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Brevi note su giudizio e opinioni in margine alla guerra di Gaza

collage-maker-08-oct-2023-02-11-pm-8611-1di Roberto Settembre 

Preliminarmente desideriamo precisare che queste riflessioni non vengono dall’intento di screditare, o contestare o contrapporsi a due stimolanti (e inquietanti) articoli apparsi sul numero di novembre di Dialoghi Mediterranei, prezioso luogo di dibattito culturale (d’altronde Nomen omen), atteso che il dialogo, appunto, è lo strumento principe attraverso il quale si confrontano le idee, luogo di confronto, dunque, e non di scontro.

Detto questo siamo altrettanto persuasi che prima di trarre significative conclusioni dalla lettura di articoli tanto pregnanti per le conseguenze che hanno sul lettore privo di pregiudizi, sia indispensabile svolgere alcune considerazioni metodologiche, senza le quali il lettore rischierebbe di venir investito dal frastuono delle opinioni e del giudizio mescolati o consapevolmente ad arte (ma escludiamo che sia questa la ragione) o per effetto di un genuino sentimento di appartenenza a uno dei due campi in lotta. Per questo motivo riteniamo opportuno cercare di fare chiarezza su due diversi atteggiamenti cognitivi, presenti sia sulla carta stampata sia nella comunicazione tele-visiva, quando contengono un alternarsi indifferenziato di giudizio e opinioni, con effetti destinati (o forse finalizzati) a trasformarsi in credenze, e solo dopo in fittizia conoscenza, mentre dovrebbe avvenire il contrario.

Molto più complesso sarebbe parlare del funzionamento dei social sulla rete, sia per la loro peculiare e riteniamo talvolta pericolosa modalità di trasmissione dei contenuti, sia per i meccanismi percettivi dei loro fruitori, spesso vittime inconsapevoli, argomentazione a cui occorrerebbe uno spazio oggi in questa sede destinato altrimenti per affrontare il tema indicato in esergo.

Pertanto, sulla natura del giudizio e sulla sostanza delle opinioni cercheremo di svolgere una sintesi al termine di questo breve lavoro, limitandoci al momento a evidenziarne la differenza dirimente, dove il giudizio consiste nell’evento cognitivo a cui si giunge dopo un percorso logico razionale basato sulla conoscenza, per quanto più esaustiva possibile, dei fatti e delle loro premesse, sul cui presupposto si articola il processo cognitivo, privo di formulazioni qualificative, e senza la quale gli assunti rischiano di essere fuorvianti come ogni propaganda ideologica. Le opinioni, invece, o prescindono dal giudizio, e vi si affiancano, o spesso lo sostituiscono seminando il terreno dal quale far emergere le conclusioni, o lo seguono come corollario necessario alla completa comprensione degli eventi.

Pensiamo dunque sia opportuna un’ulteriore premessa sulla valenza e sul significato di differenti oggetti, come legislazioni, libri, dichiarazioni, articoli giornalistici, convenzioni internazionali, trattati, tutti veicoli che attivano diversi fenomeni cognitivi attraverso la diversa efficacia del potere delle parole: la loro forza e la loro portata. Perciò, rimanendo in tema, intendiamo richiamare alcuni di questi veicoli comunicativi nei quali la forza e la portata delle parole non coincidono.

herzlcarabbaParliamo, a titolo di esempio, dello Statuto di Hamas, nella formulazione del 1988 e in quella del 2017 e proseguiamo con la recente dichiarazione del ministro israeliano Amihay Eliyau, responsabile degli affari e del patrimonio che ha detto: “Sganciare una bomba atomica su Gaza è un’opzione”, e quella del ministro della difesa che ha definito i palestinesi degli “animali”; con la progettualità genocida del Mein Kampf di Adolf Hitler pubblicato il 18 luglio del 1925; con la legislazione antisemita della Germania nazista tra il 1933 e il 1942; con Il Manifesto degli scienziati razzisti pubblicato sul Giornale d’Italia il 14.7.1938 e la Dichiarazione sulla razza del Gran Consiglio del fascismo del 6.7.38 pubblicato sul Foglio d’Ordine del PNF il 26.10.1938; coi trentaquattro provvedimenti legislativi italiani antiebraici emessi tra il settembre 1938 e il 28 febbraio 1945; con il libro Lo Stato ebraico di Theodor Herzl edito a Vienna nel 1896; con la Risoluzione n.181 dell’ONU circa la bipartizione della Palestina; con la Proclamazione di fondazione dello Stato di Israele del 14 maggio 1948; coi riconoscimenti de facto e de iure da parte di soggetti della comunità internazionale come l’Unione Sovietica, gli USA o la Svizzera; con la legge israeliana sul non ritorno e sulle proprietà del 1950; con le leggi sulle annessioni territoriali e quelle sulla natura dello Stato di Israele; con le Convenzioni internazionali in materia di diritti umani, come le quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 conosciute come diritto di Ginevra, diritto sulle vittime di guerra, sui feriti e i prigionieri, i diritti dei civili in tempo e luoghi di guerra, e diritto internazionale umanitario, oltre ai Protocolli addizionali giunti fino al 2005, terminando con la Corte penale internazionale prevista dalla Carta delle Nazioni Unite istituita con lo Statuto di Roma del 1988, La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 10 dicembre 1948, la Convenzione europea dei diritti dell’Uomo del 4 novembre 1950 e la Corte Europea dei Diritti dell’uomo (CEDU) del 1959. O i trattati di pace tra Israele ed Egitto del 1979 e quello con la Giordania del 1994.

A tutto ciò si devono aggiungere i numerosi trattati di pace e i provvedimenti legislativi nazionali e sovranazionali che hanno regolato in Europa (e non solo in Europa) i confini, le proprietà, gli spostamenti coatti di intere popolazioni, le cittadinanze, il riconoscimento giuridico dei diritti degli apolidi dopo le immani sciagure della Seconda guerra mondiale e il riconoscimento in termini di legittimità degli attori statuali sui teatri dove si giocò la guerra. Naturalmente questo lungo elenco, chiariamo, non è affatto esaustivo, ma riteniamo che sia utile per proseguire nell’argomentazione.

Ebbene, ognuno di questi oggetti linguistici, trattandosi appunto di fenomeni concreti, percepibili come tali, con effetti sul piano della comunicazione e sulle loro conseguenze nel mondo fenomenologico dal momento in cui sono venuti in esistenza, sono espressione, ognuno, di una grande forza argomentativa, tale da muovere o condizionare i sentimenti, le opinioni, le aspettative e le azioni dei loro destinatari, in un senso o nell’altro, ma ben diversa è la loro portata, poiché il potere della parola acquisisce una reale portata quando, da espressione di un pensiero, si trasforma in realtà concreta con effetti materiali sulla vita delle persone, delle collettività e delle nazioni.

Ecco allora che le parole dei ministri israeliani, quelle contenute nel libro di Theodor Herzl, quelle sui manifesti della razza del PNF, quelle contenute nel famigerato Mein Kampf di A.H. hanno una grande o grandissima forza tale da agire come veicolo ideologico e da venir introiettate, in senso positivo o negativo, dai loro destinatari, ma la loro portata è nulla, poiché ad esse non si accompagna alcun effetto giuridico, il solo che determina immediate conseguenze sul piano della realtà fattuale attraverso il potere esecutivo loro attribuito dalla forza dello Stato o dal riconoscimento che gli Stati firmatari riconoscono alle convenzioni e ai trattati sottoscritti.

