di Settimio Adriani, Alessandra Broccolini, Antonella Ruscitti, Elisa Morelli, Lorenzo Quirini
Finché Re ciàncica carne brigante non s’appaga de lenticchie, recita il modo di dire dal sapore vagamente rivoluzionario di quell’area del Lazio sudorientale coincidente con la Valle del Salto, denominata Cicolano [1], che sembra racchiudere una visione popolare, probabilmente romantica, che in quel territorio si è formata e consolidata nel tempo sul ruolo sociale svolto dai briganti in epoca postunitaria. Tale visione, grossolana, approssimativa e drastica, appare però giustificativa della spinta di ribellione contro coloro che erano ritenuti i principali responsabili del miserevole stile di vita condotto dai più in quel territorio nella seconda metà del XIX secolo, condizione rimasta sostanzialmente immutata fino ad almeno la metà di quello successivo.
Privazioni, isolamento, transumanze, emigrazione; sono forse i termini che descrivono al meglio la trascorsa esistenza in quell’area, restando in ogni caso più fedeli alla realtà che non al malinconico ricordo del tempo che fu.
«Chi pecora se fa, ‘u lupu se lu magna! E per non essere pecore, si sono fatti lupi!». Questa è l’idea che Adalvino Caldarini [2] si era fatta sui briganti e il brigantaggio della sua zona, perché le altre non le conosceva. Il metodo dell’indagine storica, di indubbia utilità per l’inquadramento dei fenomeni in senso generale, e per questo fondamentale e irrinunciabile, mostra però delle lacune, che sembrano diventare sempre più ampie quando ci si riferisce alle classi subalterne. Per tentare di colmarle, anche se solo in parte, non resta che appellarsi ai frammenti della memoria storica che non siano andati definitivamente perduti.
Per il Cicolano (ma non solo) non è una novità che «le fonti manoscritte consultate [negli archivi] permettono di individuare facilmente una ‘principale’ classe sociale, quella, cioè, dei proprietari terrieri e di bestiame, i ‘più probi e abili cittadini’, le persone, ‘le più idonee, legali, istruite che godono la confidenza dei popoli’. Scarse sono invece le indicazioni circa la classe definita indigente o dei ‘veri poveri’, o dei ‘più miserabili cittadini’» [3].
E i numeri lasciano poco spazio all’interpretazione. Dallo Stato di popolazione della Parrocchia di Fiamignano (1838 – 1839) [4] la popolazione, di 577 abitanti, risulta così ripartita:
- 330 contadini (57%)
- 70 possidenti [5] (12%)
- 22 mendici (04%)
- 9 artigiani (02%)
- 6 frati (01%)
- 4 preti (01%)
- 4 impiegati (01%)
- 132 [altre categorie calcolate per differenza] (23%)
Nell’ambito di questo equilibrio sociale, chi sarà stato nelle condizioni di poter produrre ‘i documenti che fanno la storia’? Una indicazione fondamentale a riguardo può scaturire da un lato dalla presa d’atto dei rapporti di potere in essere tra le diverse categorie sociali, e dall’altro attraverso la verifica della ricorrenza degli eventi correlati alle ‘famiglie bene’ che si rinvengono nel volume di Domenico Lugini, risalente al 1907 [6], che senza ombra di dubbio costituisce il cardine della storia ufficiale dell’intero Cicolano.
L’autore, chiamando popoletto [7] e plebaglia [8] la gente comune, ricorda anche che nel 1860, anno in cui ebbe inizio il fenomeno del brigantaggio, era sindaco del comune di Fiamignano il signor Oreste Martelli. Che suo fratello Don Eugenio Martelli era parroco di Radicaro [9], e, come se non bastasse, che il sig. Odoardo Martelli era il capitano della guardia nazionale della Petrella [10]. Inoltre, i militi di quel corpo accorsi a Fiamignano il 30 ottobre del medesimo anno per sedare una fantomatica sommossa, trovarono accoglienza e riparo presso la dimora del sig. Domenico Martelli, cugino del capitano [11]. Nel 1866, quando la banda di Domenicantonio Orfei fu indotta a consegnarsi spontaneamente alla legge, ad accoglierli, oltre alle cariche istituzionali della prefettura de L’Aquila, c’erano Francesco Mozzetti ed i sacerdoti Ottavio e Damaso Mozzetti [12] (del carattere di don Ottavio si parlerà più avanti). A Petrella Salto, altro comune del Cicolano, il 30 novembre 1860, fu ricostituito il corpo delle guardie nazionali che contava 205 iscritti ed aveva come capocompagnia Francesco Mozzetti [13]. Nel 1861 il sindaco del comune di Pescorocchiano era il sig. Antonio Iacobelli, residente nella frazione di Girgenti [14].
