Mi è capitato recentemente di leggere uno degli ultimi lavori etnografici dell’antropologo canadese Kevin L. O’Neill, Hunted: Predation and Pentecostalism in Guatemala (University of Chicago Press, 2019). Frutto di un lungo lavoro di osservazione sul campo, l’autore racconta come le nuove chiese di matrice pentecostale, in crescita in molti Paesi latino-americani, in particolare in Brasile e Guatemala, si siano attrezzate per combattere la droga. La peculiarità del caso guatemalteco è che i pastori e le pastore di tali chiese girano per le strade di Guatemala City, dove lo spaccio e il consumo sono più frequenti, per catturare con la forza le persone drogate, portarle e segregarle in appartamenti ben sorvegliati, dove i malcapitati restano rinchiusi finché non si avvera il miracolo della riabilitazione completa dalla dipendenza. Catturare, deportare e redimere a maggior gloria di Dio e della potenza dello Spirito Santo sono sacrifici necessari per far trionfare il bene, far rinascere anime e corpi a nuova vita.
L’associazione tra la caccia all’uomo e la deportazione in questo caso studiato da O’Neill mi ha indotto a riflettere sui tanti casi in cui i due termini appena ricordati si tengono assieme, quando osserviamo oggi altri fenomeni, al di fuori del campo strettamente religioso. Predare e depredare, del resto, sono attività di lunga durata nella storia dell’umanità, come hanno mostrato due filosofi, il francese Grégoire Chamayou (Les chasses à l’homme, La Fabrique éditions, 2010, tradotto prontamente nello stesso anno da Manifestolibri) e l’ivoriano François Adja Assemien (Pilosophie de la predation, Regency, 2023). Così come spostare forzatamente, deportare, internare e sterminare individui e interi popoli sono state messe in atto nei corsi e ricorsi della storia. In vari angoli del mondo, conflitti, guerre e pulizie etniche sono da ricollegarsi spesso ancora oggi agli spostamenti forzati avvenuti in passato di persone da un posto all’altro da parte di imperatori e dittatori vecchi e nuovi.
Dopo la Shoah, almeno in Europa, abbiamo pensato che non avremmo assistito più alla riapparizione di programmi di pulizia etnica e di deportazione. Le guerre balcaniche del 1990-95 hanno non solo seppellito il sogno di un’Europa allargata dall’Atlantico agli Urali, ma anche fatto riapparire i fantasmi del passato: in nome dell’ideologia nazionalista di una terra, una lingua, una fede, è furiosamente riemerso la volontà di fare pulizia etnica.
Ritorna alla mente la nota frase di Primo Levi nell’appendice del suo Se questo è un uomo: se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono essere nuovamente sedotte e oscurate: anche le nostre. Il Presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump, non ha forse provato a sedurre le coscienze, facendo apparire come scontato che milioni di palestinesi di Gaza debbano andarsene dalla loro terra? Un piano di espulsione forzata che il governo israeliano ha valutato positivamente e alcuni suoi ministri rappresentanti dei partiti del sionismo religioso hanno giudicato eccellente. Se gli espulsi dovessero opporre resistenza, quale sarebbe il passo successivo, visto i progetti già fantasticati da parte dei vincitori di trasferire i senza casa e i senza terra da Gaza in Giordania o in Egitto oppure, come beffardamente ha detto il primo ministro israeliano, in uno Stato palestinese tutto nuovo in Arabia Saudita? Magari nella costruenda città del futuro (Neom) che il principe Mohamed bin Salman ha in animo di completare entro pochi anni? Se non possono più restare lì, perché, come riportato da Il Sole24ore del 24 ottobre 2024, il 66% degli edifici è più o meno seriamente danneggiato, con un enorme cumulo di macerie da sgomberare prima di poter ricostruire, le persone non avranno molte alternative: accettare di essere trasferite (deportate?) altrove oppure sopravvivere in nuovi, estesi, miseri e malsani campi profughi nei pressi delle zone distrutte.
