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Busto di Venere italica. Piccolo saggio sull’autenticità, l’esecuzione e la datazione dell’opera

Replica qui attribuita ad Antonio Canova . Riferibile all’archetipo scultoreo della Venere Italica (1804-1812), marmo di Carrara, h. 171,5 cm. Galleria Palatina, Firenze

Replica qui attribuita ad Antonio Canova, databile 1812 ca,  coll.privata, Riferibile all’archetipo scultoreo della Venere Italica (1804-1812), marmo di Carrara, Galleria Palatina, Firenze

di Paolo Giansiracusa

La scultura in esame è una replica con alcune varianti del busto della Venere Italica che Antonio Canova realizzò tra il 1804 e il 1812 (Galleria Nazionale di Palazzo Pitti, Firenze). L’opera originale del Maestro dovette essere talmente apprezzata che furono diversi coloro i quali, in particolare del busto, chiesero delle riproduzioni. Come è noto per sua abitudine Canova non eseguiva mai copie identiche delle sue creazioni scultoree; realizzava invece delle repliche con opportune varianti. Si vedano in tal senso i ritratti di Napoleone Bonaparte che Canova eseguì in gran numero. I busti, fatta salva la parte fisiognomica necessaria alla somiglianza, non sono mai uguali; ognuno si caratterizza per delle peculiarità che rendono i manufatti unici ed originali [1].

La metodologia esecutiva che caratterizzava il lavoro del Canova non   consente di ipotizzare che egli eseguisse copie identiche; si può invece affermare che egli scolpisse repliche formalmente ed espressivamente legate alle invenzioni plastiche   originarie. È per tale ragione che, per il Busto di Venere in esame, propendo per una esecuzione del Maestro, collaborato come sempre dai migliori allievi della sua Scuola.

Venere Canova, Galleria Palatina

Venere italica,  Canova, 1804-1812, Galleria Palatina, Palazzo Pitti, Firenze

Come è evidente dal confronto tra la Venere fiorentina e il nostro Busto le parti plastiche furono direttamente rilevate dall’archetipo in gesso custodito nel grande atelier canoviano di Roma (oggi nella Gypsotheca di Possagno). Che sia frutto della sua rigorosa esecuzione si evince dalla freschezza del modellato, dalla morbidezza dei dettagli, dall’utilizzo dello stesso marmo (bianco statuario di Carrara), nonché dalla forma e dalle proporzioni del basamento.

La struttura d’appoggio è un plinto con il tipico rocchetto cilindrico caratterizzato da semplici modanature (toro/trochilo/toro). Lo stesso rocchetto si riscontra nel Busto della Pace (1814, marmo h.53 cm.) battuto all’asta nel 2018 da Sotheby’s a Londra; nel Busto di Beatrice (1812, gesso, cm 74 x 45 x 30) del Museo e Gypsotheca Antonio Canova di Possagno; nel Busto di Carolina Bonaparte (1813, gesso), Museo e Gypsotheca Antonio Canova di Possagno.

Venere dei Medici, copia romana della fine II sec. a, C. , Galleria Nazionale degli Uffizi, Firenze

Venere dei Medici, copia romana della fine II sec. a, C. , Galleria Nazionale degli Uffizi, Firenze

La nascita di un archetipo

Nel 1802 lo scultore Antonio Canova [2] ricevette da Ludovico di Borbone l’incarico di eseguire una copia della Venere dei Medici, ciò perché la scultura in marmo del I secolo a. C., già esposta al centro della Tribuna degli Uffizi, l’11 settembre   dello stesso anno era stata requisita dalle autorità francesi per essere esposta al Louvre. La commissione dell’opera gli fu confermata nel 1805 da Maria Luisa di Borbone. Non   si trattava di eseguire una copia della scultura antica ma di realizzare un modello di Venere del tutto originale. L’opera fu completata nel 1812 e infatti il 29 aprile dello stesso anno venne collocata nell’apposita Tribuna della Galleria fiorentina.

L’opera del Canova non sostituì quella antica, tant’è che non fu collocata sul piedistallo della mancante Venere Medicea per la quale non si era sopito il desiderio della restituzione, avvenuta poco tempo dopo, con la caduta di Napoleone. Nel 1815 lo stesso Canova, come rappresentante delle istanze dello Stato Pontificio, si recò a Parigi per curare la restituzione delle opere sottratte da Bonaparte. Nella stessa occasione curò la restituzione dell’Afrodite antica appartenuta ai Medici, copia straordinaria del perduto originale prassitelico.