124203616-f4a32663-964b-4861-9719-491b96786c57Ne consegue, tornando al tema in esame, che ad esempio lo Statuto di Hamas, che non solo disciplina la condotta e i doveri a cui devono sottostare i suoi diretti destinatari, così come le varie legislazioni antisemite sopra citate, e quelle che hanno disposto sui confini e sulle proprietà dei cittadini presenti e di quelli assenti, oltre a eventi fondativi come la proclamazione dello Stato di Israele, hanno effetti concreti, cioè hanno una materiale portata sul piano della realtà fenomenica.

Questa ampia premessa riteniamo sia indispensabile ogni volta che ci si approccia a un tema divisivo e drammatico come l’attuale guerra mediorientale, soprattutto perché su di esso si collocano tutte le posizioni che esprimono opinioni e giudizi partendo da alcuni assunti ineludibili: la legittimità dello Stato di Israele, e la legittimità delle forme di lotta o della lotta tout court per la liberazione della Palestina nonché la legittimità del diritto alla difesa o delle forme dell’esercizio di questo diritto da parte di Israele. Ma non solo, poiché questa legittimità promana dalla necessaria indagine su cosa sia, cosa sia stata e cosa sia diventata la Palestina, e da lì si riverbera sui dati di fatto che, nei due articoli presi in esame più avanti, e non solo, ma quasi ovunque durante questo tempo di accesi dibattiti, riteniamo siano conseguenza di eventi lontani.

Il punto è che l’odierno osservatore di accadimenti posti al di là del suo orizzonte esistenziale, anche per quanto attiene alla sua stessa permeabilità emotiva, non può e non deve prescindere dalla consapevolezza della diversa efficacia della forza delle parole contenute nei fatti normativi e nella narrazione di eventi concreti del passato come frutto della percezione di persone vissute e sopravvissute a quella temperie storica, che quegli eventi avevano attraversato. Ciò con la conseguenza che quelle persone, attraverso azioni materiali e la trasformazione del pensiero in fatti normativi, non solo modificarono la realtà, ma attribuirono a quelle modificazioni una portata tale da configurarne legittimità o illegittimità produttive di effetti permanenti nei tempi successivi, con un esito ancor più totalizzante: la trasformazione delle loro esperienze concrete nel tessuto sul quale erigere una legge morale diversa da quella che le precedeva, e che quelle persone ritennero intimamente di dover attualizzare. Si tratta cioè di un fenomeno mentale, con effetti concreti sulla realtà, conoscibile e interiorizzabile come realtà produttiva di effetti, solo ai contemporanei di quegli eventi, ma conoscibile senza poter essere interiorizzato da chi quegli eventi conosce solo attraverso la narrazione storica. E si pensi per un momento alle ragioni giuridiche del processo di Norimberga.

Questo ragionamento, per essere corretto, ha però bisogno di evidenziare come i concetti di civiltà e di barbarie, e di diritto, rischino di intersecarsi con due concetti non compatibili tra loro, ma il cui interscambio valoriale genera gravi confusioni e conduce a cementare opinioni camuffate da giudizi. Si tratta della geopolitica e del diritto internazionale, la cui confusione ha come effetto quello di sviluppare argomentazioni opposte e alimentate dalla prevalenza del potere dell’ideologia sull’analisi storica razionale dei fatti. Dal che discende un ulteriore corollario, per cui il risultato di questa analisi razionale venga o no sottoposto alla lente del giudizio morale, che deve arrivare sempre dopo e non essere usato prima per consentire l’analisi razionale. Questo perché l’uso del giudizio morale in forma pregiudiziale muove da un dato di fatto, che l’attribuzione della cogenza alla legge morale difficilmente prescinde dalla percezione, più o meno consapevole, di ciò che è bene e di ciò che è male nello spazio della propria esperienza esistenziale. Ma questo riguarda la forza delle parole attraverso le quali si manifesta il pensiero di ciascuno, che non va confusa con la portata delle parole contenute nel tessuto normativo in vigore, anche quando la sua nascita si colloca in tempi e spazi della mente di chi è vissuto al tempo di questa nascita.

d41235a4-928b-4ea2-bee0-54b34ff3ffa41170x558Detto questo, la storia dello Stato di Israele è percorsa da due letture, prima delle quali tuttavia dobbiamo sgombrare il campo dall’equivoco che vede la civiltà e la barbarie contrapporsi sul piano del senso morale, poiché l’esame della Storia mostra come popoli civilissimi abbiano costantemente infranto la legge morale anche in epoca moderna, dalle modalità delle guerre di religione, alla caccia alle streghe attraverso una raffinata e spietata procedura penale fino a codificare la tortura e il rogo, alle dinamiche mercantilistiche della tratta degli schiavi, al colonialismo, fino agli orrori novecenteschi. No: l’unica differenza tra la civiltà e la barbarie attiene al principio romanistico su cui si fonda la ragione stessa del diritto: il “ne cives ad arma ruant”, oppure, attualizzando il concetto, “Ne civitates” o, sul piano internazionale, “ne Res Pubblicae ad arma ruant”. Questo significa che il diritto nasce come esigenza di ordine precostituito rispetto all’azione e agli eventi: la civiltà si mostra, rispetto alla barbarie, come l’ordine si mostra rispetto al caos, ma ciò non significa affatto che l’ordine della civiltà sia meno violento o meno brutale del caos barbarico, poiché entrambi entrano in relazione con le idee di bene e di male, che non sono affatto estranee alla barbarie e alla civiltà, bensì alla legge morale, nell’accezione che abbiamo scelto.

Solo così possiamo prendere in considerazione gli aspetti valoriali del diritto, e solo partendo da questi presupposti possiamo esaminare gli altri due concetti, quali strumenti necessari per cercare di comprendere gli eventi storici, poiché la geopolitica è l’espressione del pensiero di ciascun attore internazionale, che muove il suo agire sullo scacchiere esterno al suo territorio, dove violenza, sopraffazione, interesse, sono temperati solo dalla forza eventuale che si contrappone alla forza del soggetto agente.

Viceversa il diritto internazionale è il prodotto dell’incontro fra il pensiero che guida l’azione dei singoli soggetti che cercano di trovare un modus vivendi nella relazione, disciplinando, o regolando, o armonizzando le diverse istanze geopolitiche in vista di una cristallizzazione o di una modalità diversa del gioco, anche quando questo gioco si esprime nella violenza con le varie forme della guerra o della lotta fra gli attori coinvolti. Ne consegue che l’idea di legittimità internazionale dipende soltanto dal riconoscimento o dal non riconoscimento sul terreno del diritto, rispetto al quale, ripetiamo, le categorie morali del bene o del male vi rimangono esterne sul piano operativo, attenendo al tessuto della forza delle parole ma non della loro portata.

Tornando quindi alle due letture a cui abbiamo testé accennato, la prima attiene all’ipotesi che lo Stato di Israele sia nato dalla vittoria nel conflitto coi Palestinesi; la seconda che sia nato dall’idea nazionalistica del sionismo esaminato nelle due declinazioni del sionismo laico e del sionismo messianico, e come si pongano queste due letture in termini di legittimità esistenziale, senza dimenticare l’efficacia giuridica della Risoluzione ONU n. 181 del 1948.

