di Roberto Settembre
Affrontando il tema come fosse una piccola riflessione si deve riconoscere che sarebbe un modo riduttivo di affrontare una questione nata da un fatto o da una serie di fatti. Tuttavia, poiché nessun fatto è ontologicamente semplice, assunto che non ha bisogno di scomodare Kant sulla conoscenza del mondo, la riduzione della riflessione nei confini di una percezione ridotta della questione in esame non ne comporta necessariamente il suo svilimento, bensì la focalizzazione del punto di vista su un dato di realtà. Ne consegue che la piccola riflessione o è frutto di un abbaglio, o consente di illuminare uno dei lati oscuri del fatto di cui si parla.
Ciò detto, poiché di questi tempi oscuri la radicalizzazione del conflitto tra liberalismo e illiberalismo, tra cosiddetto mondo libero, che davvero libero non è, tanto da offrire il fianco a critiche sacrosante, e mondo tirannico, o, per dirla con una locuzione cara a molti, tra l’Occidente e il Sud globale, quando le posizioni dell’uno appaiono all’altro del tutto irriducibili ad alcun compromesso, comporta l’erezione di mura concettuali invalicabili, che non significano però baluardi difensivi contro l’aggressione dell’avversario, bensì immani fortificazioni dalle quali far partire l’assalto per conquistare quelle nemiche, si impone uno spunto riflessivo su una possibilità di soluzione.
Pertanto il pensiero attraversa la realtà contingente della politica belligerante per approdare a una visione olistica dell’unico mondo nel quale vivono gli uni e gli altri, che non necessariamente dev’essere condannato alla mutua distruzione.
Allora la piccola riflessione prende in esame un dato della realtà fenomenologica della vita sulla Terra, intesa come meccanismo composito capace di funzionare grazie all’interazione necessaria di tutti i suoi elementi, dai virus ai batteri, dagli insetti, zanzare comprese, ai rettili più velenosi e innocui, alle meduse, ai pesci, serpenti di mare compresi, i molluschi, i crostacei, dagli uccelli ai mammiferi, agli anfibi compresi i più velenosi, e all’immane universo vegetale che ci attornia, per giungere agli esseri umani presi in tutte le loro declinazioni che le variegate famiglie del Sapiens mostrano anche in tutta la loro ferocia.
Detto questo, e riducendo come si è premesso la riflessione a un unico punto, si prenda in esame la convivenza tra gli umani e gli orsi, atteso che ben conosciamo il pensiero molteplice degli umani sulla questione, ma ignoriamo del tutto cosa ne pensino gli orsi, e per quanti sforzi uno faccia, non sarà mai in grado di conoscerlo per la barriera cognitiva che separa le due specie.
Certo, una soluzione potrebbe passare attraverso la totale eliminazione della popolazione degli ursidi, quando si crede che mettano a rischio quella umana; un po’ come si è fatto con la disinfestazione delle paludi Pontine. Ma, a parte una minoranza umana, non infima purtroppo, di individui e di gruppi privi di plasticità cognitiva e capaci di “ragionare” (sic!) solo come vedono gli affetti da acromatopsia o daltonici totali (chi scrive ha sentito con le sue orecchie persone non rozzamente incolte sostenere la necessità di sterminare orsi, lupi e cinghiali eradicandoli dalle nostre montagne per garantirsi vacanze tranquille), la maggior parte delle persone dotate di media intelligenza critica capisce e sostiene che la biodiversità è necessaria e non esclude queste popolazioni selvatiche, non avendo alcun senso confinarla ai lombrichi e ai passeracei, purché non troppo numerosi. Da lì si può cogliere il nesso logico che solo facendo proprio questo assunto sia possibile affrontare la questione della convivenza tra noi e loro. E questo per quanto attiene a tutti gli esseri viventi, virus compresi, molti dei quali rendono servizi indispensabili alla sussistenza della nostra stessa vita.
Ne consegue l’evidenza che questa considerazione parte dalla constatazione che nessuno dei soggetti ritenuti antagonisti alla specie umana ne abbia formulata una alternativa: non lo ha fatto ovviamente attraverso un linguaggio conoscibile dagli esseri umani, ma, in un certo qual senso, lo ha fatto in concreto, consentendo un equilibrio autoreplicante della vita sul pianeta.
Con ciò non si vuole affermare che la vita sul pianeta si perpetui nella pace del Paradiso Terrestre; tuttavia, se ci si pensa in modo un po’ meno trascendentale e un poco più trascendente, l’idea di un Paradiso Terrestre attiene concretamente a una sfera ideale non solo del desiderio, ma della comparazione. Cioè, se il Paradiso Terrestre è analogo a una situazione esistenziale che permette la convivenza tra specie diverse, sebbene non pacifica, ma non totalmente distruttiva, allo stesso modo la convivenza tra le diverse famiglie dell’homo sapiens dovrebbe passare attraverso un uso pragmatico dell’aggettivo che qualifica la nostra specie, un po’ più sapiens e meno demens. E poiché la nostra specie, almeno sul piano delle facoltà cognitive, si frammenta in famiglie, alcune delle quali sono del tutto impermeabili all’elaborazione concettuale della permanenza comune sul pianeta insieme con le altre, diventa indispensabile domandarsi quale strada sia percorribile, così come, non essendo possibile convincere un Grizzly femmina coi cuccioli che un essere umano intento a praticare il jogging non costituisce un pericolo da eliminarsi a ogni costo, non per questo bisogna ucciderlo coi suoi figli.
Tuttavia c’è una differenza fondamentale tra le due ipotesi: e cioè che, comunque, le diverse famiglie umane usano per comunicare tra loro gli stessi codici linguistici (non intendendosi è ovvio la stessa lingua), anche quando si minacciano e agiscono per sterminarsi reciprocamente, e questo sebbene l’identità dei codici linguistici non significhi affatto identità di interpretazione.
Sul concetto di famiglie umane, va detto, per inciso, che non s’intendono quelle ipotetiche basate sulle differenze del colore della pelle, o quelle di genere, o del DNA, o sulle etnie, parola ipocrita tipica di chi non osa pronunciare la parola razza, non perché priva di fondamento scientifico, ma per nascondere la propria struttura morale, come soggetti in concorrenza per il dominio del mondo, bensì per famiglie umane si vogliono intendere i gruppi le cui strutture mentali sono plasmate e dominate dai loro interessi, dall’appartenenza a credo religiosi, intessuti di ideologie politiche, di volontà di dominio o di distruzione, di quanti credono che solo l’eliminazione del nemico darà pace e sicurezza, o ricchezza, sia quel nemico un gruppo sociale, una supposta comunità razziale (sic!), una nazione avversa, una qualsiasi comunità ritenuta incompatibile con la propria.
Infatti si ritiene che, come l’uso dei medesimi codici linguistici è comune alle diverse famiglie degli ursidi, tra orsi neri, grigi, bianchi e via dicendo, i cui ruggiti vengono reciprocamente intesi, indipendentemente dall’esatto significato linguistico, allo stesso modo le diverse famiglie umane rivestono di significati anche incompatibili tra loro le parole del loro linguaggio, attribuendovi un senso, usato per trasmettere messaggi condivisi, ma interpretandole in modo diverso.
Così accade che parole come, ad esempio, “giusto e bene”, siano messe in relazione con le parole “pace, diritto, legalità, democrazia, verità”. Ma questo significa altresì, e può essere un vantaggio, sebbene costituisca spesso un ostacolo, poter trovare una tacita intesa su alcuni lemmi riconosciuti con identico valore, ancorché intesi programmaticamente in modo diverso. Si pensi alla parola “tregua”, alla parola “confini”, alla parola “accordo”, o alla parola “accordo” o “scambio”, alla parola “distruzione” o a quella “sopravvivenza”.
Deve infatti precisarsi che questa comunanza dei codici costituisca anche un ostacolo, essendo insufficiente a una comune interpretazione, poiché anche all’interno di ciascuna famiglia attecchiscono attribuzioni di significato talvolta opposte. Si pensi al concetto di “pace sociale”, a quello di “libertà imprenditoriale” o di “libertà” tout court, di “dignità del lavoro”, di “tutela dei diritti”, di “accoglienza”, di “migrante”, di “privacy”, di “diritto di difesa”, di “interesse nazionale”, di “ragion di Stato”, di “Giustizia” e di “Stato di diritto”, di “devianza”, di “genere”, per giungere infine a un concetto divisivo come quello di “Civiltà occidentale”.
