di Francesca Maria Corrao
A fine gennaio, prima di partire per il Medio Oriente, ho riletto il saggio dell’antropologo tunisino Mondher Kilani L’invenzione dell’altro, che esplora come persone appartenenti ad orizzonti differenti arrivino a comunicare oltre le barriere culturali (Kilani, 1997: 239). Il nostro approccio è determinato dalla nostra educazione e così anche il modo di vedere le cose e di valutarle. Nella società globale\maggioritaria, la nostra percezione è influenzata dalla visione “moderna”, che è dominante sulle altre “non moderne”. Quando ci si trova in un Paese che ha una storia diversa dalla nostra, si affronta una concezione della modernità che non corrisponde alla nostra, ed allora diventa utile, se non necessario, fare una tara cercando di sgombrare il campo dello sguardo almeno dai pregiudizi più vistosi.
In concreto, prima di partire, per l’Arabia Saudita e poi per l’Egitto mi sono trovata a fare i conti con le emozioni negative suscitate da eventi tragici, più e meno recenti, accaduti nei due Paesi. Ho scelto di non fermarmi al dato politico e ho rivolto la mia attenzione alla gente comune, che non ha strumenti per reagire e condannare gli atti di violenza che non condivide. Molti hanno protestato, più in privato che in modo pubblico contro le uccisioni efferate, ma questo non emerge dai media. Dove la libertà di stampa è un lusso fiorisce la satira, come ho imparato in anni di studi sulla poesia e la satira araba, che da secoli celano le voci del dissenso. Così mi sono decisa a vincere la mia ritrosia per cercare di capire vedendo ed ascoltando al di là dei pregiudizi.
Ho vissuto e studiato sette anni al Cairo alla fine del secolo scorso; ancora oggi mi sembra un tempo incredibilmente lungo e tuttavia, a giudicare dallo straordinario cambiamento avvenuto in meno di un quarto di secolo, quell’epoca pare tanto remota da dover sottolineare che si tratta dell’altro millennio. Nel 2010 ero già tornata al Cairo un mese prima della rivolta del 25 gennaio. Apparentemente vi erano stati pochi cambiamenti anche se avevo molto apprezzato l’eliminazione del ponte pedonale di metallo che spezzava la skyline della polverosa piazza Tahrir. Si poteva osservare l’ampia piazza coronata da palazzi storici che testimoniavano i cambiamenti avvenuti in due secoli di storia: l’ottocentesco museo egizio, il palazzo della Lega araba e l’Università Americana al Cairo dei primi del Novecento. Il kafkiano edificio di stampo sovietico degli anni ’50, il Mugamma, noto per essere l’opprimente anagrafe per i locali e gli stranieri. E con l’albergo Hilton circondato dalle imponenti strutture esplose sul Nilo con il boom del turismo negli anni ’90, luogo di ritrovo degli uomini di affari e dei giornalisti occidentali, che si fermavano al bar a raccogliere notizie di seconda mano in un inglese colorato da stereotipi e fantasia. Le rivolte del 2011 hanno diffuso un nuovo tipo di giornalismo militante, praticato da giovani locali e stranieri desiderosi di riprendere la realtà con ogni mezzo, foto, film e graphic novel. Quegli spazi, che per una brevissima stagione sono stati occupati da giovani, oggi sono presidiati dai militari e un traffico intensissimo li rende inaccessibili.
Ero giunta al Cairo per una conferenza alla Fiera del Libro, una visita breve in questo nuovo quartiere lontano un paio di ore dal vecchio centro, così distante da non avere il tempo per una rapida visita alla vecchia capitale. Mi sono smarrita tra la folla della Fiera del libro, nella sede “faraonica” della Nuova Cairo. La gente è accorsa in massa a visitare i nuovi spazi; nella nuova sede c’erano tutti tranne i venditori dello storico mercato del libro usato di Ezbekiyya che hanno boicottato l’evento perché l’affitto degli stand era troppo alto. L’assembramento attorno agli stand degli editori mi ricordava un altro mercatino popolare al Bulaq il quartiere incastonato tra il ponte di Eiffel e il moderno edifico degli archivi e della Biblioteca Nazionale. Alla fine degli anni Settanta, prima di rifugiarmi tra libri e manoscritti, mi fermavo a guardare le stradine affollate e i coloratissimi prodotti in vendita. Poi tutto è cambiato: il ponte è stato smontato e sostituito da un arco di cemento che sostiene un numero considerevole di corsie affollate di auto, in un flusso di traffico perenne.