E le cose non cambiano di molto pur facendo riferimento sia agli scritti più recenti di altri autori sia ai verbali delle visite pastorali.
Il 9 aprile 1897, dopo una scarcerazione, l’ormai cinquantanovenne brigante Berardino Viola, originario di Teglieto, nel Cicolano, venne condotto da due carabinieri di fronte al sindaco di Petrella Salto, che era Giuseppe Maoli [15]. Come se non bastasse, dagli atti della Corte d’Assise del Circolo de L’Aquila, in merito al processo a carico di Berardino Viola per il taglieggiamento dello stesso a carico di Carlo Mozzetti, si evince che il Cancelliere del dibattimento era un certo Luigi Mozzetti, sicuramente parente di Carlo. «[...] questo conferma, ancora una volta, la non equità dei tribunali militari» [16].
Dai verbali delle visite pastorali risulta che
«[nel 1832 il vescovo mons. Gabriele Ferretti] era partito da Pagliare scortato dai Mozzetti, grossi proprietari del luogo di cui era stato ospite, i quali lo accompagnarono fino a Rascino, dove, in un loro casolare, gli offrirono una ‘campestre refezione’. [Sette anni più tardi,] Trovandosi [il vescovo Curoli sul finire del 1839, a Fiamignano] ed essendo stato invitato cordialmente dai signori Mozzetti di Pagliare a vedere il lago di Rascino […] la mattina del 30 luglio si partì […] Una dozzina d’anni più tardi, qualcosa di simile capitava al successore Carletti [vescovo] sempre nel Cicolano. Mentre si trovava a S. Anatolia, ospite, come al solito, dai Placidi, venne invitato a casa sua dal barone Vincenzo Masciarelli, della contermine Magliano [Nella medesima visita pastorale del 1851, a Campolano il vescovo fu ospite in casa Gregori,] l’unica famiglia che possa ricevere forastieri [...]» [17].
La sudditanza pressoché totale di paesi interi rispetto ai potentati locali si protrasse pressoché inalterata fino alla prima metà del 1900. A tale proposito il Sarego scrive: «[...] il preminente modulo d’occupazione lavorativa resta offerta dai grossi armentari, che riuniscono nella propria industria numerose persone, e a volte – come Maoli a Petrella Salto – un intero paese» [18]. Chiunque conosca a fondo il Cicolano non esiterebbe neanche un istante a identificare nei Lugini, Martelli, Mozzetti, Iacobelli, Maoli, Placidi e Gregori gran parte delle famiglie più influenti del territorio, almeno fino alla prima metà del XX secolo.
I verbali delle visite pastorali sono utili anche per inquadrare le condizioni sociali della popolazione. Per il 1828 risulta che a Pescorocchiano «[...] miserabili sono gli abitanti e sterile il territorio; non v’è una famiglia la quale viva con un certo decoro [...]» [19]. Sul finire dello stesso secolo
«Le abitazioni in generale sono [...] anguste e mal condizionate, luride nell’interno e nell’esterno, con finestre piccole [...]. Il fumo, il vento, l’acqua, e spesso anche la neve […] penetrano nel loro interno. [...] confinano spesso colle stalle sottostanti [...] il letame si addossa alle pareti interne ed esterne» [20].