Tutto ciò ha due conseguenze capitali. La prima su quanto il giudizio di ciascuno ne sia condizionato, e la seconda su quanto questo condizionamento si riflette sulle scelte individuali o di gruppo che, nel mondo occidentale, costituiscono un formidabile motore, a medio o a lungo termine, che incide sul funzionamento dei meccanismi che governano le collettività fino a riverberarsi sugli equilibri sociopolitici e sulle scelte di politica internazionale.
Questo per quanto attiene al cosiddetto mondo libero, poiché di quell’altro, e su quanto vi si discuta e/o vi si dissenta con effetti destabilizzanti se ne sa ben poco, tanto quanto si conoscono le discussioni sui massimi sistemi intavolate nelle varie famiglie degli ursidi.
Tuttavia, se fosse possibile utilizzare un codice linguistico identico per tutte le famiglie umane sulla cui base concordare almeno sul significato di alcune parole, tipo tregua, confini, scambio, sopravvivenza, rispetto, e ci si potesse accordare per essi su un’identica modalità di azione, così come funzionano alcuni gesti e alcuni suoni per trasmettere un messaggio non conflittuale a un orso col quale si venga a contatto ravvicinato per scongiurarne l’assalto, forse la specie umana potrebbe capire e attrezzarsi a convivere sul pianeta senza apparecchiarne la distruzione, così come nella giungla nessuna specie vuole l’estinzione delle altre, ma tutte sembrano biologicamente consapevoli della necessaria e ineludibile reciproca permanenza in vita.
Se pare così difficile ipotizzare sul punto una conferenza mondiale, come all’Onu, a tema fisso, partendo dal principio che gli esseri umani non possono fare a meno di convivere su questo pianeta inteso come una sorta di Purgatorio Terrestre, è altrettanto facile capire quanto è necessario trovare una modalità di convivenza anche non del tutto pacifica, ma almeno non totalmente esiziale. E ogni persona, di media intelligenza, che non sia affetta da imbecillità cronica, non può ragionevolmente dissentire.
Invero diventa curioso constatare, non solo come questa imbecillità sia viceversa diffusa, ma soprattutto rilevare come, per dirla con una formula tipica della psichiatria forense, sia caratterizzata da una totale assenza di coscienza di malattia, ai cui effetti si farà cenno più avanti, anche perché un ostacolo quasi insormontabile si erge contro questa prospettiva, e cioè la globalizzazione che, come tale, contempla un mondo omogeneo. Ne consegue la necessità di ipotizzare una globalizzazione dimidiata, e quindi una diversa interpretazione del funzionamento del meccanismo planetario di cui facciamo parte.
Sostanzialmente si richiede un colpo di genio del pensiero che, in verità, offre da tempo le sue possibilità fattuali, e non si tratta di una deriva ideologica. Oppure ci si deve rassegnare a una lotta senza quartiere, pur con una serie di quartieri ben garantiti per una minoranza. Il che configura questo tipo di scelta come prodotta o da imbecillità congenita o da inclinazione criminale. Questo perché tale lotta senza quartiere non è una lotta destinata a capovolgere il meccanismo della globalizzazione planetaria, fruita e fruibile da tutti gli attori rilevanti del pianeta, nonostante le diverse forme con cui rivestono i loro interessi.
In definitiva si rileva come i principali attori terrestri, come gli USA, l’Europa, la Cina, la Russia, l’India, i Brics in genere sono soggetti attivi della globalizzazione i cui codici sono loro ben chiari, ciascuno alla ricerca della propria egemonia, all’interno di una concordia per lo più farlocca; ma l’egemonia non prevede concorrenti, altrimenti cessa di essere tale. Si tratta, se mai, di ripensare al concetto di egemonia, che forse dev’essere abbandonato come foriero di morte della pluralità e della facondia del pensiero umano, atteso che nella sua Storia, ogni volta che una famiglia umana ha conquistato l’egemonia, l’umanità è caduta in terribili baratri di oscurità dai quali è emersa quando la famiglia dominante ha perso il suo dominio. E il Novecento l’ha sciaguratamente dimostrato.
Allora, se la prosecuzione della vita sulla Terra è possibile solo riconoscendo l’intelligenza implicita della vita intesa come il funzionamento della complessità delle sue forme attraverso una relazione composita che le salvaguarda tutte, reciprocamente, il suo contrario non può essere visto altrimenti che come una forma di assoluta imbecillità.
Ne consegue, transitando da una visione olistica del pianeta a una più circoscritta sulle diverse famiglie umane, che solo riconoscendo la necessità ineludibile di una modalità di funzionamento della relazione, se ne può consentire la sopravvivenza (e questa può definirsi l’intelligenza minima indispensabile per non estinguersi). Ma la sopravvivenza di questa relazione passa necessariamente attraverso il riconoscimento delle diversità, anche quelle più radicali, nell’accettazione e nel rispetto di queste diversità, e nella difesa contro chi vuole sopraffare l’altro (l’altra famiglia umana, ad esempio) fino alla distruzione dell’avversario, mentre la difesa significa contenere l’aggressione, ma non distruggere l’aggressore. Questo come manifestazione di intelligenza minima.
Edificare nella propria testa meccanismi ideologici finalizzati alla distruzione di chi si ritiene il massimo nemico, è, analogamente a quanto accade alla vita sul pianeta, una forma di imbecillità massima. Tuttavia questo assunto, non solo è superficiale e non esaurisce la questione, ma ne apre un’altra molto più complessa che attiene alle funzioni del linguaggio e del giudizio, e alla propensione delle persone nel farsi interpreti di entrambe, e non necessariamente perché capaci mentalmente o imbecilli, ma a causa delle radicali diversità di inclinazioni verso il dualismo della libertà e della morale.
Questo però non può prescindere dall’affrontare la questione preliminare della funzione del linguaggio e su quale nesso unisca il linguaggio alle facoltà razionali. Ci si domanda cioè se esista una via di fuga del pensiero attraverso la quale salvare le conquiste del pensiero senza doverle esiliare negli spazi astratti delle illusioni/allucinazioni. Il che attiene strettamente alla domanda ulteriore se esista un legame tra linguaggio e giudizio, se sia ancora necessario indagare il significato dell’ente “linguaggio” e dell’ente “giudizio”, o se ci si debba rassegnare all’invalicabile aporia della democrazia.
Infatti il giudizio, anche quando si manifesta in linguaggio, sembrerebbe venir prima e condizionare il linguaggio che lo riflette, persino nelle sue ipocrisie (quelli che credono che basti non dire razza per non essere razzisti (e qui si apre il baratro delle implicazioni politiche, sociologiche e filosofiche della cancel culture), atteso che comunque nessun giudizio può venir formulato nel foro interiore se non attraverso le strutture sintattiche del linguaggio, e sempre che il linguaggio non serva solo a trasmettere il giudizio o una sua apparenza andando a infrangersi su un diverso giudizio non espresso linguisticamente.
A ogni buon conto, senza interrogarsi se sia nato prima l’uovo o la gallina, la domanda inevitabile, a questo punto, attiene alle facoltà razionali che presiedono alla formulazione del pensiero, ed è se tali facoltà siano trasmissibili attraverso il linguaggio come veicolo del loro risultato in modo tale da suscitare nell’interlocutore gli stimoli intellettivi a interrogarsi sulla giustezza o meno delle proprie convinzioni, o se sia del tutto inutile.
Ne consegue l’ulteriore domanda se ciò debba accadere sul piano razionale o su quello irrazionale. Infatti i comizi, le folle oceaniche che ascoltano il Papa o i vari Ayotallah o Putin e nel passato sappiamo purtroppo chi, erano permeabili al linguaggio razionale o a quello irrazionale? Ora si sostiene che il Capitalismo non ha più bisogno della democrazia (la Cina docet) come spazio della razionalità morale nata dell’invenzione dei diritti universali. Chi ha introiettato il messaggio marxista lo ha fatto su base razionale o perché sedotto dalla promessa del Paradiso in terra da conquistarsi attraverso la negazione dei diritti universali? Se la razionalità morale è coltivabile solo negli spazi intellettivi di un’élite allora a cosa serve comunicare il pensiero razionale sul terreno della politica?
