, che la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione, e che ogni individuo eletto a rappresentante in Parlamento rappresenta la Nazione e non singole istanze. Tutto semplice e perfetto, se non fosse che, ad oggi, è difficile dire con precisione e certezza cosa dobbiamo realmente intendere quando diciamo popolo e nazione. Esistono un popolo ed una nazione italiani?
In questo senso, è significativo, ad esempio, che nel Dizionario di Antropologia curato da Fabietti e Remotti le voci Popolo e Nazione non trovino alcun riscontro e che solo il concetto di nazionalismo trovi spazio. Di fatto, il nazionalismo si trova a cavallo, intersecandoli in modo variamente e parzialmente sovrapponibile, quelli di Stato e popolo. Per nazionalismo si intende «l’esaltazione dell’idea di nazione e di quanto ne è espressione. Fondato su una teoria della legittimazione politica, esige che i confini culturali ed etnici non siano violati da quelli politici. Si tende a considerare come condizione necessaria per l’emergenza del nazionalismo l’esistenza di realtà statuali politicamente centralizzate, fondate sull’esistenza di una cultura comune e sull’istruzione universale, in luogo di una precedente complessa struttura di gruppi e subculture locali (Gellner 1983) [1]. Secondo Anderson [2], il nazionalismo trasse forza decisiva dalla progressiva diffusione della tecnologia a stampa, che portò, da una certa epoca in avanti, a una sorta di «testualizzazione della cultura» e inaugurò la possibilità di «immaginare» comunità che, nella loro morfologia di base, prepararono la nazione moderna. Per Anderson come per Gellner, infatti, il nazionalismo non è il risveglio e l’affermazione di mitiche unità che si vogliono date e naturali. Al contrario, è un artefatto culturale, la cristallizzazione di nuove unità che usano selettivamente le eredità storiche e culturali tradizionali preesistenti, inventandone di nuove. In questo senso, l’ideologia nazionalista risente di una falsa coscienza, sostenendo di difendere un’antica cultura popolare, mentre di fatto ne inventa una nuova, omogeneizzante e omologante» [3].
I concetti chiave di questa definizione sono, a mio avviso, artefatto culturale e falsa coscienza, entrambi legati alla pratica immaginativa che cerca di definire i rapporti di una protoelité culturale in fieri – coloro che cercano di affermare una nuova narrazione culturale e, pertanto, di definire una nuova comunità offrendole una storia condivisa e condivisibile, più o meno credibile come ogni autopoiesi – con la storia, il territorio, le pratiche culturali e politiche di una o più comunità precedenti, per ridefinire i rapporti di forza all’interno della comunità medesima e in relazione a quelle limitrofe ed alle loro narrazioni. Se, ai fini del presente articolo, la definizione di falsa coscienza è autoevidente e sufficientemente chiarita da Remotti e Fabietti e non necessita, qui, di un ulteriore approfondimento, ritengo, invece, che, se accettiamo che il nazionalismo sia un artefatto culturale, lo siano anche i concetti di popolo e nazione. Pertanto, ritengo interessante provare a ricostruire, in senso archeologico, la storia e l’evoluzione di questi due concetti, sia per meglio delinearne i limiti dell’attuale, talvolta troppo disinvolto, utilizzo, sia perché, molto spesso, capita di usare questi termini con la convinzione, propria del senso comune e dell’ovvio, che il rapporto tra essi, il loro significato e la loro referenza estensionale sia chiaro, laddove non lo è per nulla. In fondo, chi di noi, se non si sofferma a rifletterci un attimo, non è (almeno superficialmente) convinto di sapere cosa significhino e a cosa si riferiscano le parole popolo e nazione?