Allo stesso modo la mancata nascita dello Stato di Palestina può dipendere dalla sconfitta con lo Stato d’Israele, o dal mancato e/o tardivo riconoscimento del nazionalismo palestinese, visto, anch’esso, nella doppia declinazione laica o messianica, da parte degli altri attori della regione medio orientale e non solo, che sembrano, e molti tuttora, incapaci di cogliere il senso della Risoluzione ONU n. 181 del 1948. E parimenti, specularmente, una parte non piccola dello stesso Israele che di questa Risoluzione si avvale solo per quanto attiene ai suoi desiderata.

È necessario cioè rispondere alla domanda sul come e sul perché il nazionalismo palestinese abbia o non abbia trovato ascolto tra gli Stati arabi. Questa domanda, che oggi ci limitiamo a porre senza pretendere di fornire una risposta esaustiva, e sulla quale sono state scritte migliaia di pagine desunte dalle narrazioni, dai documenti storici e dagli eventi, rileva, per quanto possiamo qui discutere, sul piano della forza delle parole usate nei due articoli appresso in esame, proprio perché è necessaria per giungere a un giudizio produttivo di opinioni, ma dalla quale riteniamo che non si possa ragionevolmente prescindere per evitare di trasformare l’opinione in giudizio.

9788858105153Entrano quindi in gioco i meccanismi del revisionismo storico degli eventi, perché sia le modalità delle guerre nate dalla mancata accettazione di una soluzione giuridica (e quindi pacifica del problema), sia i suoi effetti, devono venir valutati all’interno della percezione collettiva delle modalità e degli effetti della guerra mondiale conclusasi da appena tre anni quando scoppiò la guerra arabo israeliana del 1948. L’importanza di tale considerazione discende, a nostro parere, dal fatto che tutti gli esseri umani ricavano dal senso degli eventi di cui sono diretti testimoni o protagonisti, impressioni così profonde da modificare le strutture morali delle facoltà cognitive, così come abbiamo accennato pocanzi. Vogliamo dire che il funzionamento delle facoltà cognitive non prescinde dalla conoscenza della distinzione tra il bene e il male, indipendentemente da cosa si intenda per bene e per male, e soprattutto dalla relazione tra i due, come accenneremo al termine di questo breve lavoro. Ci limitiamo invece a citare un fatto. Verso la fine di quel tremendo conflitto ci furono in Inghilterra alcuni opinionisti che sostennero la necessità di uccidere, dopo la totale disfatta del III Reich, tutti i tedeschi a partire dall’età di 8 anni, poiché contaminati in modo irreversibile dal male del nazismo! E questo progetto, che oggi non possiamo giudicare altrimenti che come una mostruosità morale, era descritto come un’azione dettata dalla coscienza morale.

Pertanto, premesso che non è questo il luogo dove ricostruire eventi tanto giganteschi da occupare la storiografia con milioni di pagine, è sufficiente rilevare come 60 milioni di morti e centinaia di milioni di vittime traumatizzate da persecuzioni, bombardamenti, ferite, fame, soprusi, stupri, torture, malattie, perdite di famigliari, amici, compagni, delle dimore, dei territori di appartenenza anche da generazioni, dell’identità nazionale, sopravvissuti al tornado della paura, dell’angoscia e del dolore fisico e psicologico, e i milioni di esseri umani in fuga volontaria o coatta attraverso il Continente selvaggio ben descritto da Keith Lowe nel suo denso volume edito da Laterza nel 2013, che era l’Europa (e non solo), coi confini stravolti, Stati irriconoscibili, imperi morenti come quello inglese o risorti come quello russo sovietico, il tutto sul cumulo delle macerie delle città, del patrimonio architettonico, delle infrastrutture, non poteva sfuggire alla percezione cognitiva di chi stava lottando per la propria collocazione o sopravvivenza nel mondo funestato dagli orrori indicibili delle carestie criminali come l’Holdomore ucraino che causarono milioni di morti, dalle fucilazioni di 800 mila persone da parte dei sovietici di Stalin, dagli internamenti della schiavitù omicidiaria dei Gulag (ben raccontato da Timothy Snyder in Terre di sangue, edito da Rizzoli), dalle atrocità commesse dall’impero giapponese nella conquista dei suoi domini, dalla Shoah, di cui omettiamo volutamente di parlare, poiché la sua natura di genocidio demoniaco o viene percepita non potendone eludere la valenza, o viene altrettanto volutamente negata, nonché sugli effetti materiali e psicologici dei bombardamenti atomici. E come tutto ciò si fosse riverberato sulla morale percepita nell’immediatezza di quei fatti, almeno in Italia, è stato acutamente osservato da Guido Crainz in L’ombra della guerra.

downloadOra, per quanto attiene al popolo arabo di Palestina, passato attraverso gli scontri con gli immigrati ebraici fin dai primi anni venti del secolo scorso, il cui rapporto col territorio abitato da generazioni soggette dal secolo XVI al dominio ottomano, e poi, dopo la Prima guerra mondiale sotto mandato britannico, aveva subìto i traumi e le sconfitte conseguenti alle rivolte arabe nell’arco di un ventennio, è necessario considerare come si fosse trovato a confrontarsi, progressivamente, col nazionalismo sionista nel quale – a fronte delle difficoltà di integrazione con la popolazione residente spossessata delle terre vendute dai notabili arabi proprietari all’agenzia ebraica che effettuava gli acquisti per consentire l’Aliya dei ebrei in cerca del loro “focolare”, così come definito nella Dichiarazione britannica Balfour del 1917 – cresceva il sionismo messianico di una Heretz Israel dal mare al fiume Giordano, messianismo inteso come unico viatico di salvezza identitaria, a fronte del sionismo laico fautore di uno Stato ebraico capace di coesistere e di convivere con gli abitanti della Palestina; di quella Palestina che non era affatto “una terra senza popolo per un popolo senza terra” come racconterà soprattutto la vulgata dei “cristiano sionisti” e ripreso da quello messianico. Né ci si nasconde come nell’ideale del sionismo laico, tuttavia, albergasse un pregiudizio di supremazia culturale sul popolo palestinese destinato a una sorta di assimilazione civilizzatrice (Lorenzo Kamel, Terra contesa, Carrocci, 2022)

La Palestina in verità era una terra abitata da un popolo che stava progressivamente acquisendo una coscienza nazionale in modo analogo al fenomeno sociale innescatosi nell’Europa del XIX secolo. Coscienza nazionale tuttavia ancora ben lontana dall’ideale di uno Stato Palestinese, bensì strutturata nell’ideale nazionale della grande Siria, comprensiva di tutta la Palestina, e che respingeva come estranea e pericolosa la presenza ebraica. E fu in nome di quell’ideale, e non di un ideale strettamente palestinese, che venne combattuta la grande rivolta araba, scoppiata dopo la rappresaglia ebraica che uccise due arabi per l’uccisione di due ebrei del 15 aprile del 1936, durata tre anni, (Giovanni Codovini, Storia del conflitto arabo israeliano palestinese, Bruno Mondadori 2004), nella quale assunse un forte rilievo simbolico il predicatore guerrigliero Izz al-Din al-Qassam, caduto sul campo (James L. Gelvin, Il conflitto israelo -palestinese, Einaudi 2007). E si noti come Hamas abbia battezzato i razzi scagliati su Israele proprio col nome di questo combattente, e si rifletta ulteriormente come l’ideale bellico di al-Qassam escludesse alcun compromesso con il popolo ebraico, di cui progettava la distruzione, e di come quell’ideale permanga nell’ideologia di Hamas, come vedremo più avanti.

