Stampa Articolo

Burocrazia, barriere e progetti: vite in transito e identità sessuali soffocate

Lampedusa (ph. Anna Maria Francioni)

Lampedusa (ph. Anna Maria Francioni)

di Anna Maria Francioni 

Lottando per non occupare l’unico ruolo che la società sembra aver offerto loro, un numero considerevole di esseri umani tenta di liberare la propria agency ipotecata. Schiacciati dal potere religioso, secolare e biologico che, in modi diversi, ma da sempre ben amalgamati, stabiliscono norme e comportamenti ritenuti corretti all’interno della società, in alcuni Paesi, tutt’ora esistono pene severe per chi non si conforma agli standard sessuali tradizionali, secondo i quali le devianze sono spesso trattate come inguaribili malattie [1]. La filigrana di una migrazione di per sé costellata di difficoltà si complica quando, alle paure condivise di tutta questa parte di popolazione con specifiche esigenze, comuni ma non identiche, si aggiunge quella di incontrare Stati, istituzioni e comunità ostili e, talvolta, anche violenti nei confronti delle persone con orientamenti sessuali non conformi. 

Ad esempio, in molti Paesi del Medio Oriente e dell’Africa, le persone LGBT+ possono affrontare severe punizioni legali e sociali se vengono scoperte o se dichiarano apertamente i propri orientamenti sessuali [2]. La legge italiana con il decreto legislativo 18/2014 ha recepito la direttiva europea 2011/95/UE che riconosce la persecuzione per motivi legati all’orientamento sessuale come una delle ragioni per la concessione dello status di rifugiato.

Lampedusa (ph. Anna Maria Francioni)

Lampedusa (ph. Anna Maria Francioni)

Puntando il cannocchiale sulla violenza simbolica che si scaglia sui migranti che sono anche LGBT+, proprio durante la delicata e decisiva procedura di richiesta della protezione internazionale si possono osservare ostacoli ulteriori, quelli relativi alla credibilità dell’orientamento sessuale dichiarato. A tenere le redini della violenza, silente ma dominante, sui soggetti esaminati sono gli operatori delle reti territoriali che, con il delicato compito di valutare la credibilità delle dichiarazioni, perpetuano una forma di differenziazione che rievoca il ricordo della missione colonizzatrice, con il suo intento travestito di spirito sviluppista e civilizzatore e finalizzato alla distruzione di popolazioni e culture. Per i migranti LGBT+ gli ostacoli raddoppiano, perché, alla discriminazione razziale, si va ad aggiungere quella dell’orientamento sessuale, dando vita a forme di violenza strutturale molto diverse: dalla scarsa credibilità all’omissione dell’accettazione delle esperienze riportate durante la valutazione della domanda di protezione internazionale [3]. Sarebbe logico considerare le biografie individuali come modellate dai differenti codici comunicativi e valoriali, secondo i quali la mera menzione dell’identità di genere, divergente da quella designata alla nascita, spesso non ritenuta adeguata dalle Commissioni, venga integrata valutando anche ogni fattore umano, culturale e linguistico, che spesso svanisce davanti a strutture burocratiche e normative rigide. La valutazione può anche basarsi sull’accertamento psicologico, psichiatrico o medico della condizione LGBT+, come se questa fosse una devianza che necessita di una diagnosi. Questi giudizi sono totalmente illegittimi, data l’assenza di patologia e un iter di questo genere arriva a causare disagi e sofferenze.

3Si tratta di «strutture, che possono essere create e tenute in piedi solo dalla minaccia della violenza, anche se la violenza fisica non è materialmente necessaria per il normale funzionamento quotidiano» [4]. 

La collaborazione con un CAS (sistema di accoglienza dove i migranti ricevono assistenza legale, sanitaria e sociale) ha fatto sì che, in una fredda mattina di un grigio novembre, il colloquio con un ragazzo arrivato da pochi giorni in Italia mi portasse ancora più vicina alla dura esperienza che molte vittime di questo sistema disumanizzante vivono. Gli utenti oltrepassano un altro dei tanti confini, simbolici e reali, il giorno che entrano nel CAS a loro assegnato, aggiungerei, senza nessun criterio di valutazione e, quindi noncurante di separare amici e famigliari, tra loro distribuiti sul territorio italiano come merce in arrivo da Paesi lontani. Le prime giornate sono dedicate all’accoglienza base, intesa come ambientazione all’interno della struttura, fornitura kit igienico e abbigliamento. Poi arriva il giorno dell’incontro con l’utente, persona reduce da un viaggio estenuante che per la prima volta si sente trattata da essere umano sul territorio italiano, perché invitato a raccontare la sua storia di vita a qualcuno che si presume sia lì perché il suo lavoro sia fatto con amore e dedicato all’aiuto. Questo primo incontro è quasi sempre simbolico, difficilmente il racconto rispecchia la verità; timore e diffidenza sono la prima caratteristica dell’approccio.

Si apre lentamente la porta della stanza adibita ad ufficio del CAS, robusta e strisciante, una porta anni cinquanta che fatica, per l’ennesima volta, scorrendo sul pavimento, aprendo un altro varco di speranza, un nuovo giorno, per le tante persone che passano da lì ed entrano a parlare con le uniche figure che, in quel momento, possano dare loro un minimo di supporto.