A livello etimologico, la parola popolo rimanda alla radice indoeuropea par- o pal- che esprime il concetto di riunire, mettere insieme. Anche il greco antico ha assorbito questa radice che ritroviamo, ad esempio, nella parola πλῆθος (plethos), ovvero folla, pletora. Interessante sottolineare che nell’antico tedesco, (la p si mutò in f), abbiamo voll ‘pieno’ evolutosi poi in volk ‘popolo’. Insomma l’etimologia di popolo sembrerebbe ricondurci all’idea essenziale di un insieme di individui riuniti insieme sotto vari aspetti (territorio, lingua, leggi, religione, tradizioni, usi, costumi, territorio, etc.)
Secondo il Dizionario Filosofico della Treccani, i diversi significati assunti oggi dalla nozione popolo possono essere ricondotti a due accezioni principali. Nella prima, più decisamente tecnica, essa rimanda alla totalità delle persone unite da un vincolo di tipo giuridico-politico (il populus romanus, o quello italiano a partire dal 1861), storico-culturale (il popolo italiano prima del 1861, ad esempio), etnico-geografico (il popolo sardo o quello siciliano) o religioso (in riferimento ai fedeli, il popolo appunto, di una religione). Nella seconda, più vaga, con il termine popolo si intende quella parte della società contraddistinta dall’assenza o dalla relativa scarsità di potere e di ricchezza, e come tale il popolo si distingue dalle élites politiche e sociali e spesso, sul piano politico, si contrappone a esse, dotandosi di propri ‘partiti’ o servendosi, là dove previsto dall’ordinamento, di specifiche istituzioni rappresentative (come nella Roma repubblicana o nei Comuni italiani del 13° sec.). Tali accezioni, si sono caricate di giudizi di valore positivi o negativi soprattutto a partire dalla Rivoluzione francese e dal movimento Romantico, ingenerando potenti suggestioni emotive che ancora riverberano la loro onda.
Volendo ripercorrere l’evoluzione del concetto, oltre a quella del termine, possiamo spingerci indietro fino alla cultura greca dove al termine δῆμος erano collegati diversi significati. Esso poteva indicare l’insieme dei liberi coltivatori e allevatori, l’intera comunità in armi (Omero) o l’insieme dei governati, distinti dai governanti e contrapposti a essi. Nella democrazia periclea δῆμος è la generalità dei cittadini (liberi e padri di famiglia) che governano la polis tramite l’assemblea. Per Aristotele la democrazia non è il governo del popolo, bensì il governo dei poveri, e per tale ragione rientra nelle forme degenerate di governo, quelle in cui non vi è equilibrio tra i vari elementi della πόλις e in cui i governanti non perseguono l’interesse generale. In entrambi i casi, il termine δῆμος non è più onnicomprensivo di tutti gli abitanti della πόλις, ma di una parte esclusiva di essi. Allo stesso modo, nella Roma delle origini populus designava l’insieme di coloro che non erano ottimati (populus plebesque), mentre in età repubblicana indicava la totalità dei cives romani. Secondo Cicerone, infatti, la res publica coincide con la res populi, con l’avvertenza, però, che «non è popolo ogni agglomerato di uomini riunito in un modo qualsiasi, bensì una riunione di gente associata che ha per fondamento l’osservanza della giustizia e la comunanza degli interessi» (De re publica, I: 25). Emerge qui una definizione giuridico-politica che non include alcun elemento di tipo culturale, etnico o territoriale. Infatti, per esprimere questi due ultimi elementi i Romani usavano il termine natio, nel quale era presente una sfumatura di significato corrispondente all’odierno ‘nativi’. Pertanto, quando i Romani volevano indicare una comunità civile di livello superiore, paragonabile alla loro, non usavano natio ma populus.