Canova trasse pochi spunti dalla Venere ellenistica. Immaginò la sua dea come una bella donna che, dopo essere uscita dal bagno, si asciuga. Il nuovo modello canoviano incontrò il parere positivo degli intellettuali del tempo; a favore dell’opera si espresse anche Ugo Foscolo che ne apprezzò i tratti umani, a differenza della freddezza dell’Afrodite classica [3]. Alla copia romana Canova si ispirò idealmente, reinterpretandone la bellezza dell’incarnato, il movimento del corpo, le torniture felici e l’anatomia perfetta. Lo scultore, puntando al rinnovamento dell’estetica neoclassica, invece di eseguire una copia del marmo antico, realizzò una nuova creazione formale ed espressiva. La sua Venere fu chiamata “italica”, quasi a rivendicare l’orgoglio nazionale. L’opera sottratta alla città di Firenze, e quindi alla civiltà artistica italiana, era stata in tal modo brillantemente rimpiazzata.

Venere italica,  Pietro Fontana (1787-1858), 1820 c., Villa Carlotta, tremezo

Venere italica, Pietro Fontana (1787-1858), 1820 c., Villa Carlotta, Tremezzo

Nella bottega di Antonio Canova le numerose committenze, relative in particolare alle opere più celebri e a quelle maggiormente apprezzate, facendo leva sui gessi del Maestro, furono soddisfatte con varie repliche, eseguite in marmo bianco statuario direttamente dall’Artista. La sgrossatura del marmo era affidata ai migliori allievi che con scrupolosità si attenevano alle indicazioni del Maestro.

Il Busto di Venere in esame appartiene al gruppo delle repliche eseguite dal Canova con la collaborazione tecnica dei suoi collaboratori. La datazione qui proposta è il 1812. Il successo dell’opera esposta a Firenze dovette mobilitare subito il celebre scultore che non mancò di accontentare la richiesta di repliche, quantomeno del busto, da parte dell’aristocrazia italiana. Del Busto di Venere i seguaci del Canova eseguirono delle copie, ciò a dimostrazione del consenso che quel modello scultoreo ebbe nel pubblico  del tempo. Una delle copie più note è quella di Pietro Fontana (1787-1858), Venere Italica, marmo bianco statuario (Profondità cm. 27.5, altezza cm. 55.2, larghezza cm.1820-30 circa. Ente Villa Carlotta, Tremezzo). Al modello della Venere si ispirò anche Cincinnato Baruzzi (1796-1878). Si veda in tal senso il Busto di una Musa, marmo bianco statuario (h. cm.58, 1820 circa. Proprietà privata, Sotheby’s, Londra, 2018). 

Venere italica, Replica qui attribuita ad Antonio Canova, 1920 ca.. Riferibile all’archetipo scultoreo della Venere Italica (1804-1812), marmo di Carrara, h. 171,5 cm. Galleria Palatina, Firenze

Venere italica, Replica qui attribuita ad Antonio Canova, 1820 ca.. Riferibile all’archetipo scultoreo della Venere Italica (1804-1812), marmo di Carrara, h. 171,5 cm. Galleria Palatina, Firenze

La tecnica scultorea di Canova per la Venere italica

Come per il resto della sua produzione, anche per la Venere Italica, Antonio Canova fece ricorso ad una collaudata tecnica scultorea basata su diverse fasi esecutive e sul coinvolgimento di più collaboratori. Dopo le varie fasi della modellazione in argilla, del calco in negativo e del gesso   definitivo, l’Artista sceglieva il marmo in base alla purezza cromatica e alla cristallinità. Egli riservava il compito di sbozzare il marmo agli allievi della sua bottega, lasciando a sé stesso la responsabilità di eseguire soltanto gli aggiustamenti finali. Dopo aver ottenuto una superficie perfettamente liscia interveniva personalmente ancora una volta per le finiture di carattere plastico e incisorio. Poi si procedeva con la levigatura (sovente ottenuta utilizzando acido ossalico) e quindi alla   stesura di uno strato di cera rosato che conferiva una maggiore naturalezza all’incarnato marmoreo. Questo intervento finale veniva chiamato «ultimo tocco»; esso permetteva al Maestro di infondere vita e realismo alle sculture. 

Venere Cnidia, versione medicea degli Uffizi

Venere Cnidia, versione medicea degli Uffizi

La chioma folta e riccioluta della Venere

Lo spunto compositivo della capigliatura della Venere canoviana è nell’archetipo costituito dalla Venere Cnidia di Prassitele. Si tratta comunque solo di uno spunto poiché il Canova inventa un modello personale.