Pensiamo alle pagine di Vita e destino di Vassily Grossman, che mostra quanto la spietatezza dell’ideologia penetri come una lama tagliente nella mente degli esseri umani. Allora, forse, dopo Kant che in pieno fervore illuminista concepì la sua critica del giudizio, e oggi, dopo Heidegger e Lenin, e 76 anni dopo la Dichiarazione universale dei diritti umani all’ONU e il ritorno della guerra come soluzione delle problematiche geopolitiche, mentre le capacità cognitive regrediscono riducendosi all’esaltazione degli schemi ideologici e degli emoticon, è probabilmente necessaria un’indagine per giungere a una teoria del giudizio che tenga conto di tutto questo e offra uno spunto di riflessione per l’azione ricostruttiva della capacità di pensiero, certo non compito di chi scrive, e sicuramente non in questa sede. Tuttavia gli spunti di riflessione non mancano, sol che si pensi ai patti sottoscritti coi tiranni africani da Minniti e da Gentiloni, o agli accordi di Von der Leyen con Erdogan sui migranti, ai decreti sicurezza di Conte, di Salvini, di Meloni, partendo dai lager africani per giungere a quelli italiani all’estero, passando per le tombe marine, al rifiuto di vederne le premesse nella rapacità occidentale e ora in quella orientale molto ben camuffata da fratellanza. In verità si può affermare che l’Occidente sia davanti a un bivio; anzi che di quel bivio abbia già imboccato un ramo verso la catastrofe, da quella climatica a quella geopolitica passando per quella del liberticidio neoliberale o più chiaramente al fascismo liberista, tragico ossimoro del nostro mondo che crede così di resistere ai progetti mostruosi del “nuovo ordine” invocato dalla sinistra estrema, e da Putin, Xi Jimping, Kamenei, Erdogan e amici vari.
Per questi motivi sarebbe utile proporre al lettore la trama esilissima di un esperimento mentale: avviare a più e diversi livelli di complessità una serie di percorsi cognitivi sui fatti storici dell’ultimo secolo da indagarsi con l’uso della ragione filtrati dall’etica costituzionale, rifiutando il bieco interesse personale o di gruppo o di casta, camuffato oscenamente da perfido pragmatismo. Tutto ciò significa che, non essendo possibile approfondire qui tali spunti, per l’enorme numero di oggetti da esaminare, si può comunque accennarvi, ritenendo utile questa forma di comunicazione come stimolo all’esercizio del pensiero. Stimolo che, dopo tutto, è connesso con tutte le forme della comunicazione linguistica, anche di quella più complessa, poiché non esistono fenomeni intellegibili che il linguaggio non possa esaminare, comprese le manifestazioni del pensiero proteiforme, estese ed elaborate come la stessa Bibbia, o i grandi poemi e le opere filosofiche più ardue.
Ciò significa che questi fenomeni linguistici costituirono e costituiscono formidabili stimoli e non vanno confusi con gli eventi linguistici che attingono la psiche in modo totalmente esaustivo, come le leggi razziali italiane e quelle naziste, o quelle dei vari apartheid. In verità, anche in questi casi, a dispetto di chi volle impedire il dibattito, o la semplice discussione sull’interpretazione del messaggio autoritativo e autoreferenziale, le pretese totalitarie di congelare il pensiero degli esseri umani, e si pensi, come già accennato sopra, alle derive della cancel culture (Andrew Doyle, Libertà di parola. Sul totalitarismo dei buoni, Ediz. Piano B) che hanno innescato immani occasioni di pensiero contrarie all’univocità della lettura del reale, il che corrisponde a una teoria ermeneutica preconfezionata, che sia ad esempio la problematicità identitaria del maschile, la dannazione del Capitalismo inteso come genitivo soggettivo guerrafondaio, colonialista, distruttore dell’ambiente, solo spietato neoliberista, o quella del fondamentalismo religioso, o la demonizzazione dell’immigrazione, o ancora, quella che riduce ogni conflitto a scontro di nazionalismi.
In realtà si tratta di esaminare le molteplicità delle ragioni che si annidano nel funzionamento dei meccanismi di attivazione dei sistemi cognitivi dei Sapiens, in modo analogo al funzionamento dei Nepomuk (Networked Environment for Personalized, Ontology-based Management of Unified Knowledge), cioè l’insieme di specifiche sofware open source relative allo sviluppo di un ambiente semantico sociale (social semantic desktop) utilizzati per arricchire ed interconnettere informazioni provenienti da differenti applicazioni attraverso metadati semantici memorizzati. (Programma sviluppato dal progetto omonimo con un costo di 17 milioni di euro di cui 11,5 finanziati dall’UE). Queste specifiche, che forniscono un livello di software in grado di assegnare ai file dei metadati che ne descrivano il contenuto, permettono una catalogazione non più legata alla struttura del file system, ma legata al significato che si dà a quel determinato file (sul punto vedasi DFKI Gmbh Management Department info&nepomuk.semanticdesktop.org)
Allora la trasposizione di tutto ciò sul piano dell’attivazione dei sistemi cognitivi causa tremendi brividi sociopolitici, poiché le conseguenze non sono più gestibili sul piano della ragione, i cui piani non sono sempre e necessariamente intercomunicanti, talché da una premessa farlocca discendono corollari tanto persuasivi quanto falsi. Infatti non esistono idee senza pensiero e non potendosi formulare alcun pensiero senza linguaggio per non rimanere nello stadio fumoso delle intuizioni fatte di emozioni, c’è fortemente da temere che l’incapacità di formulare il pensiero correttamente sul piano logico sintattico, come emerge dalla sconclusionata trasposizione linguistica dei concetti, riveli la ragione della presa su cervelli dei giovani delle abili manovre populistiche, come quella di Bekele in San Salvador che ha conquistato il potere col voto della maggioranza giovanile sedotta a suon di Twitter, e ora in USA con lo slogan trumpiano di “sangue e terra” ripreso dai nostri sovranisti che affondano la memoria nelle radici mai smentite della fiamma mussoliniana tanto coerente con l’ideologia della svastica.
Ne consegue che si cercherà di esaminare come sui piani della ragione funzioni il nesso delle funzioni cognitive e come e quanto gli impulsi esterni agiscano sulla relazione tra principi e valori da un lato, e interessi dall’altro. Ma prima di entrare nel merito di questa dicotomia, è necessario spendere alcune parole sul potere del linguaggio e di come questo incida sui nessi che legano la morale e la libertà, da un lato, e l’etica e la falsità dall’altro.
Infatti, premesso che la morale, intesa come la struttura mentale che governa le azioni sia il frutto del costume e non dei principi universali inscritti nella coscienza collettiva del sapiens, come insegna l’etologia umana e animale, si trasforma facilmente in un’ancella delle pulsioni mosse dall’istinto di libertà come strumento per la soddisfazione del piacere. Ciò senza dare al concetto di piacere alcuna valenza negativa. Ne consegue che introiettare una visione finalistica dell’agire umano non è solo faticoso, ma espone al rischio della perdita di alcune sicurezze che le famiglie contemporanee ritengono elementi irrinunciabili del quieto vivere, indotte così a rimuovere ogni ostacolo emotivo nella crescita personologica dei soggetti, che, indipendentemente dalla loro età, non si arresta mai.
Detto questo, però entra in gioco l’altro rapporto, quello dell’etica e della falsità, essendo la prima una declinazione del dover essere senza la quale saremmo (o siamo?) tutti destinati a trasformarci in orrendi mangiatori di cadaveri, ed essendo la seconda la forza trainante della Storia, dai miti di ogni religione alle falsità scientifiche come la cosmologia tolemaica, a quelle giuridiche come la donazione di Costantino, per non parlare delle follie ideologiche del XX secolo.
Infatti, per quanto Adorno avesse forse ragione (in senso assai relativo) dicendo che dopo Auschwitz non si potesse più scrivere poesia, il potere dei Media nel trasmettere e commentare le tragedie del nostro tempo dilata quel legame, poiché ogni tragedia ha una sorta di diritto di ingresso nella nostra anima, in quanto noi siamo posseduti dal significato di questa entità astratta, nel senso che l’idea di avere un’anima o una coscienza tramuta l’affettività nella morale attraverso la forza della conoscenza. Forza che dipende dal rapporto fra due concetti polisemici: il giusto e il bene, e la loro relazione col concetto di male, così come emerge in controluce dalle Costituzioni liberali, che non sono certo la guida dei Sovranisti per i quali gli assunti di interesse nazionale e di quanto accade nel mondo come sugli sviluppi dell’attuale guerra europea o della tragedia medio orientale, non possono e non devono venir ridotti a un gioco di sponda fra biglie da biliardo e il pallino al centro del gioco.
Anzi, poiché la conoscenza è attivata dal linguaggio e dalla riflessione, sia l’uno sia l’altra fanno correre dei rischi ai loro destinatari, poiché ci sono eventi che si pongono in modo distopico all’attenzione con cui la generalità li contempla, ne ricava emozioni, formula giudizi e incide sulla politica, ad esempio attraverso il potere dei sondaggi. E questo potere rivela l’interessante paradosso tra il potere dominante che interviene sulla libertà dei dominati interrogandoli e ne subisce il pensiero attribuendo ai risultati dei sondaggi il potere di riformulare la sua progettualità politica.