71b0wzcxqdl-_ac_uf10001000_ql80_Detto questo, riprendiamo in considerazione un aspetto del concetto di sopravvivenza identitaria delle comunità nazionali, facendo l’esempio del III Reich e dell’attuale Germania federale, esaminando cosa accomuna queste due realtà statuali, lontanissime sul piano ideologico, ma pressocché identiche per territorio, lingua, religione, e popolo, o, altresì, l’attuale Polonia, per due terzi diversa per territorio e per comunità che le appartengono rispetto a quella ante Seconda guerra mondiale a causa delle amputazioni territoriali, degli spostamenti dei confini, e delle espulsioni e degli stermini subiti.

Ebbene, all’osservazione di queste due realtà statuali, riteniamo di poter puntualizzare che, al termine di una guerra totale, la condizione psico sociale delle due comunità è molto diversa da quella che ha preceduto il conflitto, ma la percezione identitaria nazionale non è mutata. Questo perché con la parola “guerra” non si intende il mero significato semantico di un conflitto armato tra due o più attori, condotto attraverso l’uso della forza, coi suoi corollari della morte cruenta di esseri umani senzienti e ricchi del patrimonio cognitivo della memoria, dell’affettività e dei sogni, e concluso con un evento che ne ha comportato la fine, come la disfatta, l’armistizio, l’occupazione dei territori, l’eventuale sterminio dell’avversario, la fuga o l’espulsione degli abitanti, la pace coi suoi mutamenti delle strutture giuridico istituzionali, e di fatto.

Si tratta invece di esaminare il senso del binomio “termine della guerra”, cioè del significato in fatto e in diritto di due diversi sintagma: il primo che attualizza in diritto l’evento appena concluso attraverso la complessità delle vicende che ne hanno accompagnato l’insorgere, lo sviluppo e la conclusione in senso culturale e geopolitico; il secondo attiene alla relazione tra gli attori coinvolti nella guerra come sopra intesa nel diritto internazionale, che non solo non dev’essere confuso con le dinamiche geopolitiche, ma neanche con le ragioni degli uni e degli altri che precedettero la guerra, poiché tali ragioni si scontrerebbero con le esigenze regolatrici del diritto internazionale finalizzato, tenendo conto della portata degli eventi bellici appena conclusi, se non a scongiurare, quantomeno a evitare il ricorso a una nuova guerra. In caso contrario ogni conflitto, a partire da Caino e Abele o dalla guerra di Troia, non finirebbe davvero mai.

Ecco perché, effettuando un parallelo tra le due guerre mondiali sullo scacchiere europeo, ritenute una sola guerra separata da due decenni di tregua, le tre guerre mediorientali del ’48, del ’67 e del ’73 (escludendo quella del ’56 di Francia, Inghilterra e Israele che occuparono il canale di Suez nazionalizzato da Nasser, motivata dal cambio di equilibri globali, per effetto dell’Egitto appena entrato nell’orbita geopolitica sovietica), e in un certo qual senso quella attuale di Gaza, pur asimmetrica non trattandosi propriamente di una guerra tra Stati, sono il proseguimento della stessa guerra da parte di attori che hanno conservato le strutture cognitive della morale dei sopravvissuti, senza riuscire ad approdare alla necessità di trasformare questa morale su un terreno aperto all’orizzonte di nuove regole di convivenza. Che altro non fu il rifiuto di Arafat alla proposta del premier israeliano Barack nel 2000, dopo gli accordi di Oslo, di restituire all’ANP l’87 % dei territori occupati dove edificare l’embrione dello Stato Palestinese, in cambio della sua smilitarizzazione, a cui Arafat rispose proclamando la prima Intifada? Per converso crebbe in Israele il consenso sul rifiuto dei due Stati. Ed è proprio per questo che riteniamo indispensabile sfuggire alla confusione tra opinioni e giudizio con cui abbiamo aperto questo breve lavoro.

Dopo quest’ampia premessa, necessaria e indispensabile per comprendere il senso e le conseguenze sul piano della comunicazione dei due articoli pubblicati sul numero di novembre 1923 di Dialoghi Mediterranei, intitolati “Il popolo palestinese jamas serà vencido?” di Aldo Nicosia e “Hamas e Israele sotto il segno di Lamech” di Giuseppe Savagnone, pensiamo sia utile evidenziare la relazione tra gli assunti da cui ciascun articolo muove le sue argomentazioni e le conclusioni in forma di giudizio a cui giunge.

Dei due articoli, quello di Giuseppe Savagnone, pur nella sua brevità, muove da un’affermazione basata su un’opinione in forma di giudizio che non mostra il suo fondamento in punto di fatto. Cioè che il massacro del 7 ottobre 23 (non dell’8 come erroneamente indicato) abbia «delegittimato la causa in nome della quale è stato messo in opera», sostenendo che Hamas abbia «infangato l’ideale per cui proclamava di voler combattere, suscitando la precisa sensazione che il suo vero scopo non sia il riscatto del popolo palestinese, ma la distruzione di quello di Israele».

61thuwb1vhl-_ac_uf350350_ql50_In realtà, se alcune affermazioni di principio proclamate dai commentatori c.d. “pro Palestina” mostrano la forza degli ideali di riscatto, la vera portata di quella causa sta nel contenuto dello Statuto di Hamas, che, partendo dalle parole del Profeta «L’ora finale non giungerà finché i musulmani non combatteranno contro gli ebrei e i musulmani li uccideranno» (la sentenza che decise Il massacro di Medina del 624 ne è il punto di partenza), prescriveva la distruzione dello Stato di Israele e l’uccisione degli ebrei «dovunque si nascondano, anche dietro un albero», nella versione del 1988, integrato ma non riformato né abrogato dalla versione del 2017 che afferma, tra la congerie di principi e di progettualità a cui richiamiamo l’attenzione del lettore curioso e volenteroso, che «Sono considerati nulli e non validi la Dichiarazione Balfour, il Decreto del Mandato britannico e la Risoluzione delle N.U. (la n. 181 del 1948) sulla spartizione della Palestina e tutte le risoluzioni e le misure che ne derivano o che sono simili ad esse. L’istituzione di Israele è del tutto illegale». Altresì: «Non ci sarà alcun riconoscimento della legittimità sionista», «Il progetto sionista è nemico della Ummah araba», «Hamas rifiuta qualsiasi alternativa alla piena e completa liberazione della Palestina dal fiume al mare», «Afferma che gli accordi di Oslo e le loro integrazioni contravvengono alle regole del diritto internazionale in quanto generano impegni che violano i diritti inalienabili del popolo palestinese» e «respinge tutti gli accordi, le iniziative e i progetti di insediamento». Aggiunge infine che «La liberazione della Palestina è un dovere del popolo palestinese e in particolare della Ummah araba e islamica in generale». Si noti come quest’ultima affermazione chiami alla lotta non solo il popolo palestinese e gli arabi, ma tutta la comunità islamica del mondo.