Quando da giovane mi avventuravo da quelle parti mi perdevo tra la folla di donne, all’epoca tutte senza velo; gli stranieri erano rari e così i miei capelli chiari spiccavano tra le tante chiome nere attraendo gli sguardi curiosi dei ragazzi. Molte volte mi sono trovata a rintuzzarli in dialetto egiziano tra gli scoppi di risa delle donne divertite e complici del mio atteggiamento ostile alle smancerie. Oggi è tutto molto cambiato, alla fiera le donne senza velo sono decisamente una sparuta minoranza, anche se le coperture dei capelli variano da quelle integrali, alle cuffiette di lana, ai colorati lunghi foulards svolazzanti sui jeans. Alla nuova fiera del libro anche il bar è diverso, è “moderno”, o meglio è occidentalizzante, è come i nostri banconi, ed offre un pessimo tè in bustina facendo rimpiangere l’ottimo tè alla menta dello storico locale al-Fishawi nell’affollata piazza dell’antico mercato di Khan al-Khalili.
Il grande atrio di uno degli immensi edifici della fiera ospitava centinaia di mamme e bambini tutti indaffarati a cercare negli stand colorati da migliaia di libri le nuove edizioni per i piccoli. Decine di sale ospitavano contemporaneamente conferenze di vario genere: dalla poesia alla saggistica, dalla nuova editoria alla presentazione di libri e dibattiti culturali. Per entrare negli stand centinaia di giovani, donne e bambini pazientavano in lunghe code aspettando i controlli di sicurezza senza battere ciglio sia sotto la pioggia improvvisa che sotto il sole cocente. I visitatori si accalcavano a visitare gli stand di libri delle case editrici di tutto il mondo: dalla Germania alla Malesia, dall’Algeria, dagli Emirati, dall’India ma anche dalla Siria, nonostante la devastazione della guerra.
In una delle sale più affollate della fiera, poeti rappresentanti di ogni Paese si alternavano sul podio: libici, russi, croati, americani, messicani, italiani, tunisini, yemeniti, francesi ecc… Ancora oggi per gli Arabi la poesia rimane l’arte più prestigiosa, nonostante la fortuna crescente del romanzo e la diffusione dell’intrattenimento offerto dalla musica e dal cinema internazionale.
La scrittrice Libanese Etel Adnan in un saggio di qualche anno fa scriveva che le città muoiono come le persone e come le civiltà: la Cairo dove avevo vissuto tanti anni fa non esiste più, così come non ci sono più tanti amici che sono venuti a mancare, come i poeti Amal Dunqal, Sayyid Higab, Mahmud Darwish, e i miei professori Sayyid Badawi, Hamdi Sakkut e Suheir Qalamawi, la donna che ha influenzato il mio corso di studi facendomi amare la poesia. Il ricordo di questa mitica allieva del grande scrittore Taha Husein era, con mia soddisfazione, celebrato tra gli eventi importanti di questa edizione della fiera. La studiosa, tra le prime donne a studiare e poi insegnare all’Università del Cairo, è stata una pioniera degli studi di poesia e originale esploratrice delle Mille e una notte.
Frugando tra i libri delle maggiori case editrici ho scoperto molte opere di letteratura straniera, traduzioni di argomenti scientifici e umanistici, studi storici aggiornati grazie a documenti originali arabi e stranieri di recente acquisizione. Alla Fiera del libro si trova di tutto dall’astronomia alla poesia antica, dal mondo dei computer ai manoscritti più rari. Perdo il senso del passare del tempo e arrivo tardi ad un appuntamento perché mi sono smarrita tra gli stand dei libri. Vedo anche alcuni studi sul terrorismo, analisi aggiornate per contrastarlo, accanto a libri su Nasser e su diversi nazionalisti arabi; mi stupisco di trovare un libro su Gandhi accanto a uno su Hitler, mentre alle mie spalle un giovane passa veloce commentando: «è tutta politica».