Quindi, tornando a prendere in considerazione il rapporto tra etica e falsità, e quello tra giusto e bene, dove per giusto si intende il dover essere espresso dai principi codificati nell’elaborazione codificata delle conquiste di civiltà giuridica successive alle macellazioni del diritto e degli esseri umani del XX secolo, e per bene ogni scelta utile a ridurre il dolore individuale e collettivo, questo rapporto incide in modo determinante sulla conoscenza dei fatti storici, soprattutto di quelli contemporanei, i cui effetti si riverberano sulla riflessione che, a differenza della mera conoscenza volta a raccogliere informazioni, cioè la pluralità dei significanti, induce a ragionare sui significati. E questa riflessione è l’unico modo per fare dei salti in avanti nel mondo della conoscenza.
Si prendano ad esempio le invasioni da parte dell’URSS e poi della Federazione Russa della Lituania, della Lettonia e dell’Estonia nei tempi immediatamente precedenti la Seconda guerra mondiale, all’invasione della Polonia nel 1939, alla riconquista della costa meridionale del Baltico nel 1944, all’invasione dell’Ungheria nel 1956, della Cecoslovacchia nel 1968, dell’Afganistan nel 1979, della Moldavia nel 1992 e della Cecenia nel 1994 e nel 1999, poi della Georgia nel 2008, dell’Ucraina nel 2014 e nel 2022, e per converso si pensi alle invasioni degli USA come quella di Grenada nel 1983, di Panama del 1989, del Kuwait e di Haiti nel 1991, nel 2001 dell’Afganistan e nel 2003 dell’Iraq, senza stare a elencare le decine e decine di interventi sotto copertura per determinare svolte politiche nei Paesi soggetti all’influenza americana, che per ragioni di brevità vengono omessi.
E si pensi a fenomeni mondiali come la cosiddetta decolonizzazione, e a come tanta complessità debba venir analizzata attraverso una molteplicità di criteri ermeneutici per cogliere i nessi tra le cause e gli effetti a loro volta causa di altri effetti, dove domina l’eterogenesi dei fini, ben lungi dall’essersi esaurita, partendo da Israele al Sudafrica, dalla Cina al Sudamerica, dai Paesi del Nordafrica all’Asia ex Unione Sovietica, per giungere all’attuale (e mica tanto attuale) progetto imperiale russo, alla Globalizzazione liberista come riflesso (o strumento?) dell’imperialismo economico occidentale.
Cioè a dire che le fonti attraverso le quali apprendiamo i fatti sui quali operare in modo interdisciplinare, sono la materia grezza che esiste prima della loro interpretazione, che è sempre avvenuta attraverso i codici linguistici mutati nel tempo, e questo modo è lo strumento necessario per vivificare i fatti ed evitarne lo svilimento nietschiano tipico di questo tempo superficiale e partigiano.
Detto questo, il filosofo Zizek (Slavoj Zizek, Libertà, una malattia incurabile, Ponte alle Grazie) spinge a domandarsi quante volte l’umanità è stata sul crinale e ha scelto (si pensi a partire dalla sofistica che si opponeva al platonismo o a Giuliano nella sua lotta al fanatismo integralista cristiano, ad esempio) e a quante volte questa scelta ha determinato il mondo in modo tale da far credere all’inevitabilità dell’accaduto. E quanti “se” sono stati pronunciati prima di fare quelle scelte che, a posteriori, si sono credute obbligate.
Eppure oggi, di fronte al tentativo, che sta riuscendo, di separare la storia della filosofia dalla storiografia privilegiando i fatti e respingendo la ricerca dei perché su un terreno diverso dallo spazio del pensiero, c’è da temere che si stiano facendo precipitare le menti in una sorta di determinismo apocalittico. In verità esiste un nesso strettissimo tra filosofia e storia, che non significa, come sostiene Popper, difendere in modo apodittico le tesi dello storicismo, poiché il nesso tra la filosofia e la storia non è necessariamente lo storicismo. Anzi, difendere questo nesso significa affermarne un valore autonomo che mira a escludere l’imperativo storicistico (Karl Popper, Miseria dello storicismo, Feltrinelli)
E sul punto si ritiene utile suggerire la lettura de I miei demoni (Ed. Meltemi) del filosofo Edgar Morin, ormai centotreenne, che, continuando a scrivere sul tema, (si veda il suo “Metodo”) ha ben dimostrato gli effetti deleteri dell’imperativo storicistico sulla sua vita dedicata all’impegno sociopolitico, dove il nesso fra principi e valori, da un lato, e interessi, ha plasmato la sua esistenza e determinato le sue svolte ideali.
Allora è necessario spendere alcune parole sul significato dell’indagine storiografica e su quel che era diventata l’Europa tra il 45 e il 57. Si pensi ad esempio al progetto del decollo del Continente africano, vessato e torturato dal colonialismo per un secolo, come un luogo e un mondo del tutto estraneo alle spaventose contorsioni europee della prima metà del 900 e della mostruosità culturale politica e geopolitica europea di quei tempi terribili, talché ancora oggi destinare risorse allo sviluppo africano è questione controversa e ambigua, così come demonizzarla è fuorviante e pericoloso. E soprattutto oggi che l’Africa sta diventando una inquietante protagonista della storia contemporanea, insieme con altri soggetti uno più terribile dell’altro.
In definitiva, la riflessione indotta da quanto accadde in Africa dopo la predazione dei molti milioni di schiavi (fatto che non esaurì le sue nefaste conseguenze in quelle epoche, ma che impoverì in modo micidiale anche geneticamente le generazioni sopravvissute, private dei migliori catturati dagli schiavisti), dopo le imprese coloniali che tanto fanno pensare ai conquistadores spagnoli in sud America, dopo le varie modalità di esercitare il dominio coloniale, a partire dal 1945 e soprattutto dopo l’indipendenza algerina, dopo la fine del mandato italiano in Somalia, dopo il Mozambico, il Kenia (la rivolta dei Mau Mau contro il colonialismo inglese docet), solo per citare alcuni dei Paesi interessati, interrogarsi sul progetto europeo di contribuire allo sviluppo di quel continente significa comprenderne il significato senza la semplificazione del “buttiamolo via”. Ma non solo, la domanda su Mattei che cercava rapporti diretti coi Paesi africani mira a distinguere tra l’azione di Mattei come mera volpe colonialista, o qualcosa di molto più complesso e non esecrabile.
E per queste ragioni la riflessione profonda sui significati dell’indagine storiografica serve anche per cercare di comprendere se sia più esecrabile esternalizzare le frontiere europee, delegando i campi di concentramento e gli stermini ai tagliagole africani, o condannare a morte in mare o confinare i migranti ai luoghi di sopraffazione nostrani, o accoglierli in Europa mentre si dispongono le risorse usate per impedirne l’arrivo allo sviluppo del continente africano.
Allora è ancor più indispensabile domandarsi cosa si deve fare con l’Africa oggi. Se lasciarla al suo destino oppure prendere in esame quante più possibili sfaccettature della complessità storiografica e dei riflessi sulla geopolitica attuale e sulle dinamiche delle relazioni internazionali viste nelle dimensioni dei trattati e del diritto internazionale, che non è necessariamente un trucco retorico del più forte, tanto che fin troppo spesso il più forte lo viola.
D’altronde non si può negare che l’Europa si sia macchiata di terribili misfatti in danno dei Paesi e dei popoli africani. Si pensi alla guerra d’ Algeria, alla depredazione e all’avvelenamento ambientale del delta del Niger ad opera dell’Italia e della Francia. Sul punto non c’è dubbio alcuno. Così come l’Europa è estranea culturalmente, etnicamente, religiosamente e ora sempre di più anche politicamente alla maggior parte dei Paesi africani. Per non parlare dell’economia, mentre Russia Turchia e Cina e i Brics stanno prendendo il posto degli europei. E forse anche sul piano morale l’espulsione dell’Europa dall’Africa ha un senso nella memoria collettiva dei popoli africani. Eppure l’immigrazione africana non si dirige prevalentemente verso i nuovi salvatori del Continente, né verso la Turchia né verso la Cina né verso la Russia.