La maggior parte dei contadini non vive in case coloniche ma in paese e molti hanno il nauseante costume di dividere con gli animali l’umile abituro, raccogliendo sotto il medesimo tetto, nella medesima stamberga, la moglie, i figliuoli, il letame e il porco. «Turiamoci le nari, per carità!! [Il male sta] nel tenere le stalle all’interno dell’abitato» [21].
«Prima del 1860 all’Agricoltura non era concesso progredire nelle Province Meridionali, perché non vi erano che poche scuole pratiche e poche colonie agricole, scarsi erano i mezzi, ristrette le istruzioni, pessime le amministrazioni, poche le strade di comunicazione, pochi gli strumenti agricoli, e tutto l’insegnamento si basava sulla tradizione» [22].
Ci vorrà ancora mezzo secolo affinché l’analfabetismo inizi ad essere combattuto.
«Fino nel cuore di questa montagna – e precisamente sull’altopiano di Rascino – agli inizi del [XX] secolo arriva lo Stato con le scuole ambulanti estive fra i pastori per combattere – così s’esprime uno dei maestri che vi opera, Antonio Ranucci, – l’analfabetismo che vi si annida» [23].
Ma le ristrettezze non sembrano aver mai minato l’attaccamento della gente al territorio d’origine, anzi. «La vita [dei pastori] è davvero miserrima; eppure sia per abitudine, sia per seguire la vita dei loro padri, si affezionano talmente a quel sistema, che non sanno staccarsene. Messi in altro posto i nostri pastori si trovano fuori di centro e non desiderano che tornare sui monti a guardare le greggi» [24]. È questo il contesto sociale in cui, nel Cicolano, il fenomeno del brigantaggio si origina, afferma ed evolve.
Il Lorenzetti fornisce un quadro sintetico della composizione sociale delle bande di briganti operanti nell’ex Circondario di Cittaducale, comprendente, per quanto riguarda il Cicolano, i comuni di Borgorose, Pescorocchiano, Fiamignano e Petrella Salto [25].
L’autore esplicita la propria idea in merito al ruolo rivestito dai fuorilegge nelle dinamiche sociali di quel territorio:
«Se nella nostra cultura il brigante che ruba al ricco per donare al povero compie una azione eclatante dipinta con profonde venature romantico-populistiche, nel contesto delle interrelazioni brigantaggio-mondo contadino tutto questo è molto meno vero nella misura in cui tali azioni sono considerate normale prassi all’interno di un equilibrio che entrambe le parti sorreggono. […] il brigantaggio […] non è stato una lotta di classe ma si è posto in luogo di essa costituendo uno dei tanti momenti di assestamento della classe contadina meridionale al non certo indolore processo di trasformazione sociale, culturale e politico delle campagne italiane che vennero precipitosamente proiettate dalla millenaria dimensione semifeudale a quella borghese capitalistica» [26].
Accanto all’opinione dello studioso si affianca il ricordo, eccezionalmente scritto, che il pastore (e poeta) Luigi Adriani [27] appuntò nelle sue preziose memorie dopo meno di un secolo dai fatti e facendo esplicito riferimento alla tradizionale trasmissione orale dei saperi: «[...] mi raccontava un vecchio degno di fede [...]» [28]:
D’altra parte il fenomeno del brigantaggio, seppure circoscritto ad un particolare periodo storico, è fuoriuscito dall’epoca che gli appartiene non solo radicandosi nella cultura popolare del passato (e lo testimoniano la memoria e la poesia popolare fiorita intorno al figura del brigante), ma ha lasciato tracce profonde nel contemporaneo; tracce che hanno portato ad una trasformazione dell’immagine del brigante, da delinquente a personaggio storico noto, figura controversa, ma da commemorare, da ricordare e oggi da “patrimonializzare”, anche a livello museale [29]. Briganti come Domenico Tiburzi nel viterbese, Fra’ Diavolo nel basso Lazio e Berardino Viola nel Cicolano, sono figure certo controverse la cui memoria non pacificata richiede ancora oggi testimonianza ed elaborazione ma che oggi, superato l’orizzonte storico che li aveva prodotti, hanno mostrato una “vitalità simbolica” che nel tempo sembra essere cresciuta [30].