Tutt’intorno alla nuova cittadella c’è il deserto e procedendo veloci nell’autostrada a quattro corsie ci si ritrova in un tranquillo quartiere di eleganti ville circondate da rigogliosi giardini. Mi spiegano che l’esplosione demografica ha snaturato gli antichi quartieri residenziali le cui ville sono state sostituite da grattacieli popolosi; così per ritrovare un po’ di pace gran parte del ceto medio/alto borghese si è trasferito in questa nuova Cairo che ricorda le altre metropoli arabe, come i nuovi quartieri di Riyadh. Anche qui come in Sud America abbondano i compound residenziali di cui troneggiano pubblicità attraenti sulle autostrade che portano verso la nuova sede dell’università americana, anch’essa sradicata dal centro del Cairo verso questa elegante, ma popolosa periferia. Costruendo le nuove università in questa area, si evita il traffico intenso della città, e chi se lo può permettere si trasferisce nei quartieri attraversati da super strade. Ristoranti eleganti e opulenti, negozi pieni di oggetti smaglianti: lampadari, mobili, auto, abiti. Questa offerta segna la differenza con i quartieri della capitale saudita, dove i negozi sono ancora più radi e concentrati in Mall e dove esiste ancora pesante la separazione tra zone maschili e femminili, anche se da qualche anno nei ristoranti si trovano sale per uomini soli separate dalle famiglie, che ospitano le donne con figli e parenti.
Al Cairo, nonostante il numero di donne velate sia cresciuto in modo esponenziale, ci si muove ancora in una società mista, e i veli delle donne variano dagli opprimenti cappottoni scuri alle leggere velette scivolate sui capelli delle ragazze in jeans e ampi camicioni, mentre alcune donne si distinguono tra la folla senza velo; queste ai miei occhi, abituati al ricordo del Cairo degli anni settanta quando nessuna donna era velata, rappresentano la resistenza. A tratti le emozioni suscitate dalla mia cultura prevalgono e sollevano barriere, ma poi mi fermo a chiacchierare con le colleghe dei temi della letteratura a me cari e mi dimentico delle loro “velature”.
La ricerca delle metafore universali della poesia mi ha portato ad accettare l’invito a Riyadh e le conversazioni con le colleghe della facoltà femminile di un immenso ateneo (tra i tanti la sola università del Malik Saud ha 50 mila studentesse su un totale di 110 mila iscritti) hanno addolcito i miei sentimenti. L’aula magna affollata di ragazze attente e vivaci, l’interesse delle studiose verso la nostra poesia hanno fatto svanire le sensazioni di estraniamento che provavo prima di partire. Lo stesso stupore si è ripetuto in occasione delle altre tre visite in atenei diversi. All’università per sole donne “Princess Nura” una metropolitana collega le diverse facoltà tra loro e con i dormitori delle ragazze, nello scenario di un ampio quartiere moderno all’orizzonte. Le aule sono attrezzate con la più moderna tecnologia e sulle pareti frasi di incoraggiamento rallegrano l’ambiente. In un altro ateneo le auto elettriche collegano le facoltà affollate di ragazze che indossano abiti di ogni foggia: fa impressione vedere che siano solo donne.
A pranzo i discorsi si intrecciano su vari argomenti dagli studi all’estero alla carriera universitaria in patria, alla fatica del doppio lavoro che divide le donne tra gli impegni della famiglia e quelli dell’università. Le direttrici dei dipartimenti sono tutte giovanissime tra i trenta e i quarant’anni. Dall’alto dell’edificio che ospita il lussuoso ristorante dove pranzo con le colleghe mi mostrano orgogliose la loro recente vittoria: l’ampio spiazzo dove si insegna alle donne a guidare l’auto. Mi assicurano che è stata una conquista importante, che ha dato a molte la possibilità di muoversi più rapidamente e soprattutto in modo più economico ed indipendente tra casa e lavoro. Una collega mi fa notare che ora le donne entrano ed escono liberamente dall’università. Fino a qualche tempo fa un custode teneva le chiavi ed apriva solo all’arrivo del familiare o dell’autista delle ragazze. Adesso invece basta indossare il lungo cappotto nero e coprire il volto con il velo prima di uscire dall’ingresso. Fuori una lunga fila di auto si ferma all’uscita delle ragazze, ogni auto ne raccoglie una e si allontana velocemente per non bloccare il flusso di traffico. Dall’agile smanettare delle giovani con i cellulari si capisce che annunciano l’uscita per predisporre l’arrivo dell’auto in tempo utile.