Per questi motivi l’indagine storiografica seria ha bisogno di punti fermi fra ciò che è accaduto, ciò che non è accaduto e sui perché delle due cose. Ma soprattutto va contestualizzata e analizzata anche sul piano filosofico della ricerca dei significati. Il che attiene anche, per quanto riguarda noi europei, consapevoli della nostra storia, agli eventi che ci toccano più da vicino. Si prenda ad esempio il progetto dell’unione paneuropea del filosofo politico Richard Coudenhove Kalergi (che non ha niente a che vedere con la fesseria metapolitica leghista del cosiddetto piano Kalergi sulla sostituzione etnica buona solo per gli imbecilli o le persone in mala fede) del 1923, poco più di una bizzarria se messo a confronto cogli eventi di quei tempi, ma il progetto federale europeo rientra in altre visioni sociopolitiche e geostrategiche la cui lettura sfugge a una mera elencazione di fatti.
Se a ciò di aggiunge il vero e proprio terrore delle élite europee agli inizi della guerra fredda consapevoli di vedere l’Europa come terreno di scontro atomico fra Urss e Usa (si immagini solo l’effetto deterrente delle mine nucleari terrestri americane ADM e quelle sviluppate nel Regno Unito dal progetto Blue Peacock, con le quali sarebbe stato disseminato il territorio pianeggiante tedesco della Germania federale per renderla radioattiva e impedire l’ingresso delle forze nemiche, quindi destinata all’Olocausto in caso di guerra), allora vedere in quel progetto un mero desiderio imperialistico di estendere la Nato alle regioni dell’est europeo va visto con occhi diversi da quelli di chi ne ha una visione dominata dal cosiddetto pensiero unico, che, viceversa, attraverso un uso strumentale del linguaggio agisce sugli strumenti cognitivi dei destinatari.
Ne consegue che compito della storiografia e della filosofia è quello di analizzare i fatti e di contestualizzarli invece di affastellarli come tutti uguali nella lettura che ne dà il pensiero unico. E, per converso, si devono respingere le parole di sconforto sui diritti umani sostenendone con maggior forza la valenza. Altrimenti finiremmo per cedere alla filosofia politica di Carl Schmitt. Quindi: altro che storicismo!
E allora, ripensando a Erdogan, a Kim il Sung, a Xi Jinping, a Modi, a Khamenei, allo scappato Assad e al simpaticone che lo ha sostituito, campione della Jihad islamica, a Putin, ad Hamas, a Netanyahu, a Trump, e ai tanti fieri avversari dell’ONU, della Ue, di Biden, della CPI, della Dichiarazione universale dei diritti umani definita la trappola cognitiva per giustificare l’imperialismo USA, sorge una domanda da rivolgersi a tanti fieri avversari dei valori dell’Occidente, così tanto da volere en passant la scomparsa di Israele e l’assorbimento dell’Ucraina nella Russia e la conquista di Taiwan da parte della Cina (d’altronde sono molti gli appartenenti al cosiddetta classe colta, dai docenti ai liberi professionisti, che si proclamano fieri stalinisti che giustificano come bazzecola gli stermini staliniani), chiedendo loro se sarebbero felici della ricostituzione dell’impero russo magari esteso fino a Lisbona. O della scomparsa dei musulmani dall’India, o dell’estensione della dominazione cinese sui Paesi orientali, compresa l’annessione di Taiwan, o della ricostituzione dell’impero ottomano, o di un dominio sciita o radicalmente sunnita sul residuo del mondo islamico e magari di un dominio pure sui resti in frantumi della Ue sfuggiti al dominio russo. E, per converso, pure ai soloni che propugnano, nel caso, l’uso delle bombe nucleari contro il nemico orientale, garberebbe la scomparsa delle istituzioni internazionali e del diritto internazionale. Costoro sarebbero felici di un trionfo mondiale della legge della giungla?
E ancora, tornando a parlare dei fatti di casa nostra Europa, è necessario domandarsi quali significati ricavare dagli esiti elettorali in Olanda, nei Land orientali tedeschi, in Francia, dalle decisioni politiche ungheresi cercando quale sia il fil rouge che lega questi fatti con quelli analoghi (non uguali ovviamente per le differenze microscopiche tra gli eventi) a quello argentino e a quello degli USA, dove hanno prevalso personaggi che hanno convinto la maggioranza relativa dell’elettorato sulla verità delle loro argomentazioni. Inoltre questa convinzione ha edificato nella mente dei destinatari delle vere e proprie credenze, la cui radice etimologica è indoeuropea, dove la parola “credere”, “Kred”, significa “forza magica”. Infatti non esistono argomentazioni razionali idonee a scalfirla. D’altronde ne sapeva qualcosa l’autore del motto “Credere, obbedire e…”.
Ne consegue allora che il vero problema verte intorno alla persuasività dell’argomentazione e agli strumenti necessari per decodificarla. Ora, come e perché ciò sia accaduto è stato dibattuto sulla stampa. Ma come tutto questo si rifletta sui piani interessati dal presente lavoro si ritiene che attenga al significato della tremenda interpretazione del mondo incarnata dagli individui citati essendo insufficiente e sterile vederli sic et sempliciter come duci o ducetti della destra estrema. Piuttosto c’è da chiedersi come questo tipo di idee sia tanto suggestivo da scardinare il legame con gli orrori che vi si accompagnano, e da domandarsi se vi sia e se sia praticabile una strada che conduca fuori dal pantano ideologico chi ci sguazza con gran compiacimento.
E detto questo, premesso che si è già accennato alle molteplicità di ragioni che si annidano nel funzionamento dei meccanismi di attivazione dei sistemi cognitivi dei Sapiens, resta da indagare, come vedremo più avanti, se tutto ciò abbia a che vedere col rapporto che lega i principi e i valori all’interesse personale, e ci si può ulteriormente chiedere se tutto ciò abbia a che vedere anche col rapporto tra “Ragione, verità e storia”, su cui argomenta il filosofo Hilary Putnam nel libro omonimo quando indaga sulla funzione della poesia, a cui non sono estranee queste pagine sul diritto di ingresso degli eventi storici nelle nostre anime. Infatti il filosofo dice che noi
«amiamo la poesia perché ci fa vivere grandi esperienze e ha come conseguenze l’arricchimento dell’immaginazione e della sensibilità, mediante l’ampliamento del nostro repertorio di immagini e di metafore. E questo accade attraverso l’integrazione delle immagini poetiche e delle metafore con le percezioni e gli atteggiamenti mondani, che si ha nel caso di opere poetiche che sono vissute in noi per un gran numero di anni»
Ebbene, il fenomeno che tanto preoccupa chi scrive, dipende dalla presa sulle opinioni dei disinformati, e di chi si tratta davvero. A tali domande queste pagine cercheranno di dare una risposta indagando appunto il legame che unisce i principi e i valori all’interesse personale, atteso che le idee, le ideologie, le religioni, le singole personalità non sono affatto irrilevanti come cause della Storia, come sostiene tra “Ragione, verità e storia, ma agiscono a vario titolo sugli individui e sulle masse.
Dopo tutto sia la RSI sia il III Reich sia l’impero giapponese sia Stalin prima e dopo la guerra mondiale, e in modi diversi ma sostanzialmente coerenti il fondamentalismo islamico iraniano e quello sunnita, le ideologie dell’attuale dirigenza cinese, nei proclami sulla politica interna e su quella internazionale, come pure la Russia da quando Mr Putin ha rovesciato il tavolo una quindicina di anni fa (ma aveva già cominciato quando aveva fatto sparare in testa ad Anna Politkovskaja e a un centinaio di suoi colleghi) hanno combattuto e combattono contro l’ipocrisia dei cosiddetti valori occidentali e le malefatte dell’imperialismo americano. In fondo celebrare la RSI significa solo riconoscerle i meriti che gli occidentalisti vincitori della guerra hanno respinto come disvalori.
Detto questo, per attribuire a questo discorso univocità di senso, deve offrirsi al lettore una ulteriore riflessione per giungere al termine di questo lavoro senza incorrere in gravi salti logici. Si deve quindi rilevare come nessun evento storico, cioè nessun cambiamento nel rapporto tra le forze dominanti, gli spazi del consenso, le entità collettive dissenzienti, nonché lo sviluppo di ogni relazione conflittuale, cioè il conflitto tout court, anche quando circoscritto a imposizioni normative imposte dal potere politico e penalizzanti le collettività dissenzienti e, per converso, nessuna azione di contrasto posta in essere da queste forze antagoniste a quelle dominanti, prescinda da una modifica del pensiero, inteso come acquisizione di principi e di valori più o meno subordinati o coincidenti con gli interessi, tale da spingere ciascun soggetto all’azione. Si intendono qui il soggetto e i soggetti nei quali il rapporto tra l’elaborazione delle idee e l’azione concreta era sopito.