Per provare a comprendere quale fosse l’opinione della gente comune (o quantomeno di una sua parte) del complesso fenomeno del brigantaggio e dei singoli briganti che operarono nel Cicolano, non essendo disponibili specifici documenti d’archivio provenienti “dal basso”, sulla scorta di quanto già emerso dall’analisi dei racconti di tradizione orale sul tema [31] può essere utile leggere i contenuti di 15 brevi poesie inedite, anch’esse di tradizione orale [32], raccolte dalla Pro Loco di Fiamignano durante un’indagine condotta dai primi anni Settanta del secolo scorso.
Ciò che sorprese fin dal primo approccio fu l’inattesa raffinatezza di alcuni componimenti e l’estrema varietà delle tematiche trattate dai pastori poeti. La stessa sorpresa che ebbe e testimoniò alla fine dell’Ottocento Antonio De Nino: «Ho assistito [...] alla sfida di due pastori con canto e poesia; e dove ne scavassero tante, io non so» [33]. Per poi scoprire che, pur semianalfabeti, al seguito delle greggi era consuetudine che leggessero molto, al punto che non erano pochi quelli che potevano vantarsi di sapere a memoria alcuni testi classici come l’Orlando Furioso, La Gerusalemme Liberata, La Secchia Rapita, il Malmantile Riacquistato, ed altri ancora [34].
È sulla consapevolezza che i documenti analizzati dalla storiografia ufficiale provengono “dall’alto” e che quindi rappresentano i fatti esclusivamente secondo la visuale del ceto dominante che gioca la prima ottava rima [35] in esame:
«Farabutti ‘sti briganti?
Grassatori senza cuore?
Nella storia stan tra i vinti
ma l’ha scritta il senatore.
Oltraggiarli? State attenti:
non è ricco e fu pastore,
se setacci i loro eredi
non ci trovi quel che credi!» [36].
L’autore non si limita a dare il suo personale giudizio sulla legittimità dei documenti d’archivio, ma fornisce una strategia per verificare il mancato arricchimento dei briganti stessi, e non nasconde l’assoluta certezza sull’esito di eventuali indagini a riguardo.
È il pastore Berardino Cesarini che, dopo aver sottolineato la diffusa provenienza pastorale dei briganti, ribadisce che gli stessi non hanno accumulato ricchezze, abitano in case fatiscenti e sono benefattori dei più poveri.
«Prim’avéa passóne ‘é nocchia [37]
mó fuggiàscu è pé’ la macchia.
Come mai, oh, accipicchia:
tantu grassa, pócu accùcchia
e pé’ casa ha catapecchia?
Lo consideri un ladrone,
o dei miseri fa il bene?» [38].
Ancora più esplicita è l’ottava rima di Berardino Lodi, che dopo aver ribadito che i briganti, quelli veri, non tengono nulla per loro stessi, chiarisce poi che sono i signori a dover temere per le loro greggi, e puntualizza quale sia l’area degli scontri e delle fughe: lo spartiacque tra le valli aquilana e cicolana.
«Chi ‘u brigante fa per arte
men di nulla di suo tiene
ai signori brutta sorte
delle greggi lascian lane.
‘Ellà jace Tornimparte
‘é qua terre cicolane.
Torrecane, Nória e Cóppi
sò’ le terre délli schióppi» [39].
Ma la capacità di fare satira in rima non è una prerogativa del «basso popolo» o «plebaglia», per dirla con il Lugini; anche Antonio Giordani [40], possidente, nella seguente eptastica [41] dice la sua in merito alla questione.
«Fa de forza e prepotenza
pé’ rempìsse a sbafu ‘a panza
mentre canta: “Unza unza …”
chiappa ‘a coppa, spicca ‘a lonza
òpre ‘a càssia có’ la pinza.
Egli è un nullafacente
mmascaràtu da brigante» [42].