In nome della sicurezza, parole come caccia all’uomo e deportazione, dunque, sono tornate a far parte del lessico familiare di politici così come di tanti cittadini impauriti e incattiviti: i primi incapaci di governare i movimenti migratori se non erigendo muri e tagliando i ponti, i secondi disposti a cedere sulla tutela dei diritti fondamentali delle persone pur di bloccare l’invasione o di rimpatriare gli indesiderati immigrati. Sull’orlo di una crisi di nervi, società che si vantano di essere democratiche, difensori della moderna cultura dei diritti e memori delle radici cristiane della loro storia, sono sempre più divise sulla questione della frontiera. Nell’immaginario degli europei questa oggi può coincidere con i confini nazionali di ciascun Stato dell’Unione e, allo stesso tempo, ampliarsi sino a ricomprendere le coste meridionali dell’Europa, percepite come un varco attraverso cui facilmente i dannati della terra passano. Più di recente, si è fatta strada l’idea che i confini possano estendersi fuori dell’Unione. Una sorta di realtà aumentata artificialmente, che per ora solo pochi Stati hanno messo in pratica: la Danimarca e l’Italia in prima fila, la Gran Bretagna – che non fa più parte dell’Unione – ci sta provando e la Germania comincia seriamente a pensarci. A fine gennaio, infatti, la CDU (i democratici cristiani) e il partito di destra AfD avevano presentato una proposta di legge che prevedeva la creazione di hub offshore, dove deportare e trattenere i richiedenti asilo così come i rifugiati, nonché cittadini tedeschi di origine straniera che dimostrassero di non volersi integrare commettendo gravi crimini, come gli attentati che più volte hanno colpito il suolo tedesco. I campi di deportazione e di prigionia, di cui si parlava nel disegno di legge, erano stati individuati rispettivamente in Colombia, Georgia, Kenya, Kirghizistan, Moldavia e Uzbekistan. Sempre più lontano: lontano dagli occhi, lontano dagli abiti del cuore. Subito dopo la bocciatura in Parlamento, l’ex- cancelliere Merkel ha apertamente condannato la convergenza tra il suo partito e l’AfD; ci sono state, infine, manifestazioni di protesta contro il progetto di legge: una messa in scena pubblica di quanto rilevante continui a essere la questione migranti nella polarizzazione politica in Europa così come negli Stati Uniti d’America.
I governi britannici (conservatore e laburista) lavorano da anni per realizzare campi simili in Rwanda, dove già ce n’è uno gestito dal governo danese. Quest’ultimo, a guida socialdemocratica, in nome di una nuova drastica politica dello “zero arrivi” (sottinteso, perché ne abbiamo ormai troppi e troppi non vogliono adattarsi ai valori culturali della società danese) ha, inoltre, negoziato e aperto un centro in Kosovo ed è in trattativa con l’Etiopia e la Tunisia. Dell’Italia sappiamo: è stato costruito un campo di detenzione sinora rimasto ampiamente non utilizzato in Albania e sono stati siglati accordi rispettivamente con la Libia e la Tunisia, perché i governi di questi due Paesi blocchino le partenze dei migranti, ne catturino il più possibile e li trattengano (nel caso libico soprattutto) in campi di detenzione in condizioni, come sappiamo, disumane o, peggio ancora, siano abbandonati in pieno deserto senza acqua e cibo. Non esportiamo più la democrazia, abbiamo bisogno di tante discariche umane da collocare possibilmente lontane da casa nostra, fuori dei nostri confini.
In tutti questi casi, siamo andati oltre a quanto i governi europei avevano fatto in passato: alcuni, all’indomani della crisi siriana, si sono barricati, rafforzando le frontiere e respingendo senza alcuna pietà quanti fuggivano letteralmente dalle guerre (in primis quella in Siria); altri hanno eretto nuovi muri o robuste cortine di ferro (dalla Grecia alla Croazia, dall’Ungheria alla Polonia); altri tengono a bella posta aperte le loro frontiere per far transitare i migranti nel Paese accanto, come due vicini che si fanno dispetti sulla pelle delle persone, come accade alla frontiera tra la Bielorussia e la Polonia; altri (l’Unione europea in toto), infine, hanno preferito negoziare apertamente con la Turchia perché accogliesse, dietro un cospicuo compenso, gli sfollati dalla Siria e gestisse un campo profughi sul proprio territorio sino alla fine delle ostilità e alla ricostruzione post-bellica.