Da cosa e come questo risveglio dell’azione sia determinato discende dalle sensibilità individuali ben prima della loro connessione con la sensibilità collettiva. Ma è l’abilità del manipolatore del consenso a ridurre drasticamente lo iato fra pensiero individuale e pensiero collettivo, e quanto più potente è la forza che tende ad azzerare questo spazio, tanto più rapida e dirompente si fa l’azione delle collettività che si aggregano in masse. Accade qualcosa di simile alla formazione dei conglomerati fisici quando le singole particelle vengono mosse da forze esterne e spinte a costituire masse sempre più grandi e omogenee.
In conseguenza il conglomerato rende indistinguibili le singole particelle che lo compongono, così come il singolo individuo perde la propria capacità di analisi critica e la possibilità di esercitarla quando diventa parte del tutto. La massa è sempre nemica della pluralità.
Su tale premessa, analizzando l’humus di cui si nutre il pensiero, dev’essere preso in esame il rapporto tra principi e valori, da un lato, e interessi dall’altro, assumendo per i primi la definizione di Norberto Bobbio, per cui i principi sono i punti fondanti degli ideali, e i valori ne sono gli obiettivi da perseguire con l’azione, entrambi sempre e comunque soggetti all’indagine critica e mai posti in modo apodittico. Viceversa gli interessi, individuali o di gruppo o di classe, che emergono in modo assai evidente e clamoroso nelle manifestazioni del pensiero identitario, possono porsi in contrasto coi principi e coi valori inscritti nei patti fondativi delle comunità di appartenenza, o esserne il fuoco che li nutre.
Da ciò si ricavano alcuni corollari coi quali spiegare cosa muova o determini l’ignavia politica o l’impegno degli individui, e le posizioni intermedie, talché si ritiene di distinguere almeno sette diverse soggettività mosse ciascuna dalle loro peculiari categorie di pensiero. In primo luogo si tratta di soggetti che non conoscono né i principi né i valori, mentre sono guidati dall’interesse, talché agiscono o non agiscono politicamente a seconda del tornaconto intravvisto fra l’azione e la non azione, tanto più attivamente quanto meno inseriti in una confort zone individuale, e il cui legame con la collettività di appartenenza è meramente strumentale.
In secondo luogo vediamo individui che conoscono i principi ma, in assenza di valori, agiscono come quelli testé descritti, mossi dall’interesse. Per queste persone i principi sono un mero bagaglio di conoscenza non dissimile dalle nozioni acquisite in età scolastica, ma totalmente estranee alle dinamiche e alle ragioni della vita vissuta. Il mondo, per questi soggetti, è il luogo nel quale agire per il perseguimento dei propri obiettivi, o lottando o delegando ad altri la lotta, quando questi altri esprimono obiettivi compatibili coi loro. Ne consegue ignavia o indifferenza camuffate da critica negativa o da saltuaria manifestazione di intenti, purché ciò non costituisca un pericolo, o una lesione o solo un disturbo dei loro interessi. Come si dice: non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Per non parlare di chi chiude gli occhi infastidito dallo spettacolo offertogli dalla realtà.
In terzo luogo ci sono gli individui che conoscono i principi e conoscono i valori, ma non li hanno introiettati, cioè non ne hanno fatto materia di riflessione e di interiorizzazione nello spazio della coscienza. Per costoro l’interesse è comunque l’ago della bussola esistenziale, pur debolmente orientata dalla conoscenza dei principi e dei valori. Per queste persone l’azione politica non è un’opzione, ma solo un oggetto di osservazione, giudicato sulla scorta dei principi e dei valori conosciuti, cioè attraverso la griglia cognitiva edificata su di essi. Ne consegue che il loro orientamento politico dipende da questa conoscenza, ma è un orientamento fragile, poiché non dipende da un’operazione cognitiva di indagine, bensì dalla corrispondenza tra il nucleo composto dai principi e dai valori conosciuti e l’interesse contingente, che coincide o col proprio ombelico (salute, danaro, relazioni personali e collocazione sociale, clan familistico) o con un’idea indotta dalla seduzione altrui. E vedremo in cosa consista quest’opera di seduzione e quali effetti ha. Si tratta, per lo più, di persone la cui posizione sociale è sostanzialmente stabile, ma non del tutto sicura, mentre la loro relazione con la collettività è puramente astratta e talvolta occasionale, essendo il loro concreto modus vivendi calibrato sul soddisfacimento dei loro interessi.
In quarto luogo si tratta di individui che hanno interiorizzato i principi e i valori. Per questi i principi costituiscono un nucleo forte sul quale basare sia i propri convincimenti, sia il proprio orientamento politico, ma poiché i valori, cioè i fini a cui tende l’azione di chi agisce per la loro attuazione, comporterebbero una modifica del loro modus vivendi, e soprattutto una perdita delle energie destinate al soddisfacimento dei loro interessi, i principi di cui non disconoscono l’importanza, vengono subordinati agli interessi, e connotati di una forte relatività. L’orientamento politico di costoro è oscillante tra l’adesione a chi agisce in nome di quei principi condivisi, e il rifiuto di tale adesione quando l’azione politica mossa per l’attuazione di quei valori comporta, a loro giudizio, uno spreco di energie e/o di risorse, o si discosta per qualsivoglia motivo dai loro interessi, massimamente quando ritengono che vengano messi in pericolo. Questa adesione respinta a malincuore, allora, consiste in una sorta di triste indifferenza da archiviarsi in nome delle esigenze superiori della vita concreta, la loro.
In quinto luogo ci sono le persone che hanno introiettato sia i principi sia i valori. Per tali soggetti il contrasto di questi coi loro interessi si trasforma in una sorta di disagio morale che li spinge a cercare un bilanciamento tra i principi e i valori da un lato, e gli interessi dall’altro, spesso più astratti che concreti. In questo caso, comunque, se i primi sono interiorizzati davvero, non possono soccombere di fronte agli interessi che devono perdere il loro primato, e che per questo motivo non possono trasformarsi in valori contrastanti coi principi e i valori introiettati nello spazio della coscienza. Si tratta infatti della percezione morale dell’esigenza di far prevalere l’etica sull’egoismo, nella sua accezione che la vuole diversa dalla morale comune spesso coincidente con quello. Ne consegue che l’orientamento politico di queste persone non è radicale ma relativo, dove il bilanciamento tra i principi e i valori da un lato e gli interessi dall’altro trova una risposta nella morale inscritta nel patto fondativo della comunità di appartenenza, nell’attenzione a come e a quanto questa morale trovi riscontro nelle riflessioni, nelle scelte e nelle decisioni politiche.
In sesta posizione si trovano le persone che per far coincidere i principi e i valori con gli interessi propri, trasformano i principi e i valori negli interessi che muovono la loro esistenza, e lo fanno in modo tale da identificare i loro interessi come principi e valori. Sono persone pericolose, spesso dominate dal fanatismo o da atteggiamenti paranoidi, e sciaguratamente capaci di trascinare i destinatari delle loro visioni trasformandole in seguaci, poiché la trasformazione degli interessi in principi e valori ne camuffa la natura ammantandola del colore della morale: è la stessa morale intrisa di opportunismo politico, capace di capovolgere i principi dell’etica, in grado di spingere le persone a commettere i più atroci delitti in nome di valori più alti. I grandi criminali politici ne sono i campioni.
In settima posizione si trovano le persone che fanno coincidere i propri interessi con i principi e i valori intrinseci alla morale del patto fondativo della comunità di appartenenza, e che pertanto affrontano la vita come rinuncia al proprio tornaconto, il cui orientamento politico è lo scopo della loro vita, a partire da chi ha fatto della politica militante il fulcro dell’azione e del pensiero, fra i quali, in tempi bui, si contano gli eroi e i grandi criminali, per giungere a chi, pur mero portatore d’acqua delle grandi personalità o delle organizzazioni politiche fautrici di obiettivi altissimi, trova in queste forme di abnegazione le ragioni stesse della sua vita.
Ebbene, gli orientamenti politici di entrambi questi soggetti non sono stabili, ma fluttuano attraverso il giudizio estremizzante con il quale costoro prendono in esame l’universo nel quale hanno deciso di trasferirsi, e dipendono dal livello culturale, dalla capacità di astrazione cognitiva e dal loro rapporto con l’etica.