E i briganti non ne escono certamente bene, essendo descritti come nullafacenti e prepotenti che mangiano a sbafo derubando allegramente. Ma la chiosa lascia spazio a qualche dubbio: chi opera in tal modo è mascherato da brigante: quindi forse non lo è? Ma è rispetto alle malefatte vicende della vita di tutti i giorni che qualcuno chiama a giudice (dispotico) il brigante, l’unico che può risolvere a modo suo, ma almeno li risolve, gli imbrogli di chi comanda ad esclusivo beneficio di coloro che appartengono allo stesso ceto.
Ed è sufficiente la presunta asta pilotata di un bosco demaniale affinché chi ritiene di non poter fare altro si ritenga autorizzato ad auspicare l’intervento di chi nell’immaginario comune non teme nulla e nessuno.
«‘A montagna e jita all’asta
s’è refàtta cosa ingiusta
mentre Sor battea la pista
che attraversa la foresta
‘nu brigante sta alla posta:
“Giù dal carro, qua il malloppo,
e mo fuji … e se te chiappo!”» [43].
Il bosco, meglio se oscuro e impenetrabile, è solitamente descritto come il regno incontrastato dei briganti, e chi passa di lì deve temere, soprattutto se benestante. Che si abbia beneficiato di un’asta truffaldina sia che si vada o si provenga dal mulino, il brigante ha l’onorevole compito («bella sorte») di derubare il ricco malcapitato e, imprendibile com’è, svanire rifugiandosi al di là dei monti.
«Sor che sórdi ha có’ la pala
carecàta ch’ha la mula
léstu sbia vérsu la mola.
Mentre che la macchia sfila
tròa ‘u brigante che lu pela,
fatta ch’ha sta bella sorte
se rifugia a Tornimparte» [44].
Ancora più sprezzante è la strofa di Domenico Fabi, che parla dei briganti riferendosi ai politici, tutti. In modo spicciolo non esita definirli corrotti e li individua come il vero problema delle amministrazioni che sono chiamati a condurre. Poi chiama esplicitamente in causa i briganti, e mentre lui si pone di fronte al dubbio di quale sia la loro etica reale, la politica va per le spicciole: sono un problema? Li facciamo fuori!
«Tutti téngu i baffi unti
la disgrazia sò’ degl’Enti
sia chi ha perso i voti o vinti:
ci sarvàsseru i briganti
veri eroi, oppur sò’ tonti?
“Per noi sono una minaccia?
Ne fecémo oggetto ‘é caccia!”» [45].
Particolarmente intrigante è l’eptastica di Aurelio Giuliani, che non si limita alla semplice descrizione degli eventi ma solleva alcuni dubbi. Proseguendo sul parallelismo politici e briganti, che qui diventa padroni e briganti, induce ad una riflessione: visto che entrambi ci predano, dice il poeta, quale tra le due categorie è meno faticoso dover sopportare? E poi confessa i perché della sua scelta di campo, che forse è basata sulla funzione del “restituire”, attribuita ai briganti, che è completamente diverso dal semplice “dare” ai «cafoni» ciò che si sottrae ai «padroni».
«N’é passata jó pe’ i fossi
d’acqua ch’ha’llisciati i sassi
ma i più tósti non li smussi:
chi sò’ meglio quìlli o quìssi
predator de’ nostre messi?
Sto con chi grassa i padroni
per ridarlo a noi cafoni!» [46].
Lo schierarsi, almeno sentimentalmente, a fianco dei briganti e contro i padroni si manifesta anche attraverso la dichiarazione di omertà consapevole. Secondo Margherita Rossetti, l’autrice della seguente eptastica, il popolo intero sa dov’è Berardino Viola, brigante «audace ed insolente», che non piegò mai la testa di fronte ai potenti, ai quali, anzi, rubò le pecore e allentò i lacci della borsa. Nessuno, però, lo ha mai rivelato alla legge.
«Fu il terribile brigante
tosto audace ed insolente
ai Sor mai lui diede vinte
prima gl’ha pecora munte
e poi capicciòle sjónte.
Tutti sau: “Berardu briga”
ma alla legge lo ‘ice brega!» [47].