Nell’alto Medioevo Isidoro di Siviglia (VI-VII sec.) dà la seguente definizione: «Populus est humanae multitudinis, juris consensu et concordi comunione sociatus. Populus autem eo distat a plebibus, quod populus universi cives sunt, connumeratis senioribus civitatis. Populus ergo tota civitas est; vulgus vero plebs est» [4]. Questa definizione di Isidoro, da un lato, riecheggia quella ciceroniana (perché anche Isidoro vede nel popolo una comunità legata da vincoli giuridici e di concordia politica); dall’altro lato, essa riprende la distinzione tra popolo e plebe contenuta nelle Istituzioni di Giustiniano, nelle quali il primo era costituito dalla intera comunità dei cittadini, mentre la seconda era composta dalla sua componente medio-bassa, cioè dal popolo senza gli ottimati. Una svolta importante nella storia del concetto è quella realizzata da Manegoldo di Lautenbach alla fine del sec. XI, che abbozza l’idea di un vero e proprio pactum tra il popolo e il re che lo deve proteggere. Il ruolo e i poteri di un re, egli dice, superano ogni altro potere terreno, sicché uomini cattivi non possono esercitarli. Il popolo, pertanto, non innalza sopra di sé un re («neque enim populus ideo eum super se exaltat») perché egli faccia il tiranno, ma perché lo protegga dalla ingiustizia e dalla tirannia. Questa idea si rafforza nel basso Medioevo. Secondo Tommaso d’Aquino il populus è «multitudo hominum sub aliquo ordine sociatus» [5] (Summa theologiae, I, q. 31), proposizione che ribadisce ancora una volta l’idea del diritto come fondamento del popolo. Del resto Tommaso, assertore della superiorità della forma monarchica, considera un bene che «tutti partecipino in qualche modo al governo»: il principato migliore, scriveva, è «un principato di tutti», sia «perché tutti possono essere eletti, sia perché sono eletti da tutti». Tolomeo da Lucca, portando a termine il De regimine principum di Tommaso, sostiene che quanti hanno coraggio e intelligenza «non possono non essere governati se non con un regime politico», ossia con un regime in cui le cariche siano elettive. Questa linea di pensiero culminerà in Marsilio da Padova, per il quale la legge è il frutto della volontà del legislatore e questi coincide con l’universitas civium seu populus: «il legislatore, ovverosia la prima e l’effettiva causa efficiente della legge, è il popolo o il complesso dei cittadini, oppure la parte prevalente di essi, che comanda e decide per sua scelta o per suo volere, in un’assemblea generale» (Defensor pacis, 1522, I: 12).
La parola popolo ricorre molte volte negli scritti di Machiavelli, il quale afferma che il popolo, insieme ai «grandi», è uno dei «dua umori diversi» che si trovano in ogni città e dalla cui combinazione scaturisce la forma di governo: «il populo desidera non essere comandato ne’ oppresso da’ grandi, e li grandi desiderano comandare e opprimere il populo; e da questi dua appetiti diversi nasce nella città uno de’ tre effetti, o principato o libertà o licenzia» (Il Principe, 1532, IX: 1). Secondo Machiavelli, l’appoggio popolare è decisivo ai fini della stabilità politica:
«colui che viene al principato con lo aiuto de’ grandi, si mantiene con più difficoltà che quello che diventa con lo aiuto del populo, perché si trova principe con di molti intorno che li paiano essere sua equali, e per questo non li può né comandare né maneggiare a suo modo. Ma colui che arriva al principato con il favore popolare, vi si trova solo, e ha intorno o nessuno o pochissimi che non sieno parati a obbedire. Oltre a questo, non si può con onestà satisfare a’ grandi e senza iniuria d’altri, ma si bene al populo: perché quello del populo è più onesto fine che quello de’ grandi, volendo questi opprimere, e quello non essere oppresso» (ivi, IX: 2-3).