Partendo da questi dati di fatto, nell’articolo in esame rileviamo che le parole «Se degli uomini arrivano a bruciare, uccidere, decapitare dei bambini, non c’è idea politica, motivazione etica, ragione storica che possa giustificare una simile azione», diventano un’opinione non supportata dai dati di fatto, poiché viceversa la strage del 7 ottobre è del tutto coerente con le sue premesse storiche, emotive, ma, e questo importa e dev’essere evidenziato, si tratta di una strage che non può essere contemplata in un giudizio di barbarie, essendo coerente con le sue premesse giuridiche (e si ricordi che lo stesso Corano non è un mero testo sacro, ma contiene prescrizioni che hanno valore di legge), cioè con la portata delle parole contenute nello Statuto del 1988 integrato da quello del 2017.

Ne consegue che laddove l’articolo di Savagnone prosegue argomentando sulla simmetria della violenza, opera ancora sul terreno della mescolanza tra l’assunto contenuto nel “diritto di Israele a difendersi” (che discende dal diritto internazionale) e le modalità di questa difesa. Infatti l’articolo, invece di esaminare da dove promani questo diritto, formula un giudizio attraverso l’assunto di un’opinione con cui vengono sia giudicate non tanto le modalità della difesa quanto le intenzioni che le muovono, sia l’esistenza del diritto di esercitarla. Sul punto viene detto: «Ma questa non è una difesa. E del resto da chi?». Potremmo rispondere che 5000 razzi Qassam sparati nel giro di 20 minuti contro il territorio israeliano prima dell’assalto e della strage, forse costituiscono una qualche ragione per esercitare il diritto di difesa. Inoltre, sulle modalità, una volta negata l’esistenza del diritto alla difesa, viene precisato: «E’ una furibonda vendetta volta purtroppo a colpire non i colpevoli del massacro, ma i loro familiari e comunque il loro popolo, esattamente come aveva fatto Hamas l’8 ottobre (rectius il 7) uccidendo migliaia di uomini, donne e bambini».

71ytvsxz6el-_ac_uf10001000_ql80_Non solo, l’articolo fa il rendiconto terribile del numero delle migliaia di morti (a tutt’oggi, dopo più di due mesi di combattimenti e bombardamenti oltre 18mila) e di decine di migliaia di feriti e analizza alla data della fine di ottobre la colossale distruzione delle infrastrutture civili e delle città della Striscia, ma senza accompagnare tale conto spaventoso con i numeri delle vittime israeliane (1200 o 1400 e 5600 feriti), assassinate in poche ore il 7 ottobre, e riportate al termine dell’articolo, con diverso effetto retorico, poiché questa successiva indicazione contiene un’opinione (sia chiaro legittima come ogni opinione, ma priva del fondamento del giudizio) sull’intenzione di Israele. Viene cioè detto: «Ciò che ora fanno gli israeliani, che ai loro 1300 cittadini morti hanno creduto di rendere giustizia uccidendo più di 4000 abitanti di Gaza… rendendo impossibile la vita agli altri 2 milioni».

Quindi, nel corpo dell’articolo, viene fatto ricorso a un passo della Bibbia esaminato dallo scrittore René Girard in La violenza e il sacro sulla reciprocità assimilatrice della violenza, richiamando le parole di «Lamech, discendente di Caino (non a caso!)… che è allo stesso tempo un programma: -Ho ucciso un uomo per una scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette».

E qui si fanno interessanti i messaggi impliciti che integrano l’opinione espressa nell’articolo, dove il “Non a caso!”, necessariamente mette in relazione non solo le modalità della guerra di Israele con le sue motivazioni, ma sembra sottintendere una sorta di parallelismo fra la scalfittura e il livido di Lamech e la strage del 7 ottobre (poiché la Bibbia costituisce un punto di riferimento culturale e sociale del sionismo religioso), da un lato, e la vendetta di Lamech e quella esercitata sul popolo palestinese, dall’altro, come se queste parole fossero utili per giudicare le scelte operative del governo israeliano, scelte della cui illegittimità parleremo più avanti.

Desideriamo invece rilevare una sorta di confusione tra la forza delle parole del passo biblico, prive di portata giuridica, e l’assenza di alcun richiamo alla forza e alla portata delle parole del passo coranico, posto a fondamento dello Statuto di Hamas del 1988. Ma non solo, poiché l’argomentazione con cui viene formulata l’opinione in forma di giudizio sostiene non solo l’illegittimità della condotta bellica di Israele che starebbe infrangendo le regole della guerra, ragionevolmente condivisibile se vista all’interno della portata del diritto internazionale, ma che ad esso sia estranea, avendo come fine il progetto doloso di una folle corsa verso la distruzione dell’altro, e non verso la distruzione del nemico in armi, costi quel che costi. Infatti l’articolo non parla dei 240 ostaggi rapiti il 7 ottobre, che parrebbero (ma anche la nostra è un’opinione) non costituire per il governo di Netanyahu un vero ostacolo alla prosecuzione della guerra contro Hamas.

A questo punto, riteniamo evidenziare un passaggio dell’articolo in esame che rimanda al teatro europeo, e cioè una riflessione circa l’analogia della guerra di Gaza con quella russo/ucraina in atto in Europa, rispetto alla quale viene espressa ancora un’opinione in forma di giudizio: che la differenza stia nella natura dei contendenti nell’uno e nell’altro dei due scacchieri. A nostro parere c’è invece un punto in comune, e cioè, come abbiamo anticipato, la novità sorprendente della guerra russo/ucraina non consiste nelle modalità della guerra, connotata da brutalità e sopraffazioni, in violazioni del diritto bellico da parte di uno Stato dittatoriale aggressore di un altro Stato, bensì nel fatto che si tratta di riportare indietro le lancette della Storia, per usare una frase fatta, restituendo portata alla forza delle ragioni che precedettero le guerre mondiali e la disgregazione dell’impero zarista e dopo la Seconda guerra mondiale di quello sovietico. Vogliamo dire che rimettere in discussione i confini degli Stati europei attraverso l’uso delle armi con la scusa della modificazione dei regimi politici e delle loro alleanze dei Paesi limitrofi, in nome di principi para religiosi, filosofici, politici espressi in più ambiti, da quello amministrativo a quello scolastico, a quello militare, a quello della comunicazione politica, teologica, giornalistica, di piazza, è fenomeno analogo a quello, più circoscritto, espresso dagli attori mediorientali, quando non accettano le soluzioni politiche e rifiutano la legittimità del diritto internazionale in nome della sacralità dei loro princìpi, ogni qual volta non coincidono coi loro desiderata.

Ecco perché le opinioni in forma di giudizio espresse nell’articolo di Savagnone sulla giusta causa dell’attacco di Hamas (che come atto di guerra, se fosse stato solo un atto di guerra come invece ha scritto in prima pagina il Manifesto qualche settimana fa, raffrontandolo all’asserito “genocidio” perpetrato da Israele) ha come corollario la giusta causa del rifiuto del diritto internazionale, come la pace tra Egitto (Parte della Ummah  arabo e islamica) e Israele stipulata da Sadat e Begin nel 1979, gli accordi di Oslo tra Rabin e Arafat del 28 settembre 1995 che diedero ai Palestinesi l’autogoverno di Betlemme, Hebron, Jenin, Nablus, Qalqilya, Ramallah, Tulkarm e altri 450 villaggi, e di qualunque altro accordo.