Demba è alto, il suo fisico elegante e delicato; si siede composto davanti a me, mi regala un sorriso fugace e, poi, la sua mascella subito s’irrigidisce nuovamente. Cerco di metterlo a suo agio, spiegandogli lo scopo dell’incontro e facendogli capire che voglio solo aiutarlo. Non sembra fidarsi troppo, così iniziamo a parlare del viaggio in modo fugace e distratto, fino a quando non gli prendo la mano e la mia pelle infreddolita si posa su una ferita abbastanza recente, ma in fase di guarigione, che sale fino al braccio. Cosa è successo qui? Lo guardo negli occhi, un raggio di sole gli scalda i lineamenti irrigiditi, il suo sguardo si ferma per qualche istante e si pietrifica, anticipandomi che non è semplice raccontare, non è semplice fidarsi.

2Credo ci siano momenti, nel corso della vita, dove contano molto i gesti e poco le parole. Gli stringo forte le mani e le mantengo strette alle mie. Un tono gentile esce dalle sue labbra carnose, ha venticinque anni e arriva dalla Mauritania. Prima di confidare qualsiasi altra informazione alza gli occhi, ora irrorati da lacrime luccicanti e, come se dentro di lui ci fosse una spinta incontrollata, non trattiene la necessità di esternare che il suo obiettivo è raggiungere, nel Nord Europa, il suo ragazzo, partito prima di lui. Sono fidanzati da molto tempo, entrambi Mauritani, hanno vissuto la loro relazione in uno Stato non solo politicamente instabile, ma anche estremamente repressivo e violento.

Perdo parte della professionalità che in questi momenti è indispensabile e nasce una bellissima collaborazione quando le mie parole, libere, meno controllate del solito, sono capaci di alimentare una sintonia che aiuta Demba a sbloccarsi, raccontando anche le parti più intime; gli sono grata. La sua bellezza contrasta con abrasioni sparse sul suo corpo, che si aggiungono a quelle ancora strette tra le mie mani. Il viaggio che ha intrapreso gli ha riservato, oltre alla violenza che colpisce i tanti compagni, repressioni aggiuntive e pregiudizi inauditi, giustificati sulla scorta del suo orientamento sessuale non abbastanza conforme alla legge  politica, morale, secolare che, in modi diversi, ma connessi e legati tra loro, stabilisce norme e comportamenti ritenuti corretti all’interno della società. Ingegnosamente hanno abusato della sua anima, prima che della sua pelle, con cicatrici che lo accompagneranno, anche se ne ho la certezza, non ne bloccheranno il coraggio né la meta.

lgbtFile di esseri umani esausti attraversano il deserto con mezzi improvvisati e, a piedi, lasciano orme nella stessa sabbia desertica che un tempo accoglieva mercenari e beduini, nomadi e sognatori. Dentro camion stipati raggiungono a stento le coste per attraversare il rischioso e costoso viaggio nelle acque fredde del Mediterraneo. La violenza che accompagna queste dinamiche può essere fisica, perpetrata dalle cinghie, divenute fruste improvvisate di mercanti di esseri umani, o quella dei tanti funzionari di polizia che difendono Stati che sanno alzare muri davanti alle persone, ma lasciano libere le merci, e, infine, quella dei burocrati che hanno il potere di decidere chi può restare e come potrà sopravvivere.

Vittimizzate e spesso escluse, le persone meno produttive nell’attuale società neoliberista sono automaticamente immaginate come appartenenti a quella fascia di persone da disprezzare o da compatire. Se aggiungiamo un orientamento sessuale diverso da quello preposto dalla nostra società, ovvero da quello che ricalca il modello della famiglia patriarcale, non può che aggravarsi la situazione già deteriorata da una precarietà alimentata da una struttura burocratica non sempre rispettosa dei diritti umani. Ancora è lungo il percorso da compiere per Demba, perché possa essere libero di raggiungere il suo compagno che ora vive nel nord Europa, passeggiando tranquillo tra i confini del mondo. 

Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025 
Note
[1] ILGA, Annual review of the human rights situation of lesbian, gay, bisexual, trans and intersex people in Europe and central Asia, 2023
[2] UNHCR, Global roundtable on protection and solutions for lgbtiq+ people in forced displacement. Co-organized by the United Nations High Commissioner for Refugees and the United Nations Independent Expert on Protection Against Violence and Discrimination Based on Sexual Orientation and Gender Identity (IE SOGI), 07 – 29 June 2021
[3] Discrimination on grounds of sexual orientation and gender identity in Europe, 2nd edition, Council of Europe Publishing, 2011
[4] Graeber, D., (2016) Burocrazia. Perché le regole ci perseguitano e perché ci rendono felici, Il Saggiatore, Milano: 157

 _____________________________________________________________

Anna Maria Francioni, laureata in antropologia culturale ed etnologia all’Università di Bologna con votazione 110/110L, il suo principale tema di ricerca è la burocrazia rivolta ai migranti. Si occupo di progetti all’interno di CAS e cooperative di accoglienza. Ha pubblicato un libro a novembre 2023 con la casa editrice Dialoghi dal titolo: Le parole degli altri per un approccio etnopragmatico alla relatività linguistica.

______________________________________________________________

 

Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Migrazioni, Società. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>