Un rilievo assai maggiore ha il popolo nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (1531), ed è stato sostenuto che in essi (almeno nel I libro) il popolo è il protagonista della vita profonda dello Stato. Alcuni decenni dopo la morte di Machiavelli esplodono in buona parte d’Europa le guerre di religione, che determinano un modo nuovo di guardare al popolo: il quale viene concepito come «popolo di Dio», ossia come la comunità dei credenti, alla quale Dio ha affidato la sua legge, e che ne è custode anche di fronte ai sovrani. In un famoso testo di incerta attribuzione, Vindiciae contra tyrannos, si legge che «le città non consistono in un mucchio di pietre, ma in quello che chiamiamo popolo», il vero «proprietario» dello Stato, intendendo con ciò non l’intera popolazione, «quella bestia da un milione di teste», bensì i magistrati intermedi (cioè i notabili). Qui viene espressa una concezione che vede il popolo costituito soltanto quando è strutturato in comunità (vicus, pagus, oppidum), rette da autorità cui egli ha dato il consenso e che sono funzionalmente in grado di salvaguardarlo e condurlo. Anche per Grozio (De jure belli ac pacis, 1625) era impensabile un popolo senza summum imperium, sicché il popolo è un corpo artificiale che, a somiglianza di quello naturale, ha bisogno di uno ‘spirito vitale’ (l’autorità) che lo muova. Hobbes, a sua volta, distingue nettamente tra moltitudine e popolo. Egli rifiuta la teoria del doppio patto presente nella precedente tradizione contrattualistica, secondo la quale una moltitudo di individui, attraverso il pactum societatis, si unisce in un populus, e quest’ultimo, attraverso un pactum subjectionis con il sovrano, dà vita alla civitas, ossia allo Stato.
Per Hobbes prima che sorga lo Stato non esiste il popolo come persona e quindi come soggetto di diritti, ma soltanto una moltitudine dispersa e irrimediabilmente conflittuale, e solo dopo la stipula del patto, avendo tutti i singoli alienati i loro diritti al sovrano, il vero popolo è (coincide e si sottomette a) il sovrano. Sarà solo con Rousseau che il popolo giungerà a costituire la grande realtà della politica. Per il filosofo ginevrino, infatti, ciò che non è popolo rappresenta un’entità così modesta che non vale la pena di tenerne conto. Gli uomini sono nati liberi ed uguali: e l’unica forma di associazione politica che può conservare tali caratteristiche è quella fondata su un patto in cui ogni individuo cede tutti i propri diritti «a tutta la comunità». Da un simile patto scaturirà un corpo morale e collettivo, una persona pubblica, i cui componenti prenderanno collettivamente il nome di popolo e saranno, al tempo stesso, sovrani (in quanto legislatori) e sudditi (in quanto sottoposti alle leggi), a prescindere dalle istituzioni con le quali il popolo si governi, e dalle classi sociali in cui si articola.
Se Rousseau declinava l’idea di popolo in termini essenzialmente politici, Herder la declinò in termini esclusivamente culturali: ogni popolo è una grande individualità storico-culturale, con la sua anima profonda che trova espressione nel linguaggio, nella religione e nel folclore. Ne consegue che ogni popolo deve rimanere fedele a questa sua identità, tanto più ricca quanto meno è regolamentata dallo Stato, quanto meno è logorata dalla civilizzazione. Da questo momento in avanti, l’idea di popolo iniziò a intrudersi con quella di nazione, di cui seguirà la divaricazione fra l’accezione politica di ispirazione democratica (la linea Mazzini-Renan) e quella identitaria di ispirazione nazionalistica (la linea Fichte-Treitschke). Nell’elaborazione dell’idea di popolo durante il XIX secolo un posto particolare spetta a Hegel. Per un verso, a lui si deve la concezione della storia del mondo come una successione di «spiriti dei popoli» (Volksgeister). In ogni epoca, per Hegel, vi è un popolo che incarna il principio più alto raggiunto sino a quel momento dalla storia universale: di qui il diritto di tale popolo a essere considerato dominante (concezione che influirà sulle correnti nazionalistico-imperialistiche e razziali). Il popolo, però, fa tutt’uno con lo Stato, e solo all’interno delle sue cerchie organizzate (classi, corporazioni) esso trova la propria realtà sostanziale. Il popolo preso a sé, senza lo Stato (cioè senza le istituzioni politiche e l’organizzazione giuridico-amministrativa) rappresenta per Hegel la «parte che non sa quel che vuole. Sapere che cosa si vuole, e, ancor più, che cosa vuole la volontà che è in sé e per sé, la ragione, è il frutto di una conoscenza e di una penetrazione più profonda che, appunto, non è affare del popolo» (Lineamenti di filosofia del diritto, 1821, § 301). Con ciò Hegel rifiuta radicalmente la concezione democratico-liberale di popolo.
