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di Silvia Mazzucchelli [*]
«Lo stimolo alla realizzazione di queste immagini non è stato religioso, ma politico e ideologico, nel senso di una sollecitazione per un radicale cambiamento delle strutture della nostra società», afferma il fotografo Calogero Cascio. E queste parole, che si leggono impresse sul muro al Museo di Roma in Trastevere, potrebbero sostituire il titolo della mostra, Picture Stories 1956-1971, che si chiude il 9 gennaio 2022, prima retrospettiva dedicata al fotografo nato a Sciacca nel 1927.
Essere nati durante il fascismo ed essere giovani negli anni della ricostruzione significa essere immersi in uno spirito del tempo, che costringe ad una scelta di campo: inerti o partecipi, subire o agire. Cascio sceglie di essere portatore di cambiamento, studia medicina, vuole mettersi al servizio della vita umana, forse il più nobile degli scopi che un giovane possa prefissarsi.
Ma il suo ‘umanesimo scientifico’ presto sente l’esigenza di allargarsi fino ad abbracciare un umanesimo senza aggettivi, che comporta un contatto diretto con l’altro, un intreccio di sguardi mediato solo dal brevissimo scatto dell’otturatore. Fotografare, come atto di pietas e di sympatheia, che, una volta collocato in una trama sociale, presto diventa partecipazione politica. Fotografare significa credere al cambiamento, tanto riguardo alla trasformazione individuale, quanto alla dimensione collettiva, e il fotografo è parte del cambiamento.
Questa capacità dipende dalla volontà di immergersi nelle situazioni che si fotografano. L’immagine non è il calco reificato degli avvenimenti che si sostituisce agli avvenimenti stessi, ma diventa il luogo di una scelta: ognuno di noi, davanti a un’immagine, deve decidere come farla partecipare, o non partecipare, alle nostre iniziative di conoscenza e azione. La fotografia coincide con l’esperienza e non con la distanza dall’evento. L’occhio del fotografo vede meglio e più profondamente di una semeiotica medica o di una precisione chirurgica. E allora Calogero Cascio, siciliano di Sciacca, decide di essere un fotoreporter, che significa adottare la cittadinanza del mondo.
Medico e fotografo sono due professioni che hanno entrambe lo scopo di salvaguardare la dignità umana, ovvero l’assiomatico fondamento dell’essere. Il punto in cui queste due anime si fondono è il celebre reportage pubblicato da Life nel 1964, dedicato alla guarigione dalla cecità di cinque ragazzi siciliani, i fratelli Rotolo. In mostra è esposta la foto in cui il dottor Luigi Picardo effettua dei test per vedere come procede il recupero della vista. Il medesimo reportage è pubblicato in quello stesso anno anche da “Look Magazine” e da “Paris Match”, e ottiene il prestigioso riconoscimento di entrare nella selezione curata da John Szarkowski per la mostra The Photo Essay, organizzata nel maggio 1965 al Museum of Modern Art di New York.
Al di là del puro fatto di cronaca, le foto colgono il momento della rinascita, della rivelazione, dell’esistenza di un mondo che si spinge oltre i confini del proprio corpo. Sembra la perfetta metafora che esprime anche il percorso personale di Calogero Cascio, ovvero il bisogno di sentirsi testimone e partecipe di quel cambiamento che lui stesso evocava e che attraverso la professione di medico non riusciva a soddisfare. “A cosa si deve guardare, una volta guariti dalla cecità?”, sembra essere la domanda che il medico si pone prima di decidere di diventare fotografo.
Ci si deve guardare attorno, alla Sicilia, in bilico tra il tempo immobile del “cunto” dei paladini, il culto dei santi, la fatica bestiale delle solfatare, e la rottura possibile con il presente, della protesta contadina, di cui Portella della Ginestra continua ad essere il doloroso epilogo. La doppietta che divide orizzontalmente il fotogramma è solo in apparenza alle spalle dell’uomo, in realtà è un altro orizzonte che si sovrappone a quello naturale, con cui la Sicilia è costretta a confrontarsi.