Ricordo solo che, in base al Facility for Refugees in Turkey (FRIT) del 2016, l’Unione Europea ha stanziato 6 miliardi di euro, che sono stati dati al governo di Ankara per gestire tutta l’operazione. Si dà il caso che, già prima della caduta del regime di Bashar al-Assad nel dicembre 2024, il governo turco, in barba a tutte le convenzioni del diritto internazionale, abbia potuto ampliare la sua zona di influenza e il controllo territoriale su una parte della Siria (quella abitata in maggioranza da curdi) con il pretesto di creare una zona cuscinetto, dove cominciare a rimpatriare dal 2019 una parte dei siriani ospitati nei campi profughi. In tal modo, il governo turco ha annesso militarmente una parte del territorio siriano e ha cercato di stemperare l’ostilità crescente nei confronti dei profughi alimentata dalla destra nazionalista turca nelle città e nelle province dove le persone sfollate dalla Siria vivono dal 2012. In altre parole, la Turchia ha spostato le sue frontiere nel territorio siriano, senza contraccolpi sinora né da parte del nuovo governo provvisorio post-Assad, che può godere pertanto di un esplicito appoggio da parte di Ankara, né da parte degli altri protagonisti della scena medio-orientale, dalla Russia agli Stati Uniti d’America, da Israele all’Iran.
La deportazione di esseri umani è solo un elemento di un più ampio processo che include forme di tratta, riduzione in schiavitù, caccia all’uomo, discariche nel deserto e in mare di esseri umani con tutto il corollario di torture, stupri, sofferenze e violenze tutte ben documentate da rapporti di organizzazioni non governative e da inchieste giornalistiche, servizi televisivi, film e documentari.
La caccia all’uomo cui segue la deportazione ci raccontano un nuovo capitolo della nostra storia europea: quella dell’ipocrisia e dell’indifferenza di massa di fronte a quanto accade in casa nostra e attorno a noi. Deportare, in fondo, vuol dire fa sparire qualcuno e qualcuna alla nostra vista. Se per farlo si dà la caccia alle persone, poco importa: sono degli indesiderati e non dei disperati che scappano da situazioni penose o che sperano di poter migliorare le loro condizioni di vita migrando. Indesiderati, in alcuni casi, che agli occhi di una parte degli europei, in più hanno un difetto: non si assimilano, restano fedeli alle loro tradizioni o, peggio, a una religione apertamente antagonista della nostra civiltà. Se ne stiano a casa loro: la pensano così molti europei, se guardiamo ai programmi elettorali dei partiti di destra in crescita dappertutto.
Se pensiamo, così facendo, di difendere la nostra civiltà occidentale, stiamo ripetendo un errore che abbiamo già fatto in passato. Ce lo ricordava poco sopra Primo Levi. Caccia all’uomo e deportazione ci riportano indietro nel tempo, alla ferinità dell’homo hominis lupus. Abbassare il livello delle garanzie legali e screditare la funzione di autorità transnazionali nella tutela dei diritti fondamentali della persona sono sintomi di un malessere profondo delle società liberal-democratiche.
Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025
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Enzo Pace, è stato professore ordinario di sociologia e sociologia delle religioni all’Università di Padova. Directeur d’études invité all’EHESS (Parigi), è stato Presidente dell’International Society for the Sociology of Religion (ISSR). Ha istituito e diretto il Master sugli studi sull’islam europeo e ha tenuto il corso Islam and Human Rights all’European Master’s Programme in Human Rights and Democratisation. Ha tenuto corsi nell’ambito del programma Erasmus Teaching Staff Mobility presso le Università di Eskishehir (Turchia) (2010 e 2012), Porto (2009), Complutense di Madrid (2008), Jagiellonia di Cracovia (2007). Collabora con le riviste Archives de Sciences Sociales des Religions, Social Compass, Socijalna Ekologija, Horizontes Antropologicos, Religiologiques e Religioni & Società. Co-editor della Annual review of the Socioklogy of Religion, edito dalla Brill, Leiden-Boston, è autore di numerosi studi. Tra le recenti pubblicazioni si segnalano: Cristianesimo extra-large (EDB, 2018) e Introduzione alla sociologia delle religioni (Carocci, 2021, nuova edizione); Religioni in guerra (Castelvecchi, 2024).
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