Per Marx, invece, occorreva distinguere tra le diverse classi del popolo, il quale non è dunque un’entità omogenea, ma profondamente differenziata. L’unica classe omogenea all’interno del popolo, e che ha il futuro per sé, è la classe operaia, costituita da coloro che lavorano nella manifattura moderna, e che prima o poi (con la scomparsa delle classi intermedie) costituirà la grande maggioranza del popolo, conquisterà il potere politico e costruirà una società comunista.
Se molti dei significati originari e originali di popolo si sono persi, altri sono rimasti, come dire, incrostati nell’artefatto culturale contemporaneo, contribuendo a rendere sfuggente sia il significato che il referente del termine popolo attuale. Anche il termine nazione [6] ricorre fin dall’antichità con molteplici accezioni. Nell’antica Roma, natio indicò, in generale, un gruppo di persone legate da nascita o discendenza comune, e soleva designare popolazioni, tribù o stirpi legate da vincoli di origine, di sangue o di lingua, senza che ciò implicasse un significato di appartenenza a comunità in senso politico. Anzi, come abbiamo visto, il termine ricorreva in opposizione a populus e civitas, proprio per indicare gruppi di individui privi di istituzioni comuni e collocati a un livello di civiltà inferiore a quello del populus romano. In epoca medievale e rinascimentale-umanistica il termine fece riferimento, di preferenza e salvo eccezioni, a una dimensione regionale o cittadina, di corporazione, di ceto sociale.
La nazione in senso moderno assume una specifica e necessaria accezione politica, entrando direttamente in relazione, sebbene in maniera non univoca, con l’idea di Stato. Sull’iniziale determinazione semantica operata dalla cultura settecentesca (Vico, Voltaire, Herder) si innestò la concezione, divenuta operativa nella Rivoluzione francese, che identificava la nazione con un’entità collettiva, dotata di autocoscienza politica e contrapposta al monarca o ai ceti privilegiati in quanto titolare della sovranità e unica fonte di legittimazione dello Stato. Il giacobinismo, in particolare, pose un nesso inscindibile tra popolo e nazione, eliminando ogni realtà intermedia. Queste idee furono esportate con le guerre napoleoniche e la sua rivoluzionaria liberazione nazionale imperiale.
Il travaglio intellettuale dell’età romantica (Fichte, M.me de Staël, Manzoni, e Mazzini) – contrassegnato da una ridefinizione dei caratteri costitutivi della nazione, tra i quali venne attribuito un ruolo preminente al fattore linguistico – si collegò in modo più organico con la coeva cultura politica, d’impronta liberale, democratica e anche conservatrice, e alimentò ideologicamente i cosiddetti movimenti nazionali. Si profilò allora, specie in area germanica, la distinzione tra un’accezione di nazione prevalentemente culturale (Kulturnation) e un’accezione prevalentemente politico-statale (Staatsnation).
Il principio di nazionalità, per il quale ogni nazione dovrebbe essere organizzata in uno Stato politico indipendente, costituì l’idea centrale del XIX secolo. La proliferazione, durante il 1800 e il 1900 di nuovi Stati su base nazionale (e la consacrazione della nazionalità come principio costitutivo degli Stati, riflessa anche nella denominazione di Società delle Nazioni del 1919) fu accompagnata da ulteriori e contrastanti sviluppi dell’idea di nazione. Per contrasto, infatti, l’avvenuta saldatura ideale e pratica tra nazione e Stato fu peraltro ragione primaria dell’emergere e della diffusione dei nazionalismi, e dei nazifascismi.