Il cartello “Corleone” statuisce un luogo che non è più solo geografico, perché nell’immaginario è ormai sinonimo di mafia e padrini. L’uomo con la coppola, alla fine di una discesa di ciottoli, non è per accidente che ha il volto sfocato e dimidiato, è la precisa messa a fuoco di una Sicilia con una faccia nascosta, oscura, altrettanto reale e presente di quella visibile. In generale, bisogna dire, queste foto “siciliane” risentono di un forte coinvolgimento emotivo, quasi di maniera, tranne quando l’ironia prende il sopravvento in forme icastiche, come nel caso della sede del M.S.I./agenzia d’affari o nel titolo di un reportage sul delitto d’onore pubblicato sulla rivista cattolica “Orizzonti” dal titolo Non è vero che in Sicilia c’è sempre il sole.
Quando si allontana dall’Isola, lo sguardo del fotografo sembra liberarsi da un sostrato antropologico e diventa ancora più nitido. Per Cascio avvicinarsi ai soggetti è cercare di avvicinare anche i loro mondi. Questo avviene in modo sempre rispettoso, mai invadente, mai violento. Spesso le immagini ritraggono persone come se fossero emblemi di una precisa condizione. I soggetti esprimono una sorta di solitudine dignitosa. Nelle foto Solitudine della punizione o di Stazione Termini non c’è traccia di autocommiserazione. Mostrare questa “solitudine” non veicola né rassegnazione né sconfitta, ma la volontà di sancire l’orgoglio umano di essere al mondo.
Cascio sperimenta una fotografia come possibilità di ristabilire equilibri e lenire malesseri. L’occhio è uno stetoscopio che ascolta il battito umano e la fotografia può essere una terapia del dolore. Non c’è alcuna garanzia di guarigione, ma resta l’attenzione, la cura, la vicinanza. Poiché l’altra faccia di questa solitudine del soggetto è la dignità. Una sezione giovanile affollata di anziani, un Babbo Natale che fuma, un signore compassato che contempla una ragazza giunonica, una ragazza che telefona dall’interno di una vetrina, una venditrice ambulante di canzoni, un anacronistico baciamano: questi scatti possono strapparci un sorriso, mai una risata.
La dignità è un diritto, ed è imprescindibile dal rispetto. È necessario offrire aiuto a chi la cerca, perché la sua dignità dipende dalla nostra. È la reciproca ammissione delle nostre fragilità per diventare, insieme, più forti. E l’esistenza dell’uomo dipende dalla sua dignità. Questo dicono le foto di Cascio. Si può essere poveri al punto di non avere un giaciglio su cui riposare, o di non avere neanche gambe per camminare; si può essere costretti ai lavori più pesanti e più umili, ma mai può venir meno il diritto al rispetto, per il fatto stesso di esistere. Principio che non ammette deroga, neanche quando nel mirino ci sono i “cattivi”, truppe di occupazione, militari, squadroni della morte.
Cascio non si avvale di un particolare vocabolario fotografico. Non vi è alcun ricorso ai contrasti estremi, come accade per esempio nelle foto di Eugene Smith. Non si accentua alcuna forma di drammaticità. La sua cifra stilistica è una pacata medietà, ovvero il rifiuto di ricorrere a espedienti tecnici, particolari tagli o modulazione dei contrasti, per mostrare ancora una volta il soggetto nella sua dignitosa dimensione reale, senza alcuna forma di enfasi. Come accade per la foto scattata a Velletri in cui tre anziane donne si fanno incarnazione della scritta impressa sul muro che fa loro da sfondo: “W U.D.I. che rivendica la pensione per le donne casalinghe”. O per il ritratto intitolato “Angeli del fango”, in cui uno studente tunisino viene fotografato mentre cerca di mettere al riparo i volumi della Biblioteca Nazionale di Firenze durante l’alluvione del 1966. O ancora, l’abbraccio tra madre e figlio, entrambi in ginocchio, a terra, in una strada del Cairo.
Per questo le sue foto, pur senza artifici particolari, risultano comunque assertive. Si potrebbe dire che in esse spesso si manifesta un’idea che va oltre il soggetto visibile, qualcosa di simile alla parusia.