Con le mie amiche ci fermiamo a fare un paio di foto surreali: mentre il mio velo scivola disordinato, loro non si riconoscono neanche dagli occhi perché mettono anche gli occhiali. Lo sguardo un po’ triste e smarrito che mi sembrava di aver colto sui loro visi, in molte di loro si illumina quando si avvicinano a parlare. Con una collega, dopo i saluti formali, riesco a scambiare qualche opinione più personale; con una riesco a complimentarmi per il taglio corto dei capelli; la pettinatura mascolina spicca tra i lunghissimi e lucenti capelli delle ragazze. Lei mi risponde dicendo che li taglia ogni volta che litiga con la figlia adolescente. Scopro così che anche i conflitti generazionali non conoscono confini culturali.
Anni fa sarebbe stato impensabile uscire per le strade con il velo scomposto; ricordo che solo due anni fa non mi era capitato di vedere tante donne in giro a Riyadh. Nella visita all’antica capitale saudita, Barriya, nei giardini come nei ristoranti vi erano molte donne e bambini, e non tutte coprivano il volto, soprattutto le giovani delle tante coppie che si vedevano in giro. Ricordo che dieci anni fa, in occasione della mia prima visita in Arabia Saudita, mi vennero a prendere sin dentro l’aereo per coprirmi con il velo e poi non mi hanno fatto uscire dall’albergo. Per andare nella sala della conferenza ero passata per un corridoio interno che la collegava all’albergo. Alla conferenza avevo dovuto coprirmi nonostante le mie rimostranze perché mi era stato detto che erano arrivate minacce contro una straniera che parlava di poesia, due elementi sovversivi agli occhi degli spiriti più chiusi. All’epoca ero rimasta colpita dall’assenza di qualsiasi riferimento ai califfati omayyade (680-750) ed abbaside (750-1258); l’esposizione dopo aver trattato la creazione del mondo esponeva reperti risalenti al tempo della rivelazione del profeta (622) e all’età d’oro dei quattro califfi ben guidati, e poi passava direttamente all’ascesa al potere della famiglia dei Saud e della loro alleanza con i Wahabbiti (XVIII secolo). Mi pareva incongruente parlare a dei sunniti molto conservatori della straordinaria attività culturale nella Palermo arabo-sicula al tempo del dominio della dinastia shiita. Nella mappa geografica esposta al museo non appariva la Sicilia islamica.
La grande svolta di apertura culturale l’avevo già colta due anni fa in occasione della celebrazione dei rapporti tra l’Europa e l’Arabia Saudita; la Fondazione Orestiadi esponeva una mostra fotografica che presentava i più significativi oggetti e monumenti della Sicilia Araba e al centro del museo i tedeschi avevano allestito una splendida mostra sulle capitali islamiche: Damasco, Bagdad e il Cairo. Oggi una nuova grande carta geografica mostra tutte le epoche storiche, e nelle sale sono esposti i reperti archeologici dei diversi califfati islamici.