Il nazionalismo, inteso come tendenza politico-culturale o movimento politico mirante ad affermare il prestigio e la superiorità della propria nazione sul piano internazionale, iniziò a configurarsi come ideologia della politica di potenza da parte di uno Stato negli anni ‘70 del XIX secolo. Con la seconda rivoluzione industriale, l’ingresso delle masse nella vita economica implicò la ricerca di una strategia di governo che condusse alla piena identificazione tra nazione e Stato, con il fine di realizzare una solidarietà nazionale che superasse le divisioni di classe. Sul piano internazionale il nazionalismo fu alla radice della competizione tra le nazioni europee e dello scontro imperialistico tra le grandi potenze. All’inizio del ‘900 sorsero movimenti nazionalisti (per es. l’Action française, la Lega pangermanica, l’Associazione nazionalista italiana) volti a contrastare i regimi democratici e a disinnescare i conflitti sociali (e la minaccia socialista). Teso a esaltare l’identità nazionale e la politica di potenza, contribuì in modo decisivo allo scoppio della Prima guerra mondiale.
In Italia il nazionalismo fu una delle componenti essenziali del fascismo e diede luogo all’esaltazione dello Stato; in Germania, invece, si legò al concetto di razza e alimentò, in questa veste, l’ideologia nazista. Con la fine della seconda guerra mondiale e la nascita dell’ONU, questi tipi di nazionalismi caddero in discredito. La versione del nazionalismo fondata sull’autodeterminazione dei popoli continuò invece ad avere un ruolo storico, alimentando i movimenti di liberazione dal colonialismo nei Paesi del Terzo Mondo. Infine, con la caduta del regime sovietico, forme di nazionalismo fortemente identitario hanno finito per prender piede nei Paesi ex comunisti.
A livello teorico, uno dei punti più critici e controversi del dibattito sulla nazione concerne il processo di costruzione e i successivi sviluppi dello Stato nazionale, o Stato-Nazione, come modello ideal-tipico, o dei singoli Stati nazionali considerati nella specificità della loro storia particolare. Gli approcci storicistici all’argomento (von Ranke, Meinecke, Croce) si erano attestati su un’interpretazione finalistica di tale processo come era stata enucleata dai movimenti nazionali ottocenteschi: nel senso di considerare la nazione come una costante storica permanente e preesistente allo Stato nazionale. In seguito ci si interrogò con maggiore insistenza sul ruolo esercitato dallo Stato, e in genere dalle istituzioni pubbliche, nel ‘produrre’ la nazione, sino a invertire, per certi aspetti, l’ordine logico e storico dello stesso processo, ovvero non era la nazione a produrre lo Stato, ma lo Stato a creare una nazione.
In primo luogo, si è posto in maggior rilievo come le cosiddette monarchie nazionali, cioè i grandi Stati territoriali d’ancien régime, abbiano creato nell’Occidente europeo (Francia, Spagna, Inghilterra) le condizioni preliminari di unificazione – giuridica, militare, linguistica, economica, amministrativa – da cui è derivato il senso dell’identità nazionale dei loro sudditi.
In secondo luogo, si è osservato come la costruzione delle rispettive nazioni si sia posta più come un obiettivo che come un dato acquisito per gli Stati nazionali, specie se di recente formazione, in rapporto alla relativa esiguità dei gruppi sociali effettivamente partecipi di un sentire e di una cultura nazionali. In questo senso è entrata nel lessico storiografico l’espressione nazionalizzazione delle masse (Gramsci), con la quale si è inteso definire il processo di integrazione nazionale, operata mediante un largo ricorso a elementi simbolici, da parte delle élite politiche nei riguardi dei ceti popolari. Si è così attribuita la genesi della nazione moderna all’esigenza, propria dei sistemi economici industriali, di agire in spazi geografici e umani più ampi e omogenei (i cosiddetti mercati nazionali), scorgendo nella nazione il prodotto assai recente dell’incontro fra un messaggio ideologico e gli interessi di élite economico-sociali che in condizioni non nazionali avrebbero stentato a emergere. Viceversa, hanno trovato spazio le analisi che potremmo definire neoetniche, individuanti comunque all’origine della nazione il prevalere di un nucleo etnico, via via ridisegnato, manipolato e reso più complesso da successivi e variabili apporti, come ad esempio nella strategia politico-narrativa perseguita dalla Lega Nord nella sua mitopoietica razza Padana, o nel tentativo di narrazione archeostorica che Giovanni Lilliu cercò di perseguire con il suo romantico concetto di Costante resistenziale sarda, proiettato all’indietro nel tempo per dare fondamento scientifico all’idea di nazione sarda dotata di una sua, carsica, profondità storica.