Ne consegue che rientrerebbe nella giusta causa anche l’uccisione di Sadat (tanto quanto sarebbe rientrata nella giusta causa degli integralisti religiosi della destra israeliana l’uccisione di Rabin) e la sconfessione di Arafat. E da lì, ogni ipotesi di soluzione binazionale, attribuendo alla distruzione di Israele il valore della giusta causa, esattamente come sostiene un Paese di enorme portata strategica e ideologica mediorientale come l’Iran, non arabo ma parte della Ummah islamica, così come contemplata nello Statuto di Hamas.

Ma da questo fatto discende un ulteriore corollario, e cioè la rilevanza della condanna di Hamas per i fatti del 7 ottobre, che sarebbe dovuta accompagnarsi alla richiesta di cessare il fuoco rivolta a Israele dalla recente Risoluzione dell’ONU. E da lì, ancora, i riflessi che da tutto ciò si irradiano sull’opinione in forma di giudizio circa l’intento genocida di Israele che bombarda la Striscia di Gaza, rispetto alla quale sarebbe altrettanto importante prendere in esame il diritto internazionale di guerra sulla legittimità di colpire obiettivi civili usati dal nemico come base per le azioni belliche, per cui anche una nave ospedale da cui partono cannonate, siluri e missili da obiettivo illecito si muta in obiettivo legittimo.

Questo significa che solo dopo un’indagine concreta potrà davvero formularsi un giudizio esaustivo sull’entità e la natura delle azioni belliche israeliane, cioè sulla liceità o illiceità della proporzionalità della reazione all’attacco del 7 ottobre, che, alla luce di quanto emerso sinora, pare pacificamente sproporzionato e incongruo coi propositi (anche contraddittori) proclamati dal governo dello Stato ebraico, quanto alla salvezza degli ostaggi superstiti nelle mani di Hamas (la cui morte il premier israeliano sembrerebbe aver già messo in conto), la distruzione di Hamas e dei suoi appartenenti, e la fumosa prospettiva sul futuro politico della Striscia.

Ma le nostre sono comunque opinioni. Viceversa è già parzialmente possibile formulare un giudizio sulle modalità dell’assedio che, impedendo la fornitura di ripari dalle intemperie alla popolazione costretta alla fuga, impedendo la fornitura di cibo, acqua, medicinali e carburante necessario al riscaldamento e al funzionamento delle strutture ospedaliere, integra il reato di crimine di guerra di cui gli artefici dovranno (dovrebbero, si spera) rispondere.

61vkwptk9-l-_ac_uf10001000_ql80_Ma da lì non si può correttamente transitare alla formulazione di un giudizio circa l’intento genocida connesso con la perpetrazione di una cruenta pulizia etnica, senza concreti elementi di prova, in oggi ancora incompleti, imprecisi e privi di reali riscontri probatori necessari per un giudizio vero, sebbene siano legittimi i sospetti che stiano prendendo sempre più forza le posizioni intransigenti su ipotesi di espulsione in massa dei palestinesi e una rioccupazione totale della Striscia. Ma si tratta appunto di sospetti su ipotesi e programmi certo non generalizzati nella società israeliana, pur traumatizzata dalla strage perpetrata in danno di persone che erano per lo più favorevoli ai due Stati e che contestavano la legittimità del governo di Netanyahu.

Leggermente diverso nei contenuti, ma non nelle conclusioni, è sia per la precisione argomentativa, sia per la natura delle informazioni contenute, l’articolo di Aldo Nicosia, che cita famosi scrittori, come Edward Said, arabo naturalizzato americano, autore di un libro importante come Orientalismo e Ilan Pappè, parte della comunità dei c.d “nuovi storici” che, in forza della legge israeliana dei 30 anni, grazie alla quale è stato consentito accedere agli archivi nazionali, (uno dei quali è il meglio conosciuto Benny Morris, autore del monumentale Vittime), ha proceduto a una revisione storiografica dei miti fondativi di Israele.

Purtroppo non esiste una simile legge nei Paesi arabi, gelosi custodi dei loro archivi, il che si riflette sull’accuratezza mancata delle informazioni documentali della controparte di Israele. A titolo di esempio mancano dati concreti sull’invito rivolto agli arabi di Palestina da parte della Lega araba che mosse guerra allo Stato ebraico appena nato nel 1948, di lasciare case e villaggi in vista dell’offensiva che avrebbe liberato tutti i territori dalla presenza ebraica consentendo ai palestinesi di rientrarvi a pulizia etnica conclusa, occupando terre e abitazioni degli ebrei vittime della disfatta (Cfr. Codovini, Storia del conflitto, citato). Fuga spontanea posta in essere da minoranze di palestinesi, ma coatta da parte dell’esercito israeliano vittorioso. Né d’altronde è facile rintracciare recenti opere di storici del mondo arabo e tanto meno dei nuovi storici, così come ha acutamente osservato Antonino Pellitteri in Dialoghi Mediterranei nel. 32 del 2018, dopo il grande Edward Said scomparso nel 2003 a New York.

Sul punto, tuttavia, riteniamo di esprimere la nostra opinione, che, come tale, e come opinione è legittima ma priva dei connotati del giudizio. E cioè che dalla lettura dei testi dei nuovi storici israeliani quando affrontano gli eventi e le narrazioni che vi si accompagnarono nel corso degli anni nei quali si accavallarono le guerre citate, sembra non emergere la temperie culturale dominante in un Paese che, nelle tre guerre affrontate, dovette combattere per la propria sopravvivenza, e in specie in quella del Kippur del 1973, vinta solo per un complesso di fortuite operazioni belliche, di azzardi tattici, e di sacrifici disperati, ma che portò alla pace del 1979 con l’Egitto e alla pace del 1995 con la Giordania del regno ashemita.