In riferimento al contesto sociale in cui il brigantaggio è fiorito nel Cicolano, e ai rapporti esistenti tra «basso popolo» e briganti, il 30 ottobre 1860 così scriveva un anonimo al generale comandante delle truppe piemontesi:
«Mi onoro […] indicargli gli autori della reazione accaduta nel circondario di Fiamignano il giorno 28 dello spirante ottobre e sono quelli al margine segnati; quali sono tutti protetti dal basso popolo atteso che gli danno da vivere e gl’insinuano a far sorgere rivoluzioni […]» [48].
Diametralmente opposta alla posizione della popolana Rossetti c’è quella del possidente Antonio Giordani, che, invece, non esiterebbe neanche un attimo a fornire tutte le indicazioni utili a far catturare quegli «aggregati» di manigoldi.
«Aggregati sono i peggio
chi è per bene fan tremare
pronto sò’ a farli perire
stanno là, nell’ antro al Poggio» [49].
A rincarare la dose sul brigante Berardino Viola c’è l’eptastica che il pastore Adolfo Fabrizi attribuiva al suo padrone, il ricco e potente Eligio Maoli.
«È pervaso dall’invidia
non sa amare, solo odia
chi ha molti beni assedia
quando va arraffa e sbùdia [50]
la dispensa e poi la madia.
Berardino reo brigante,
è il terrore della gente» [51].
In questo modo il possidente, dal suo punto di vista, descrive in un’eptastica la perfidia assoluta del brigante, e chiude con un giudizio che in realtà non trapela dalle rime dei popolani disponibili e qui esaminate.
Luigi Adriani, pastore fiamignanese che ha frequentato la terza elementare [52], che al seguito del gregge ha letto e riletto durante tutta la sua vita il Tasso e l’Ariosto, forse rifacendosi ad un caso noto di taglieggio di grano da parte di Berardino Viola a scapito della potente famiglia fiamignanese dei Martelli [53] (esagerando per esprimere il concetto, i loro possedimenti vengono descritti dall’Adriani come estesi dal fondovalle alla cima dei monti), racconta che i possidenti non sono né buoni né cattivi, sono possidenti e basta, ma, al giungere della calura estiva, il brigante interviene per rimettere a posto i conti!
«Nó’ è bontà né cattiveria
ai Sor qui fa bene l’aria
tuttu ‘ó sé da fiume a Noria
quanno tira ventu ‘e Siria
al brigante scatta ‘a furia:
tutti a mète, è la calura,
del taglieggio è giunta l’ora» [54].
Il pastore Berardino Cesarini così si esprimeva in rima, riferendosi all’ormai vecchio Maoli, forse il più grande e influente armentiero della valle:
«Ci sta ‘llu schifùsu vécchiu
tè ‘u biscìnu ch’è nuàcchiu
i montùni mette a sìcchiu
e de sordi ha fattu mùcchiu.
Io me ci lu gioco n’ócchiu:
ha sfruttata ‘a pòra gente
e brigante non sa gnénte!» [55].
Secondo Cesarini, la ricchezza accumulata è il frutto esclusivo dell’avarizia e della povertà dei dipendenti, ovviamente tutto all’insaputa del brigante, altrimenti probabilmente l’esito sarebbe stato un altro. E i prelati come si ponevano in questa diatriba? Fino a qui sembrano esserne rimasti salomonicamente fuori, e forse ci sarebbero rimasti definitivamente se non fosse intervenuto questo sonetto di Adolfo Fabrizi:
«Si diletta a fare il prete
la sua gente mette in riga
ha potere, e la castiga,
non conosce fame e sete.
Se ha un male è la diabete
punta al grosso, no alla spiga
verso lui qualcuno briga
questo è un caso, riflettete:
del buon Dio egl’è Ministro
ma dei miseri s’infischia,
se ai suoi pari fa l’inchino
sborda l’oro dal taschino.
Ma se d’altri il fondo raschia,
viè il brigante e fa sequestro!» [56].
Per il poeta, «la diabete», e non “il diabete”, rappresenta per i prelati il segno tangibile di una vita di benessere, se non addirittura di opulenza. Il prete del sonetto, infatti, a differenza della gente comune «non conosce fame e sete». Non a caso, scrive il di Flavio: «[...] 94 ordinati su 100 dispongono di un patrimonio. Quando tale disponibilità veniva a mancare, le possibilità di aspirare al sacerdozio si riducevano al solo 6%» [57].