Altri studi sulla nazione si sono focalizzati sulle due questioni – peraltro già ampiamente dibattute nel passato – del rapporto tra élite nazionali e masse popolari e del nesso d’integrazione tra nazione e democrazia. È stato osservato come il risveglio delle nazioni dell’Est – e la conseguente spinta alla creazione di Stati nazionali – abbia seguito delle fasi relativamente costanti in un’area caratterizzata da una forte mescolanza etnica, e dalla presenza di élite intellettuali e sociali allogene, insediate nei centri urbani in posizione preminente. La scoperta e la rivalutazione di un patrimonio etnico conservato e tramandato dal mondo contadino, la formazione sul finire dell’Ottocento di un’élite nazionale abbastanza consistente in seguito all’avvio dello sviluppo economico, nonché la progressiva conquista delle città da parte di gruppi sociali provenienti dal retroterra agricolo, sono state individuate come le precondizioni del revival delle nazioni dell’Europa dell’Est, sempre accompagnato da conflitti di notevole intensità tra diverse entità etniche.
La questione è tornata d’attualità in relazione alla ripresa di spinte e fermenti nazionali su base etnica dopo una fase storica seguita alla Seconda guerra mondiale in cui l’idea di nazione sembrò aver perso o ridotto, in Europa, il suo ruolo di generatrice di identità politica, a vantaggio di sistemi ideologici e istituzionali tendenzialmente universalistici (democrazia liberale, comunismo) o comunque sovranazionali (europeismo). Nell’attuale congiuntura determinata dal dissolvimento dell’amalgama ideologico e dei sistemi di potere costituiti dal comunismo, dal ripresentarsi di spinte etno-nazionaliste e di conflitti interetnici, dall’afflusso di immigrati extraeuropei, stiamo assistendo ad una polarizzazione del dibattito in merito al concetto ed alla pratica di Nazione. Per un verso, vi è una regressione all’idea di purezza nazionale ed etnica, capace di riportare in auge idee e pratiche naziste, razzializzanti e fasciste. Per l’altro, facendo salvo il bisogno di identità e di lealtà collettive, vi sono quanti vogliono evitare di ripetere gli errori del passato recente, e cercano di usare il concetto di nazione in modo aperto e capace di scansare nuovi particolarismi esclusivi in perenne competizione tra loro. Nel primo caso, si cerca di saldare il concetto di dèmos e quello di èthnos, nel secondo si cerca di distinguere la nazione intesa come èthnos, definita cioè dall’appartenenza culturale, linguistica ecc., e la nazione intesa come dèmos, vale a dire identificata dalla sfera della cittadinanza e dei conseguenti diritti-doveri, e fondata sul principio di lealismo alla Costituzione democratica.
È facile però notare come i modi di mettere in rapporto le due accezioni risultino altamente controversi. Da un lato si colloca chi concepisce come sostanzialmente estranei, se non incompatibili, i sistemi di valore sottesi all’èthnos e quelli sottesi al dèmos, attribuendo al dèmos il compito di consentire l’abbandono di ogni riferimento politico ai contenuti etnici radicati nell’idea di Stato nazionale. Dall’altro, vi è chi ritiene che non possa considerarsi esaurita la funzione integratrice e produttrice di lealtà collettiva della nazione etnica. Tale dibattito coinvolge in maniera evidente le ipotesi di integrazione politica europea e il ruolo delle nazioni – per quanto ridefinite dal punto di vista concettuale – nella costruzione di un’entità federale di dimensioni continentali.