La pienezza dell’umano, esaltata dall’esercizio della dignità, non esclude e anzi valorizza una componente spirituale universale, che trascende legami religiosi e appartenenze confessionali. Il corpo mummificato di un prelato, con la bocca spalancata e il vuoto delle orbite oculari nelle catacombe dei Cappuccini di Palermo è un interrogativo assoluto, identico al mistero racchiuso nel gesto del ragazzino in procinto di spargere le ceneri nelle acque del Gange a Varanasi. La meditazione dell’uomo in riva al Gange a Haridwar non è diversa dal gesto delle ragazze inchinate in preghiera a Tay Ninh nel Vietnam del Sud, o della ragazza inginocchiata in una chiesa cattolica a Ouro Preto in Brasile.
Con queste foto, accostate a quelle più apertamente politiche delle manifestazioni di partito, Cascio sembra suggerirci che la ricerca della verità deve partire dall’uomo e a lui deve tornare, fatto tanto più importante se si considerano gli anni salienti della sua attività, caratterizzati da un duro scontro ideologico.
Egli intende risalire ad una matrice comune, non culturale ma esistenziale, e la sua ricerca artistica rifugge da schemi predeterminati, inseguendo l’affermazione della dignità come presenza costante in ogni suo scatto. Questo impegno non si percepisce solo nella scelta dei soggetti, ma anche come scelta di vita. Insieme a diversi fotografi fonda nel 1957 la Realfoto, un’agenzia composta da giovani che decidono di lavorare come freelance per non rinunciare alla loro indipendenza. Cascio firma nel corso degli anni lunghe corrispondenze fotografiche dall’India, dall’Egitto, dal Vietnam, dalla Colombia. Lo stesso ideale progressista lo porta a collaborare con Vie Nuove, periodico legato al Partito Comunista e a scrivere quattro fotolibri tra cui Lazzaro alla tua porta e Vangelo a caso.
Cascio collabora con tutte le riviste più importanti del mondo, negli anni Sessanta e Settanta le sue foto vengono pubblicate dal New York Times e Life, Look e Stern, Paris Match e dagli italiani L’Europeo, La Stampa, Paese Sera, Il Mondo.
Ad un certo punto della sua magistrale carriera di fotografo, come già era accaduto per la professione di medico, Cascio si ferma. Difficile capire, al di là delle spiegazioni che furono date, le ragioni profonde di una così importante decisione. E forse non è così importante definirle. Rimane di lui, nel panorama dei maestri italiani, il tratto peculiare e ineludibile di una fotografia “umanista”, come la definisce Monica Maffioli, che ha curato la mostra insieme ai figli di Cascio.
Fratelli in un mare di fango, foto scattata a Cà Mau in Vietnam del sud nel 1960, mostra una bambina nel fango, scalza, che porta sulle spalle, come uno zainetto, un bambino molto più piccolo. Lo sguardo è severo, serio ma non triste; guarda davanti a sé, fissa i suoi occhi in quelli del fotografo. Avanza sicura, con la schiena ben dritta, ha in mano un bastone ma non se ne serve, magari è un conforto per i momenti di difficoltà.
È l’epigrafe ideale della fotografia di Calogero Cascio.
Dialoghi Mediterranei, n. 53, gennaio 2022
[*] Le foto sono tratte dal sito del Museo di Roma in Trastevere. La mostra: Calogero Cascio. Picture Stories, 1956-1971 a cura di Diego Cascio, Natalia Cascio e Monica Maffioli è aperta fino al 9 gennaio 2022. Catalogo Silvana Editoriale, Milano 2021.
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Silvia Mazzucchelli, laureata in Scienze umanistiche, ha conseguito un master in Culture moderne comparate e un dottorato in Teoria e analisi del testo presso l’Università di Bergamo. Ha pubblicato due saggi dedicati alla fotografa e scrittrice Claude Cahun. Della stessa autrice ha curato Les paris sont ouverts (Wunderkammer, 2018) e scritto il saggio introduttivo per la traduzione in italiano del pamphlet. Ha collaborato con numerose riviste, fa parte della redazione della rivista on line Doppiozero. Da circa due anni sta conducendo uno studio analitico sul lavoro fotografico e poetico di Giulia Niccolai.
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