Questo perché, sia quando gli interessi del proprio ombelico diventano la terra concimata da cui far lievitare i principi e i valori necessari alla giustificazione delle proprie condotte, che siano ad esempio la distruzione dell’ambiente, l’evasione fiscale, la persecuzione dei diversi, o il soddisfacimento di ogni genere di pulsioni, o la guerra, o il dominio economico, o quello religioso, o quello politico, o siano viceversa gli obiettivi al cui raggiungimento vengono piegati i tempi e gli snodi dell’esistenza, sotto la guida o l’influsso di un’ autorità riconosciuta, il soggetto agente viene indotto a una frequente verifica della coerenza della propria condotta con quei principi e quei valori, necessariamente condivisi dal gruppo di appartenenza., mossi da un ideale o, più frequentemente, da un’ideologia.
Questo discorso, tuttavia, che dovrebbe indurre il lettore a formulare un pensiero di autoriconoscimento emotivo in una o più delle categorie esaminate, non può prescindere da una riflessione sulle ipotesi del cosiddetto cambio di casacca, che avviene o per mero opportunismo, o per ragioni più complesse, che attengono all’elaborazione mentale degli accadimenti. Non si tratta però di un’operazione occasionale o contingente, come parrebbe sembrare a un’osservazione superficiale, sì, forse indotta talvolta da un coup de theatre, o da un processo profondo più o meno subdolo della coscienza, ma di un vero e proprio rivolgimento delle categorie di giudizio.
Ebbene, questa elaborazione dipende dal rapporto di ciascuno con il tempo presente nel quale ciascuno è immerso, ma, citando mai a sproposito forse la più grande pensatrice politica del XX secolo, Hanna Arendt, poiché non possiamo conoscere il presente senza aver chiaro il passato di cui è intessuto il presente, è sul concetto di passato che dobbiamo far calare la nostra attenzione (Hanna Arendt, Tra passato e futuro, Garzanti).
Allora il passato, sebbene sembri coincidere con la messe degli avvenimenti di un tempo finito, intesi non solo come le vicende umane materiali e interpersonali, ma come i fatti giuridici e quelli politici, religiosi, bellici, architettonici, di modifica del territorio, agricoli, venatori, esplorativi, migratori, e gli eventi naturali, ma pure con le vicende mentali raccolte attraverso la scrittura o la tradizione orale e, oggi, l’informatica, è viceversa qualcosa di attuale, che può venir ridotto a una mera sovrapposizione di strati di memoria.
Invero il passato è un’entità presente: è un frutto, perché nasce da radici distinte e separate da questo, pur ineludibili. Infatti gli esseri umani contengono una prima memoria, serbatoio della stratificazione degli eventi conclusi nel tempo, e immagazzinati dalla mente, cioè dalla mappa cognitiva che li cataloga, sì in modo più o meno cronologico, ma eseguendo una rigorosa selezione e riducendone sia il numero sia l’estensione, talché gli eventi percepiti non coincidono se non in minima parte con quelli ricordati. E questo sia che si tratti di vicende a cui il soggetto ha partecipato in modo attivo o passivo, sia che si tratti di letture, corsi di studio, raccolta di testimonianze orali, o eventi culturali di ogni tipo.
Ma nella mente degli esseri umani sta pure un altro tipo di memoria, governata dalla coscienza (Si veda sul punto Roberto Settembre, Note su Manicheismo dogmatico…). Quest’azione di governo sulla mente è il “Logos”, cioè il “Discorso” praticato dalla coscienza: discorso che, come tale, deve venir organizzato per diventare riconoscibile a ogni richiamo, per evitare che venga dissolto dal trascorrere del tempo come qualsiasi percezione concreta. Questa organizzazione del discorso, dunque, è linguistica e produce il suo frutto (il passato) che si alimenta delle sostanze che le radici (l’organo sensitivo della mente) ricavano dalla stratificazione dei dati materiali (l’humus della Storia). Queste sostanze vengono quindi elaborate dalla coscienza che le trasforma in nutrimenti, cioè nei vari significati desumibili da quei dati materiali ancora separati gli uni dagli altri.
Fatto questo la coscienza li amalgama dando loro un secondo significato onnicomprensivo. Ebbene, questo frutto-significato è il passato-presente, che per questi motivi non è mai uguale per tutte le persone, essendo l’organo cognitivo specializzato in questa operazione diverso da persona a persona, che, per semplificazione, vengono riassunte nelle sette categorie sopra esaminate. Anzi, quest’organo è così delicato e fragile, che la sua complessità e il suo funzionamento sono soggetti a continui rischi e pericoli, tali da mutarne la natura, da spazio attivo e libero, destinato alla trasmissione del sapere inteso come stimolo per la ricerca, ad arma per asservire la coscienza altrui e determinare la spinta all’azione dominata dal giudizio.
Si tratta così dell’uso del passato-presente come strumento per il giudizio; ma, come ogni strumento, è sempre aperto alla perversione e funzionale a ogni inaspettata eterogenesi dei fini. Questo perché il passato-presente, in relazione di causa/effetto sul presente, dove il rapporto tra la causa e il suo effetto è appunto il giudizio, e dove per presente deve intendersi l’azione. Infatti il presente non può assimilarsi al passato-presente, non essendo un dato assimilabile dalla coscienza attraverso la memoria, ma è un dato in fieri, che si svolge nelle sue manifestazioni come un film proiettato sullo schermo della mente. E tutto ciò ha che vedere con le cause e le modalità per le quali l’orientamento politico dei soggetti facenti parte delle categorie sopra esaminate può trasmigrare dall’una all’altra.
Questo dipende dalla natura della conoscenza del mondo, che, in un certo qual senso, è poligonale. E poiché il poligono più piccolo che possiamo disegnare è il triangolo, allora la struttura minima della conoscenza, intesa come entità operativa, ci mette in contatto attraverso ciascun lato con un diverso aspetto del mondo, che possiamo semplificare in “passato tout court”, Passato-Presente e Presente.
Ma ne consegue che la nostra capacità di giudizio, attraverso la quale passiamo dal pensiero all’azione, ci spinge a transitare da una categoria all’altra di quelle esaminate. Si tratta cioè di un’operazione cognitiva consistente nel muovere dalla conoscenza confusa del passato tout court, in cui il soggetto si è percepito immerso in un’estensione fenomenologica e temporale come una congerie di eventi tanto numerosi e affastellati da non poter venir né catalogati né ricordati nella loro complessità, per giungere a selezionare il numero e l’estensione dei fatti trasformandoli in una percezione cognitiva maneggiabile. Ebbene, l’esito di questa selezione è il “Passato-presente”, che è la trasposizione del fatto storico in categoria concettuale, per giungere al “presente” nel quale il soggetto si muove e agisce, assistendo alla sua continua trasformazione in passato.
Ne consegue che il giudizio discende dal rafforzamento o meno della permanenza delle facoltà cognitive in una o più di quelle categorie concettuali diventate maneggevoli, con l’effetto che questa capacità di giudizio è assimilabile al riflesso luminoso di un poligono, di cui ciascun lato offre alla capacità cognitiva il pezzo di mondo che vi aderisce, e il cui contatto attiva la percezione intellettiva, quanto meno complessa quanto minore è il numero dei lati.
Infatti, se ampliamo lo spazio cognitivo, possiamo farlo in due modi diversi: o aumentando lo spazio interno attraverso un aumento della lunghezza dei lati, cosicché questo aumento dello spazio interno corrisponde a una crescita della dimensione unilaterale delle parti di mondo che aderiscono a ciascun lato, ma senza indagarne la complessità. Si tratta cioè della natura della conoscenza di persone la cui grande esperienza culturale si è edificata attraverso la ripetizione di acquisizioni cognitive sempre uguali a sé stesse, radicalmente convinte della giustezza e di quanto siano inattaccabili le proprie opinioni basate su un principio di verità quasi sacrale. L’effetto è una sorta di cecità verso la complessità del mondo. E per queste persone è arduo e improbabile il cambio di casacca.
Se invece all’aumento delle dimensioni interne facciamo seguire un aumento del numero dei lati del nostro poligono immaginario, aumenterà il contatto con la complessità del mondo, il che avrà dei riflessi sulla capacità di giudizio. Si prenda ad esempio un assunto contenuto nella recensione del 24 settembre 2024 sul quotidiano Il Manifesto del libro Prima gli italiani: Welfare, sciovinismo, risentimento di Gargiulo, Morlicchio e Tuorto (il Mulino). Secondo la recensione, questo libro sostiene che la svolta neoliberale degli anni 70/80 discende dal carattere escludente delle democrazie liberali, nonostante la loro pretesa di universalismo e di inclusione.