Nell’affrontare queste difficoltà, non potrà ormai sfuggirci il fatto che, nel senso comune attuale, continuiamo ad usare, per risolvere i problemi del mondo globalizzato contemporaneo, uno strumento concettuale che, a tutt’oggi, paga ancora un grosso debito con la Storia culturale ed intellettuale della Rivoluzione francese. Fu durante quel periodo infatti che vennero concepiti molti degli strumenti concettuali ancora in uso e che permisero di superare definitivamente, da un lato, la distinzione in ordini propria dell’antico regime, fondando un nuovo assetto politico, e, dall’altro, il dualismo tra sovranità del Monarca e sovranità popolare. L’idea di nazione della Rivoluzione francese si legava strettamente alle teorie politico-costituzionali di J-E. Sieyès, che identificava nazione e Terzo Stato, edificando così una nuova nozione di cittadinanza. Del pari, fu sempre lo stesso Sieyès, in virtù dell’affermazione che la nazione è l’unico soggetto sovrano, in quanto titolare del potere costituente, a promuovere la trasformazione degli Stati Generali in Assemblea nazionale costituente (Assemblea costituente), con il conseguente annullamento dei mandati imperativi conferiti ai delegati. È, infine, sempre Sieyès a teorizzare il legame tra la rappresentanza politica e la nazione: la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino francese del 1789 e la successiva Costituzione del 1791 sono l’attuazione di questa grande costruzione teorica, in cui la nazione, unico soggetto titolare della sovranità, delega l’esercizio del potere legislativo a un’assemblea monocamerale (Parlamento), il potere esecutivo al Re (in qualità di Capo dello Stato) e ai suoi Ministri, e il potere giudiziario a giudici elettivi.
Aver ripercorso, seppur brevemente, la storia di questi artefatti, dovrebbe renderci edotti dei rischi e dell’arbitrarietà (per non dire dell’anacronismo) con cui, oggi, questi termini migrino di bocca in bocca e che, nel migliore dei casi, chi li usa e li brandisce nel discorso politico, in particolar modo chi della politica fa una professione e, attraverso di essa, si prefigge di rappresentare e governare il popolo e, assurgendo ad una carica istituzionale, di fare gli interessi della nazione con dignità e onore, dovrebbe essere considerato dai cittadini-elettori alla stregua di un medico che volesse curarci la febbre con le sanguisughe, o di un chirurgo che volesse sedarci con il laudano coadiuvato da un colpo di clava.
Dialoghi Mediterranei, n. 42, marzo 2020
Note
[1] Gellner E., Nazione e nazionalismi, 1983, Editori Riuniti, Roma.
[2] Anderson B., Comunità immaginate, 1996, Manifesto Libri, Roma.
[3] F. Remotti e U. Fabietti, a cura di, Dizionario di Antropologia, Zanichelli, Bologna, 2006: 517.
[4]«P o p o l o non è ogni unione d’uomini aggregati casualmente, ma l’unione d’una moltitudine legata in società nel consentire in un diritto e nella comunanza di un’utilità. Popolo allora non significa plebe, poiché l’intera comunità dei cittadini è compresa dal popolo, inclusi i cittadini di grado più elevato. Dunque il popolo comprende tutti i cittadini, mentre il volgo comprende solo la plebe».
[5] «Moltitudine di uomini associati sotto un qualsivoglia ordine giuridico».
[6] Cfr. Nazione in Enciclopedia Treccani.
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Marcello Carlotti, antropologo culturale i cui interessi scientifici riguardano le origini del linguaggio, le neuroscienze, e più ampiamente le scienze cognitive e la filosofia della mente. Dal 2010 ha iniziato a condurre ricerche attraverso la documentazione video e fotografica. Ha realizzato, tra l’altro, un lavoro di antropologia visuale sul Madagascar. Si batte perché il titolo di antropologo sia riconosciuto sotto il profilo professionale.
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