L'Accordo di Oslo, 1993

L’Accordo di Oslo, 20 agosto 1993

Tornando a confrontarci con l’articolo di Nicosia, notiamo che ivi vengono citati eventi diversi, con differenti portate e lontananze temporali, tali da condurre a esprimere opinioni in forma di giudizio, ma rendendo molto difficile al lettore non informato di formulare un giudizio fondato. Così viene citata la Dichiarazione Balfour del 1917, la cui grande forza infuse slancio e determinazione all’avventura sionista, pur essendo priva di portata giuridica; la Nakba, cioè il modo con cui viene narrata dal popolo palestinese la sua espulsione con la perdita di vite umane, di beni e proprietà nelle terre conquistate da Israele nel 1948; viene richiamato l’assunto della terra senza popolo per un popolo senza terra dei primi anni del XX secolo, che in verità risale al XIX; il diverso regime politico nella striscia di Gaza e nella Cisgiordania (senza precisarne le cause) dopo gli accordi di Oslo; le vergognose condizioni di vita degli abitanti sotto occupazione israeliana nella Striscia di Gaza (senza peraltro richiamare la Risoluzione dell’ONU del 2012 sulla Striscia come parte dello Stato di Palestina quale entità semiautonoma governata dall’ANP fino al 2006, quando Hamas ne confermò “manu militari” il governo dopo aver vinto le elezioni); il numero di abitanti (circa 2 milioni) ivi costretti a sopravvivere senza il riconoscimento di molti essenziali diritti umani, tra i quali si contano oggi le vittime, ora giunte a oltre 18 mila comprensive dei miliziani uccisi, ma con migliaia di bambini e minori che hanno perso la vita sotto i bombardamenti e per via dei combattimenti della guerra mossa da Israele; le precedenti azioni belliche contro Hamas (peraltro senza precisare come furono innescate dalle azioni di guerra, legittime, e terroristiche condotte contro lo Stato ebraico occupante) quali quella del 2008 (‘Piombo fuso’) e quella del 2014 (‘Margine di Protezione’) che causarono anch’esse migliaia di vittime tra i palestinesi; l’assedio attuale con le sue conseguenze tragiche sui civili inermi; la presenza di alcuni vertici di Hamas in altri Paesi; le opinioni di alcuni docenti italiani (Sibilio, Macchi, Finetti), tutti concordi nel giudicare le ragioni illecite del regime di apartheid imposto da Israele, sul suo progetto coloniale, sulla “costruzione del barbaro” da parte del mainstream pro Israele. Vengono infine richiamate le affermazioni del ministro della difesa israeliano da noi già citate, le parole di scrittori, romanzieri, comici sulle vicende mediorientali. Il tutto non solo privo del numero delle vittime israeliane, ma accompagnato da una considerazione inquietante, che esprime un dubbio fattuale e che rende per questo ragione dell’omissione ora indicata, e cioè che il 7 ottobre Israele muove una guerra a Gaza, giustificandola come reazione bellica immediata all’attacco di Hamas, le cui modalità e i cui effetti sono appunto messi in dubbio con le parole: «Qualcuno ha mai visto le reali immagini degli eventi del 7 ottobre?» e affermando che «la maggior parte degli italiani sta ignorando la tragedia di Gaza e dei suoi civili innocenti, concentrandosi solo ed esclusivamente sulle vittime israeliane, senza che ci sia ancora un’inchiesta che chiarisca i contorni della misteriosa operazione del 7 ottobre».

Ora, premesso che ogni giudizio sull’immediatezza di questa guerra dovrebbe tener conto del richiamo di 300 mila riservisti giunti anche da oltre oceano, del rimpasto del governo israeliano, e del tempo che ha preceduto l’invasione vera e propria, nonché delle problematiche sorte in seguito alla presa d’atto della gigantesca sottovalutazione delle notizie di Intelligence sui preparativi dell’assalto di Hamas, fatto sul quale le teorie complottistiche ormai dilagano in rete, riteniamo sia opportuno fare un’ulteriore osservazione. E cioè come tutto ciò offra all’articolo in esame lo spunto per esprimere ulteriori opinioni in forma di giudizio sulla potentissima propaganda sionista che si avvale della collaborazione «volontaria e prezzolata dei mass media dell’intero pianeta», messa in relazione con il «flop del famoso contrattacco ucraino e l’inevitabile rovinosa sconfitta degli amici di Biden e dei vertici dell’Unione Europea» col fine di «rafforzare la destra neocon mondiale sottraendo sempre più potere all’ONU e cercando di rendere inefficace il diritto internazionale».

In verità, in questa sede, va evitata alcuna polemica sterile che rischierebbe di spingere il confronto delle idee sul piano inclinato dello scontro. Quel che viceversa desideriamo sottolineare è che le opinioni in forma di giudizio, appunto perché prive di consistenti punti di forza fattuali, hanno talvolta bisogno di ricorrere a forme larvate di negazionismo (il 7 ottobre è un’invenzione? L’opinione pubblica italiana e/o mondiale è indifferente alle uccisioni dei civili di Gaza?) o a narrazioni che esprimono certamente convinzioni legittime, come sulla stampa settaria e prezzolata da Biden, dai suoi amici e dai vertici della UE, ma che sono appunto opinioni che conducono il loro destinatario a ritenere che, viceversa, siano i nemici di Biden e della UE gli autentici alfieri della verità (Trump? I suprematisti bianchi? Kirill? Putin? L’Ayotallah Kamenei? Orban? Le Pen? Xi Jimping? La stampa di Pechino? La Pravda moscovita?).

Con tutto ciò chi scrive non intende affatto negare l’esistenza di narrazioni manichee, presenti in chi afferma di sostenere l’uno o l’altro degli attori di questo atroce conflitto attribuendo all’uno o all’altro l’esclusiva e buona ragione delle sue azioni (infatti, pur constatando che l’omessa condanna di Hamas costituisce un vulnus sull’equilibrio e il rispetto dovuti al diritto internazionale come espressione di civiltà regolatrice dei rapporti tra le soggettività internazionali aderenti alle N.U., salutiamo con favore la recente Risoluzione che ha chiesto a gran maggioranza il cessate il fuoco nella Striscia), ma desideriamo richiamare il lettore all’esercizio di una sana capacità di approccio critico agli eventi, sulla scorta, però, della consapevolezza di cosa è in gioco quando si tratta di distinguere tra l’opinione e il giudizio, sul quale spenderemo ancora qualche parola.

Ora, se tutti possono facilmente concordare sul significato e sul senso delle opinioni, attraverso le quali si esprime il sentire di ciascuno, alimentato dal complesso delle credenze intese come la luce che illumina i fatti sotto esame, e considerato che le credenze non sono l’espressione di pensieri maturati in mala fede, bensì la necessaria adesione a quanto si crede sia la verità in conseguenza dell’affidamento che ciascuno attribuisce alla fonte della credenza, ben diversa è la sostanza del giudizio, talché riteniamo pericolosa e fuorviante la confusione tra le due operazioni cognitive. Questo soprattutto quando, come abbiamo anticipato in apertura, l’opinione viene espressa in forma di giudizio, poiché al giudizio si perviene attraverso un differente meccanismo cognitivo.

Sorvolando sul significato e la natura del giudizio processuale, che è comunque vincolato alla ferrea regola delle modalità di acquisizione delle informazioni (le prove documentali, testimoniali e i risultati delle indagini scientifiche, cioè le perizie) e ad altrettante vincolanti modalità di interpretazione, il fatto che in ogni forma di giudizio sia presente un principio connesso con la libertà delle valutazione delle informazioni acquisite (cioè con l’esercizio libero della volontà nell’approccio al complesso dei dati in esame), tutto ciò non esonera il giudizio dal rispondere a un rigoroso stress test sulla verità che esprime.

Se questa affermazione sembra banale, non lo è la sua premessa, che impone non la scelta tra il vero e il falso, che sarebbe una mera tautologia, bensì una scelta tra il bene e il male, poiché implicita nella scelta del falso invece del vero, sta la scelta del male invece del bene, cosa del tutto legittima quando si manifesta un’opinione, talvolta stretta fra la necessità di percorrere la strada disagiata della falsificazione in vista di un approdo a una supposta utile verità, per quanto fittizia sia, quando l’alternativa condurrebbe a un’opinione così priva di sostegno da mostrare lampante la sua infondatezza. Viceversa il giudizio è strettamente connesso al senso che gli corrisponde: il giusto, cioè il senso comune che orienta gli esseri umani nel mondo, senso comune sul quale non esiste però un pensiero condiviso. E questa, ripetiamo, è la ragione per la quale trasmettere opinioni in forma di giudizio è operazione pericolosa e fautrice di danno morale. Questo danno altresì è così elevato da causare conseguenze terribili, così come sono state quelle causate nel secolo appena trascorso quando la legge morale crollò più volte sotto il peso seduttivo dei totalitarismi.