Ebbene, il giudizio conseguente a tale assunto pertiene a uno spazio cognitivo il cui contatto con il mondo esterno (nella specie le derive illiberali delle democrature e gli scempi del welfare commessi dal neoliberismo) parte da un lato del nostro poligono cognitivo, quello secondo il quale l’universalismo delle pretese liberali non è tale, talché ogni lettura del reale (il mondo esterno al poligono) parte da quella premessa e ne cerca la verifica. E qui interviene il linguaggio con cui vengono trasmessi i messaggi, attraverso il quale, una volta interiorizzato, vengono costruiti il pensiero e le sue categorie morali, sempre tenendo conto che si sta parlando di morale frutto del costume prevalente, e non di etica.
Si prenda ad esempio il concetto di colpa, individuale o collettiva, a cui costantemente si riferiscono le comunicazioni mediatiche, e a come i concetti di colpa, trasformati in categorie morali, incidono sulla lettura del mondo e sulla conseguente elaborazione del giudizio. E a quanto questo giudizio incide sul sentire individuale, su come questo sentire induca la persona a schierarsi (sempre entro i confini personologici sopra esaminati) e quanto lo schieramento degli individui, quando si fanno massa, determini le scelte politiche, tanto da inverare l’assunto arendtiano per cui il pensiero si fa azione (Hanna Arendt, Vita activa, Bompiani).
E poiché si è precedentemente accennato all’eterogenesi dei fini delle scelte politiche, si pensi a come il neoliberismo abbia inconsapevolmente gettato benzina sul fuoco delle menti esacerbate dal tradimento delle illusioni edificate sulle false promesse di una ricchezza a portata di ogni mano disposta ad afferrare l’occasione.
Ma sempre, quando le menti dei singoli si accendono, questo fuoco incendia il pensiero, che costituisce il carburante dell’azione. Dopo tutto le folle esaltate dai progetti interventistici nel 1914, influenzarono, fino alla catastrofe dei 600 mila morti e dei milioni di feriti, il pensiero e le delibere dei governanti mossi, anzi si dovrebbe dire, attizzati dalle piazze inferocite contro i neutralisti. E quanto, in questo caso, il poligono della conoscenza era ridotto al minor numero possibile di lati!
Viceversa, moltiplicare i lati del poligono significherebbe esaminare le ragioni (un lato), le cause (un altro lato) e la natura dell’universalismo dei valori (parecchi lati, sul versante delle idee macroeconomiche, di quelle giuridiche, costituzionali, geopolitiche, demografiche, climatiche, storiche, sociali, religiose, strettamente politiche, nazionalistiche, militari, industriali, sui diritti umani, economiche tout court, monetarie, ambientali, sanitarie e molte altre), e indagare le cause, la natura e le ragioni della sua e delle sue diverse lesioni.
Ma, a questo punto, si renderebbe necessaria l’espansione di questo poligono immaginario attraverso la sua trasformazione in un poligono costituito da una elevatissima molteplicità di lati. Al contrario, la riduzione di ogni assunto a una sola possibile spiegazione fra le tante, tutte da mettersi in relazione con la necessaria sofisticazione dell’indagine, che non piace a chi ritiene che l’indagine non attenga a una ricerca della possibile verità di senso, significa trasformare l’indagine in una ricerca della conferma della verità sposata a priori.
Ed ecco tornare la questione con cui si è aperto questo lavoro: la relazione cognitiva degli individui col fenomeno “guerra”, rispetto al quale le argomentazioni testé sviluppate assumono un precipuo significato ermeneutico. Sul punto si ritengono utili due esempi alquanto significativi, e sui quali si invita il lettore a porli in controluce con ciascuna delle sette categorie di strutture personologiche sopra esaminate, dalle cui operazioni mentali possono trarsi giudizi molto differenziati.
Il primo discende dalle considerazioni svolte in radio poco tempo fa dal prof. Piero Ignazi, politologo, secondo il quale il M5S è costituito dall’unione di principi di solidarietà sociale, e quindi è espressione di alcune forme del socialismo, e da una pulsione estremista di destra come quella contro i migranti e una visione prettamente nazionalistica e populista. Il prof. Ignazi ha concluso affermando che nel M5S fosse preponderante la sua connotazione rossobruna. La prova, secondo chi scrive discenderebbe dall’esperienza governativa del M5S, guidato dall’avv. Conte, insieme con la Lega dell’on. Matteo Salvini, che ha prodotto i Decreti Sicurezza e le politiche radicalmente anti immigrazione, nonché dall’avversione ad alcun progetto di cittadinanza secondo il cosiddetto Jus soli, in difesa dello Jus sanguinis, ad alcune dichiarazioni del fondatore del movimento, ambiguamente antisemite e omofobe, e ancora recentemente, dagli assunti del leader del M5S che ne ha escluso la natura di sinistra.
Non solo, riflettendo sulla posizione del M5S quanto alle politiche nazionali di sostegno all’Ucraina in guerra con la Federazione Russa che ha invaso il suo territorio, la contrarietà all’invio di mezzi di difesa per ragioni di interesse nazionale conducono a formulare un giudizio confermativo della visione prettamente nazionalistica di questo movimento/partito.
Detto questo, tuttavia, la pulsione socialisteggiante e quella nazionalistica, se prese in esame sulla scorta del rapporto fra principi e valori, da un lato, e interessi dall’altro, invertendo la posizione dei due termini, e facendo premettere alla pulsione socialisteggiante quella nazionalistica alquanto estrema, la trasformerebbe in un lemma nazionalsocialistico. A questo punto il giudizio formulato dall’osservatore dipenderebbe proprio dalle differenze di giudizio indotte dalle diverse modalità di rapporto fra principi e valori da un lato, e interessi dall’altro come sopra esposti.
E ora si faccia un secondo esempio, ancor più pregnante proprio in relazione col tema di questo lavoro, cioè sugli elementi del pensiero che distinguono in radicale e non risolvibile opposizione il liberalismo socialdemocratico e il neoliberismo, dove, per il primo, l’obiettivo primario è l’occupazione e il danno collaterale causato dalla piena occupazione è l’inflazione, per cui questa è prevista e prevedibile, e, sebbene vada combattuta, resta comunque inevitabile per difendere l’occupazione, poiché il principio ineludibile è garantire il posto di lavoro per le ragioni etico politiche che sottendono i valori socialdemocratici alla faccia del profitto dei capitalisti a ogni costo.
Per il secondo l’obiettivo primario è la bassa inflazione (il famoso 2%), mentre il danno collaterale previsto e prevedibile è la disoccupazione che, per quanto combattuta, è inevitabile (in verità nella dottrina neoliberale esiste un tasso ottimale di disoccupazione che consente di tenere sempre i salari inferiori a quanto sarebbero con la piena occupazione) poiché il fondamento neoliberale è il profitto e non la dignità della vita dei lavoratori.
Ecco, si prenda in esame questa riflessione, e la si consideri alla luce dell’inclinazione politica di ciascuna delle sette categorie sopra esaminate, e si ricavi da ciò una serie di giudizi, difformi fra loro, e li si ponga in relazione cogli eventi bellici che tanto occupano la scena mondiale in questo terzo decennio del XXI secolo.
Noi ci fermiamo qui, offrendo al lettore un ultimo prisma nel caleidoscopio all’interno del quale sono stati ricomposti sommariamente i frammenti visivi di questo tempo feroce, richiamando alcuni versi rinvenuti manoscritti nelle pagine bianche di un volume del 2001 contenente testi di Hanna Arendt, per ribadire l’importanza e la forza della letteratura, che tanto occupa il libro di Martha Nussbaum Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica: «Noi partiamo ogni volta/sul mare, /ogni volta/con fede nel bel tempo. /Ogni volta il mare impone la sua volontà,/e ogni volta la salvezza e la morte/sfuggono alle previsioni».
Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025
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Roberto Settembre, entrato in magistratura nel 1979, ne ha percorso tutta la carriera fino al collocamento a riposo nel 2012, dopo essere stato il giudice della Corte di Appello di Genova estensore della sentenza di secondo grado sui fatti della Caserma di Bolzaneto in occasione del G8 2001. Ha scritto per Einaudi Gridavano e piangevano, edito nel 2014. Si è sempre occupato di letteratura, pubblicando racconti, poesie, recensioni sulle riviste “Indizi”, “Resine”, “Nuova Prosa”, “La Rivista abruzzese” e il “Grande Vetro”. Con lo pseudonimo di Bruno Stebe ha pubblicato nel 1992 il romanzo Eufolo per Marietti di Genova e nel 1995 I racconti del doppio e dell’inganno per la Biblioteca del Vascello nonché la quadrilogia Pulizia etica per Robin edizioni e nel 2020 Virus e Cherie con la Rivista Abruzzese. Attualmente è collaboratore di “Altreconomia”.
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