Sull’estrazione sociale dei sacerdoti cicolani e della loro condotta di vita non sempre irreprensibile, molto ha scritto di Flavio [58]. Dalla sua stima risulta che il 2% ha lasciato l’abito talare per unirsi alle bande ribelli, ma non mancano le indicazioni di atteggiamenti non proprio favorevoli al «popolino». Atteggiamenti spesso condotti con il benestare, anche se tacito, dei livelli superiori. La lettera che segue ne è esempio significativo del contesto sociale del tempo e del potere assoluto detenuto dai religiosi. Quella che segue è una lettera inviata nel 1858 dal vicario di Petrella, il già citato don Ottavio Mozzetti, al vescovo di Rieti:
«L’arciprete di Capradosso ha dato qualche schiaffo in chiesa alla donnucciola Gemma Calonzi. Ha fatto ottimamente bene. È poco, anzi doveva servirsi del bastone, poiché codeste bacarozze vanno in chiesa per disonorare e non per lodare il Signore. Là si raccontano tutti i fatti del paese, là si ritrovano i morti, i vivi, quelli che hanno da nascere; là insomma fra loro si ritrovano tutte le corna. Anch’io talvolta in simili circostanze sono ricorso al nervo, che tengo appeso in sagrestia, Monsignore lo ha visto. Se perciò deve essere punito l’arciprete di Capradosso, anch’io, trovandomi reo dello stesso delitto, merito la pena di questo. Monsignor vicario, non gli schiaffi, non il bastone, non il nervo ci vorrebbe oggi nelle chiese, ma i fucili, ma le sciabole, e bene affilate» [59].
I toni usati dal prete e il fatto che il vescovo ne sia al corrente e non risulta agli atti una sua ferma presa di posizione di contrasto non lascia spazio a personalistiche interpretazioni.
È Romolo Lodi a dirci senza mezzi termini chi, secondo lui, è in grado a far realmente fronte allo strapotere vigente.
«Chi è che accosta ‘a pòra gente
e ai signori sa far fronte
si ribella e non dà vinte
ógne fette mai state unte?
Non pò’ esser che un brigante!» [60].
“Brigante” è un termine che, nel tempo, a livello locale ha assunto un significato del tutto particolare, nel dialetto è sinonimo di “monello”, così come è chiaramente esplicitato dal seguente stornello:
«Fiore cocente,
‘stu monellàcciu mé’ è ‘nu brigante,
abbaia e rigna ma … pó’ nón fa gnénte».
Ancora oggi l’appellativo viene affibbiato ai bambini particolarmente vispi, imprevedibili, che ne combinavano di tutti i colori, ma non è, in quell’accezione, sinonimo di delinquente. Anzi, al contrario, una precisa funzione terrificante è stata attribuita a chi i briganti li ha combattuti.
«Èsso Pinéllu!» [61], parimenti al fantomatico arrivo dell’orco o del lupo, sottolinea Carrozzoni, era questo lo spauracchio utilizzato, dopo la conquista dei Savoia, dalle madri abruzzesi per intimorire i bambini indisciplinati. Il Generale Ferdinando Pinelli (1810-1865), localmente chiamato Pinéllu, si distinse per la lotta senza quartiere che condusse contro briganti e brigantaggio, e per questo, con regio decreto del 9 febbraio 1862, fu decorato con medaglia d’oro. Ecco la motivazione «Per i soddisfacenti risultati ottenuti col suo coraggio e per l’instancabile sua operosità nella persecuzione del brigantaggio nelle provincie napoletane nel 1861» [62].
Insomma, se il brigantaggio è stato debellato e i briganti classificati dalla storiografia ufficiale «manigoldi», ben diversa sembrerebbe essere l’opinione del «popolino». Ancora oggi, dopo un secolo e mezzo dalla fine del fenomeno, è in uso nel Cicolano un modo di dire che lascia pensare:A brigante, brigante e mezzo! [63].