La Venere Cnidia (versione medicea degli Uffizi) ha i capelli raccolti in ampie ciocche con una ondulazione rigorosa, quasi geometrica. La chioma è attraversata due volte da un nastro che nella parte finale si stringe per determinare il tuppo (lo chignon riccioluto che avvolge le ciocche finali in un nodo stringente). La chioma, attraverso la scrima, è bipartita dalla fronte in poi e determina due ondulazioni simmetriche che si chiudono in alto, tra la prima e la seconda fascia, con una rosetta di ciocche scolpite a piccoli boccoli (anch’essa suddivisa in due parti). La trama dei capelli è lievemente inclinata verso il basso nella parte sottostante la prima fascia; l’inclinazione si accentua di più oltre la prima fascia, così da dare la sensazione che l’acconciatura, generata da una pettinatura inclinata, si stringa attorno al tuppo scolpito nella zona occipitale. Non tutte le copie della Venere Cnidia hanno questo tipo di acconciatura; altre ad esempio hanno una “pettinatura” più semplice. Si veda in tal senso la versione del Museo Nazionale Romano di Palazzo Altemps o quella della Testa del Louvre (già nella Collezione Borghese).

Venere italica, Replica qui attribuita ad Antonio Canova, 1920 ca.. Riferibile all’archetipo scultoreo della Venere Italica (1804-1812), marmo di Carrara, h. 171,5 cm. Galleria Palatina, Firenze

Venere italica, Replica qui attribuita ad Antonio Canova, 1820 ca., coll. privata. Riferibile all’archetipo scultoreo della Venere Italica (1804-1812), marmo di Carrara, h. 171,5 cm. Galleria Palatina, Firenze

Antonio Canova per l’acconciatura della sua Venere Italica partì dall’idea dei capelli raccolti all’indietro di Prassitele ma poi ne realizzò una versione personale, come d’altra parte fece per l’intero corpo della scultura. Con l’abilità scultorea che caratterizzava il suo mestiere raccolsei capelli con un’inclinazione diversa da quella della scultura Cnidia. Portò verso l’alto la folta chioma, bipartita nella fronte, scolpendo lo chignon non nella zona occipitale ma in quella parietale. La due fasce del nastro si sovrappongono in basso e si aprono invece verso l’altro come a fare sbocciareun cespuglio fiorito, fatto di boccoli vezzosi. Il tuppo canoviano è molto più articolato, infatti nella Venere Italica le voluminose ciocche finali si avvolgono in ampi boccoli pendenti. Sul collo e nella parte frontale i capelli corti, sfuggiti alla pettinatura complessiva, diventano riccioli decorativi, tradendo l’animo romantico dello scultore.

Nel Busto di Venere, oggetto del presente studio, l’acconciatura è quasi identica a quella della Venere Italica; manca purtroppo dello chignon che essendo la parte più sporgente della massa scultorea è andato perduto in seguito ad una rottura mai riparata. Una lieve sbeccatura, recentemente restaurata in maniera impeccabile, era presente nella parte terminale del naso. Per il resto l’opera è integra e non presenta alcuna lesione.

Venere italica, Replica qui attribuita ad Antonio Canova, 1920 ca.. Riferibile all’archetipo scultoreo della Venere Italica (1804-1812), marmo di Carrara, h. 171,5 cm. Galleria Palatina, Firenze

Venere italica, Replica qui attribuita ad Antonio Canova, 1820 ca.. Riferibile all’archetipo scultoreo della Venere Italica (1804-1812), marmo di Carrara, h. 171,5 cm. Galleria Palatina, Firenze

Le abrasioni e le lievissime appannature di alcune parti scultoree (come ad esempio nei riccioli delle ciocche sopra la testa) sono dovute ad un periodo di esposizione dell’opera in spazi esterni. Gli agenti atmosferici hanno arrotondato   piccole parti del modellato che tuttavia non mortificano la qualità complessiva della scultura, anzi le conferiscono quell’aura di antichità tipica delle opere vissute.

Nel complesso il Busto della Venere Italica è da considerarsi opera autentica dei primi anni dell’Ottocento, concepita con rigore e precisione da Antonio Canova che attinse i dati dimensionali e le caratteristiche del modellato direttamente dal suo originale in gesso oggi conservato nella Gypsotheca di Possagno. 

Alcune varianti del busto rispetto all’archetipo

Niente è sfuggito ad Antonio Canova; tutto infatti è ripreso dall’archetipo in gesso di Possagno. Le varianti volute e ricercate sono nei dettagli della pettinatura. Per  la torsione del collo e della testa (esecuzione impeccabile!), per la morbida inclinazione del volto, il Maestro ha tenuto conto del diverso rapporto visivo tra l’osservatore e la scultura. Nella statua l’osservatore guarda dal basso verso l’alto (ammira la divinità); nel busto la direzione dello sguardo è diretta. Ciò ha orientato il Maestro a conferire una maggiore morbidezza alla tornitura del collo e quindi una maggiore resa realistica. Queste in sintesi sono le varianti che rendono assolutamente originale la replica.

Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023
Note
[1] Ho studiato in tal senso fra i vari ritratti originali raffiguranti Napoleone Bonaparte, eseguiti dal Canova, quello della donazione D’Agostino di Nicastro. Si tratta del pregevole marmo custodito dal 2014 a Lamezia Terme (Città di Nicastro) nel Museo Archeologico Lametino, allestito nel monumentale convento dei PP. Domenicani. Lo donò Giacomo d’Agostino nel 1964 alla Città di Nicastro sulla cui terra, sotto il cui cielo, visse amore e tormento negli anni 1929 – 30 – 31 (dall’epigrafe incisa nel piedistallo che regge il busto). Il marmo è firmato sul lato destro del busto CANOVA SCULPSIT. La scultura ha la severità tipica degli anni della maturità dell’artista e, tranne la somiglianza col Bonaparte, non ha alcun elemento in comune con i ritratti dell’Imperatore dello stesso Canova, conservati nelle varie collezioni pubbliche. Ad esempio, da un confronto con il ritratto di Possagno (gesso della donazione Rinaldi) emergono con chiarezza molte differenze.
[2] Antonio Canova nacque a Possagno il 1° novembre 1757. Fu avviato allo studio della scultura fin da piccolo dal nonno Pasino, tagliapietre, che lo indirizzò nel laboratorio di Giuseppe Bernardi-Torretti, a Pagnano d’Asolo e a Venezia. Nella città lagunare compì i primi studi all’Accademia del Nudo e aprì un laboratorio in proprio, dove ricevette le prime importanti commissioni. Sono di questi anni il gruppo di Orfeo ed Euridice (1776) e quello di Dedalo e Icaro (1779), esposti entrambi al Museo Correr di Venezia. Le opere furono realizzate per il nobile Giovanni Falier, suo mecenate. Nel 1779 compì il suo primo viaggio a Roma: fu qui che egli venne a contatto con l’arte neoclassica e le idee illuministiche teorizzate da Anton Raphael Mengs e da Johann Joachim Winckelmann. Nello stesso anno visitò gli scavi delle città di Ercolano e Pompei, rimanendo fortemente interessato agli aspetti tecnici e formali dall’arte antica romana e greca. In virtù di questo viaggio diventò sempre più forte il suo interesse per l’espressione artistica di carattere neoclassico. Nel 1781 si trasferì definitivamente a Roma accettando l’ospitalità di Girolamo Zulian, ambasciatore della Repubblica di Venezia presso la Santa Sede. Successivamente organizzo il suo primo grande studio di scultura, nelle adiacenze del Tevere, ciò per la facilità di poter trasportare i marmi che gli giungevano da Carrara. Negli anni novanta realizzò Amore e Psiche giacenti (1793) a Le Grazie (1816), il Monumento funerario di Clemente XIII (1792) la Maddalena giacente (1822).
Nel 1798, con l’arrivo delle truppe francesi a Roma, ritornò a Possagno dove si dedicò alla pittura. Numerosi dipinti ad olio di questo periodo diventeranno studi preparatori per le opere scultoree. Agli inizi dell’Ottocento fu a Vienna dove il duca Alberto di Sassonia gli commissionò un cenotafio in onore della sua consorte, e cioè il Monumento funerario di Maria Cristina d’Austria (1805).
Due anni più tardi ritornò a Roma in compagnia del fratellastro Giovanni Battista Sartori, che diventerà suo fedele segretario e suo unico erede. Con l’avvento di Napoleone come primo console di Francia, Canova ritrasse alcuni dei componenti della famiglia Bonaparte. Appartiene a questo periodo la scultura di Paolina Borghese come Venere vincitrice (1804 e il 1808). Nel 1815 Papa Pio VII gli affidò un importante incarico diplomatico. Canova fu inviato a Parigi col compito di riportare in Italia le opere che erano state trafugate durante le campagne napoleoniche. Grazie a lui ritornò in Italia buona parte delle opere d’arte sottratte dalle varie collezioni. L’ultimo suo progetto fu quello del Tempio Canoviano di Possagno completato purtroppo dopo la sua morte, avvenuta a Venezia il 13 ottobre del 1822.
[3] Ne Le Grazie (1827) Ugo Foscolo scrive una profonda dedica in onore al Canova, riferendosi in particolare alle Tre Grazie e alla Venere Italica. 

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Paolo Giansiracusa, Storico dell’arte, Professore Emerito Ordinario di Storia dell’Arte nelle Accademie di Belle Arti. Già Docente di Storia dell’Arte Moderna e Contemporanea alla Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Catania. Componente dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico, Siracusa-Roma. Direttore del M.A.C.T. Polo Museale d’Arte Moderna e Contemporanea di Troina. Fondatore e Direttore della Rivista Nazionale “Quaderni del Mediterraneo”.

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