L’incontro con gli intellettuali e le intellettuali saudite è avvenuto alla Casa della cultura dove le poetesse ci hanno raccontato che solo di recente era stato consentito loro di partecipare liberamente agli incontri misti; sino a qualche tempo fa dovevano chiedere il permesso e non sempre veniva accordato. La sera abbiamo partecipato con alcune colleghe ad una festa offerta dalla moglie del principe ereditario in occasione dell’apertura degli spazi di un palazzo reale ad alcuni eventi artistici: sculture, quadri, gioielli, murales, abiti e foto realizzati da donne saudite. Un imponente servizio di sicurezza proteggeva la riunione a cui abbiamo potuto accedere dopo non pochi controlli e una lunga attesa; noi siamo riuscite ad approfittare dell’evento grazie alla fortunata combinazione che la prof. Isabella Camera d’Afflitto aveva contattato l’autrice di un racconto tradotto nella raccolta Rose d’Arabia dedicata alla scrittura femminile saudita. La scrittrice, ospite della principessa, ha esteso l’invito anche a me e all’altra docente della delegazione, la prof. Maria Avino. All’evento ci hanno permesso di entrare solo dopo aver sigillato i cellulari per evitare che si facessero foto. Oltre all’élite delle donne saudite erano presenti le mogli degli ambasciatori, ma i due gruppi di donne al di là dei saluti formali, non si sono fermate a parlare insieme nel corso dell’evento. Ho avuto conferma dell’importanza della cultura: sapere l’arabo e aver letto la loro letteratura avvicina e aiuta a stabilire ponti di dialogo e a costruire una rete di conoscenze e di valori condivisi che servono a superare le barriere dei pregiudizi e delle paure.
Alla fine dell’evento ci siamo ritrovate da sole per strada ad aspettare la macchina del servizio huber; non eravamo le sole in giro di sera, ed anche questo è segno di un rapido e importante cambiamento.
L’evento più emozionante è stata la visita al sito archeologico recentemente restaurato dell’antica Barriya, una grande città che presto aprirà le porte al turismo nazionale e straniero. Le tipiche case del deserto ospitano sale espositive e, in una parte dell’insediamento abitativo, sono previsti anche spazi per brevi soggiorni di ospitalità per curare malattie particolari. All’imbrunire sui ruderi vengono proiettati oleogrammi che narrano la storia del sito dall’antichità sino alla distruzione da parte dell’esercito ottomano. Dalla storia saudita si colgono le ragioni di antiche alleanze, come quella con il vicino regno del Kuwait che ospitò la famiglia saudita scampata al massacro ottomano, facilitando poi la riconquista del Masmak e il controllo del regno ai primi del XX secolo. La conoscenza della storia facilita la comprensione del forte sostegno accordato dall’Arabia al Kuwait quando fu occupato militarmente da Saddam Hussein nel 1990; allo stesso tempo è possibile immaginare che la politica neo-ottomana faccia vibrare negativamente la sensibilità dei sauditi.
La cultura si diffonde anche attraverso grandi librerie che vendono libri tanto in arabo quanto in lingua straniera. Anche qui colpisce la presenza di opere che narrano le vite di importanti leader storici; va chiarito però che se in Italia trovare pubblicazioni che narrano di Mussolini corrisponde alla volontà emulatrice di un neofascismo colpevole di dimenticare gli orrori dell’Olocausto, nei Paesi arabi la percezione è completamente diversa. La tragedia degli ebrei europei è stata ignorata dagli storici locali, solo di recente, attraverso la narrazione della vita del dittatore nazista, si introduce il tema della diaspora ebraica. Anche la diffusione della storia esemplare di Gandhi credo abbia lo scopo di diffondere le idee del pacifismo e della soluzione non violenta dei conflitti predicata dal grande leader indiano.
Sulla generale bellezza di questi incontri veleggiano tuttavia ombre d’inquietudine. L’Egitto soffre ancora per la crisi economica e le minacce terroriste che impediscono al Paese un ritorno alla normalità di un clima più liberale indispensabile allo sviluppo economico e culturale. L’Arabia Saudita fatica a mitigare la dura tradizione della gente del deserto, che vive in un perenne stato di belligeranza, con la forza dell’armonia della componente femminile, la cui sapienza mediatrice può dare un importante contributo ad un’inedita evoluzione del Paese e di tutta la regione. I tempi non sembrano ancora maturi, ma questo fenomeno non riguarda solo la sponda sud del Mediterraneo, se pensiamo al femminicidio in Italia e alle leggi che consentono agli uomini di picchiare le donne recentemente proposte dalla destra franchista in Andalusia. È chiaro che il tema della parità dei generi e dell’empowerment delle donne ostacola lo sviluppo della civiltà umana ed è grave, radicale e diffuso, investe tutto il mondo e la sua soluzione richiede l’impegno di tutti.