Ciò detto ne consegue che il giudizio attiene alla relazione dell’agire umano in rapporto con quel che è ritenuto bene e quel che è ritenuto male, dove fare il bene e non fare il male non esauriscono il senso comune dell’agire umano, essendo entrambe condotte facilmente definibili e individuabili, poiché tralascia il secondo aspetto dell’agire (che è poi quello oggetto del presente lavoro, atteso che anche il pensiero è una forma di azione, che, per le sue conseguenze, si è spesso dimostrata nel bene e nel male più efficace delle condotte materiali). Vogliamo dire che se fare il bene consiste pure nel combattere il male, fare il male consiste pure nel combattere il bene.

2570071725679_0_0_424_0_75Allora raccontare una guerra, prendere posizione sugli attori che la combattono, cercarne le ragioni, trovare i presupposti di fatto e quelli ideali, attribuire legittimità o illegittimità alle azioni belliche, significa scegliere con cautela e attenzione non solo tra le opzioni interpretative in gioco, ma soprattutto capire dove, in tutto ciò, si innervino le categorie del bene e del male, e farle diventare oggetto di esame e di giudizio, poiché, come disse Hanna Harendt: «Premesso che non esiste alcuna legge naturale, poiché volta a volta si è definita tale quella che rispondeva meglio alle esigenze di chi voleva porla (la legge dei marxisti, il darwinismo selettivo dei nazisti, il decalogo cristiano) ne consegue l’attualità della domanda di Socrate: -Gli Dei amano il bene perché è bene, e noi chiamiamo bene quel che amano gli Dei?- Quindi neppure il bene e la sua ricerca è legge naturale, ma è il concetto di bene a essere il frutto di elaborazione artificiale» (Hanna Arendt, in Responsabilità e giudizio, Einaudi, 2004: 55).

Ne consegue che attribuire l’idea di giusto alla causa contenuta nello Statuto di Hamas significa scavalcare la ricerca dei fondamenti del giudizio, utilizzando una categoria precostituita di morale, quella coranica, e per converso, attribuire sic et simpliciter alle operazioni belliche israeliane nella Striscia di Gaza il parametro del giusto che combatte il male, talché si giustificano per questo motivo i crimini commessi in violazione delle norme del diritto internazionale di guerra, unico parametro artificiale che consente di effettuare la detta distinzione, significa formulare due giudizi farlocchi.

Prima di concludere queste brevi note che abbisognerebbero di ben altri spazi argomentativi, vogliamo richiamare brevemente l’attenzione sulla legge morale, frutto degli eventi e distillato di operazioni cognitive e giuridiche sulle loro conseguenze, e sulle parole spese pocanzi nel tentativo di mostrare due aspetti del nostro ‘dialogo’. Il primo verte sulle ragioni per le quali, al termine della Seconda guerra mondiale, la fine delle ostilità belliche avesse comportato l’accettazione delle modificazioni in fatto e in diritto del nostro continente.

Nella specie, vogliamo ricordare quanto accadde all’Italia, che non rimase in stato di guerra permanente con la Yugoslavia (con la quale addivenne al trattato di pace di Parigi del 1947), che aveva infoibato alcune migliaia di italiani ed espulso altri 350 mila, confiscandone beni e proprietà e cacciandoli nudi e crudi oltre il confine, fatto analogo a molti altri in quasi tutta Europa. Allo stesso modo l’abbraccio tra Sadat e Begin a Camp David nel 1978 che portò al trattato di pace del 26.3.79 firmato a Washington. Eventi sui quali un giudizio sano consente di mettere in relazione il concetto di giusto con quello di bene: tra i due Stati terminò lo stato di guerra, ci fu lo scambio degli ambasciatori e finirono non solo le uccisioni reciproche, ma mutò la stessa percezione del nemico, sol che si pensi alle parole di Golda Meyr quando disse: «O arabi, noi vi potremmo perdonare un giorno per aver ucciso i nostri figli, ma non potremo mai perdonarvi per averci costretto a uccidere i vostri». Eppure quel perdono giunse. Ma esprimere un giudizio di condanna su tale evento significa falsificare il concetto stesso di giudizio riducendolo a opinione.

Il secondo aspetto attiene proprio al significato di come e perché la legge morale sia un prodotto artificiale degli eventi. Infatti, poiché le tragedie della guerra modificano la percezione del bene e del male, ne consegue che la ricerca e l’ottenimento della pace avviene attraverso un percorso morale diverso da quello che conduce al conflitto: quando i due contendenti firmano il trattato, fanno la pace, attribuiscono a questo evento un valore morale (e perciò la sua infrazione significa tradimento, talché si comprendono gli arzigogoli verbali di chi lo infrange per giustificare la propria condotta: si pensi a Putin e alle giustificazioni della guerra che ha infranto il Memorandum di Budapest del 1994!) che le generazioni successive difficilmente sono in grado di interiorizzare, ma possono cogliere solo esaminando quel trattato come un dato di fatto oggettivo, sulla scorta del quale formulare il giudizio. Ma il non farla, resistere ostinatamente alla prospettiva di una pace edificata sulle macerie del conflitto, progettandone la causazione di altre, rifiutare di immaginare un futuro di coesistenza significa abbrutire i principi della legge morale così come riuscirono a prospettare uomini come Altiero Spinelli e Paolo Rossi nell’esilio di Ventotene, e, in Medioriente, persone come Amoz Oz e David Grossman.

A questo punto resta un’ultima considerazione, e cioè su quale sia il senso di queste note, atteso che certamente chi scrive e probabilmente chi legge, sono e siamo persone che non hanno alcun potere, e le nostre parole, scritte o riferite da altri ad altri, se hanno una qualche forza, non hanno alcuna portata.  Eppure noi vogliamo credere che abbiano la forza del c.d. effetto farfalla, il cui minimo battito d’ali possa causare un tornado dall’altra parte del mondo, e confidiamo nel sogno che chiunque di noi possa essere quella farfalla.

Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024

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Roberto Settembre, entrato in magistratura nel 1979, ne ha percorso tutta la carriera fino al collocamento a riposo nel 2012, dopo essere stato il giudice della Corte di Appello di Genova estensore della sentenza di secondo grado sui fatti della Caserma di Bolzaneto in occasione del G8 2001. Ha scritto per Einaudi Gridavano e piangevano, edito nel 2014. Si è sempre occupato di letteratura, pubblicando racconti, poesie, recensioni sulle riviste “Indizi”, “Resine”, “Nuova Prosa”, “La Rivista abruzzese” e il “Grande Vetro”. Con lo pseudonimo di Bruno Stebe ha pubblicato nel 1992 il romanzo Eufolo per Marietti di Genova e nel 1995 I racconti del doppio e dell’inganno per la Biblioteca del Vascello nonché la quadrilogia Pulizia etica per Robin edizioni e nel 2020 Virus e Cherie con la Rivista Abruzzese. Attualmente è collaboratore di “Altreconomia”.

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