Nell’ultima fiera internazionale del libro di Tunisi (aprile 2023), l’Italia è tornata ad essere presente dopo una lunga assenza, dovuta fra l’altro alla pandemia del Covid. Questa ripresa coincide con l’insediamento della nuova rappresentanza diplomatica italiana, dopo le ultime elezioni e l’arrivo al potere del governo Meloni. Appena insediatosi alla direzione dell’Istituto Italiano di Cultura, il nuovo direttore voleva animare lo spazio riservato all’Italia alla Fiera del Libro del Kram (Tunisi), con incontri e dibattiti, fra i quali un incontro su Italo Calvino in occasione del Centenario della nascita del grande scrittore italiano scomparso nel 1985.
Quindi sono stato contattato per partecipare a un incontro non proprio accademico ma divulgativo, insieme al collega e amico Mario Sei, per parlare di Calvino: Mario Sei in quanto studioso di Calvino ed io in quanto traduttore delle Fiabe Italiane in lingua araba. È stata per me un’occasione per riprendere il discorso su Calvino e il suo rapporto con la fiaba, a distanza di quasi 35 anni dalla pubblicazione della traduzione araba del primo volume delle Fiabe Italiane, presso l’editore Finzi (1988). Ciò mi ha riportato agli inizi della mia carriera di traduttore, perché la traduzione di queste fiabe era la mia primissima esperienza di traduzione dall’italiano in arabo, quella che ha determinato per me una sorta di destino, che mi ha lanciato in un’attività tutt’ora in corso e che considero nello stesso tempo una fortuna e un limite.
A metà degli anni ‘80, forse nel 1986, l’allora direttore dell’Istituto di Cultura mi aveva espresso il suo desiderio di tradurre un’opera italiana in lingua araba. Non aveva un titolo preciso o un autore in particolare, e mi ha lasciato libero di scegliere l’autore e il libro. Dopo un momento di riflessione gli ho proposto di tradurre le Fiabe italiane trascritte da Calvino. Sulle ragioni della mia scelta c’era fra l’altro la recente scomparsa dello scrittore, avvenuta il 19 settembre 1985, e il doveroso omaggio che gli si doveva traducendo un suo testo in lingua araba. Altre considerazioni di varia natura erano alla base di questa mia scelta:
Innanzitutto, Calvino non era mai stato ancora tradotto in arabo. Fino a quegli anni ‘80, il movimento di traduzione di opere italiane si era concentrato su quegli autori che si possono chiamare “classici”, a cominciare dalla Divina Commedia di Dante Alighieri, tradotta in prosa da Hassen Othman nel 1959, o Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa tradotto da Issa Naouri, o ancora le novelle di Luigi Pirandello tradotte da Mohamed Tellissi, e altri autori come Moravia, Levi, Silone..
Ma oltre l’omaggio dovuto a Calvino c’erano altre considerazioni alla base della scelta delle Fiabe italiane, e non di altre opere più strettamente legate alla creatività di quest’autore, come il suo primo romanzo I sentieri dei nidi di ragno, o una delle opere che lo hanno reso famoso in tutto il mondo come Le città invisibili o Il barone rampante e molte altre. Dopo tutto le fiabe non sono di Calvino, sono fiabe popolari in vari dialetti che ha trascritto in italiano per renderle leggibili da tutti.
Diciamo che ho voluto nello stesso tempo offrire al lettore arabo qualcosa di Calvino (la sua lingua, il suo stile) e qualcosa del popolo italiano, così vicino a noi geograficamente e storicamente e antropologicamente (almeno nella sua parte meridionale). Avevo già letto le Fiabe, e oltre il piacere ricavato dalla loro lettura, sono rimasto sorpreso dalla somiglianza di tante storie raccontate da noi nelle lunghe serate d’inverno quando non c’era ancora né radio né televisione. Delle mie letture giovanili ricordo anche Le mille e una notte, che leggevo nei torridi pomeriggi d’estate, durante le vacanze scolastiche, di nascosto perché mio padre non avrebbe mai tollerato che leggessi simili storie, spesso erotiche e comunque non adatte all’infanzia. Mentre le Fiabe trascritte da Calvino erano per tutti, grandi e piccoli, e una volta tradotte in arabo potevano anche (almeno speravo) far parte delle letture dei tunisini e degli arabi in genere, giovani e meno giovani. Ciò non è avvenuto: come per molte traduzioni, spesso fa difetto la distribuzione e più semplicemente l’informazione e la pubblicità. Molte traduzioni rimangono ignote per pigrizia, disinteresse o indifferenza delle istituzioni e dei media, spesso quando non costituiscono un prodotto interessante sul piano commerciale.
C’era un’altra motivazione o aspettativa che non ha avuto l’esito che speravo. Era quella di offrire agli studiosi di folklore e di racconti popolari un materiale che sarebbe stato ricco di sorprese nell’ambito dell’antropologia comparata: ossia cercare punti d’incontro, un sentire comune, una corrispondenza di sogni e di speranze fra popoli che vivono sulle stesse sponde dello stesso mare. Da questo punto di vista l’introduzione alle fiabe scritta da Calvino sarebbe stata di grande utilità per chi volesse studiare i rapporti tra fiaba popolare e fiaba d’autore in Italia, e tra fiabe popolari italiane e fiabe tunisine o arabe. Oggi non mancano fra gli italianisti tunisini e arabi coloro che potrebbero indagare in modo approfondito questi aspetti relativi alla produzione fiabesca sia popolare che colta, e i possibili approcci comparativi tra fiaba italiana e racconti tunisini e arabi.
Le altre motivazioni alla base della scelta di queste Fiabe sono di ordine personale: l’attrazione per tutto ciò che è affabulatorio, trasfigurazione della realtà, sogni e fantasie, presenti ovunque, in tutti i popoli; strumenti di evasione dal mal di vivere, dall’oppressione, fantasmagorie sulla vita e sulla morte, sugli angeli e sui diavoli, sui mostri di ogni genere che si chiamino orchi o ghoul, sui santi, i re o i sultani, o sui semplici e oscuri lavoratori della terra.
Infine mi sembrava che traducendo in arabo le Fiabe, entravo pure io nel mondo dei narratori anonimi che raccontano storie, aggiungendo qualcosa a ciò che c’era prima, un tocco personale, una trovata espressiva, com’era successo per lo stesso Calvino trascrivendo dai dialetti questi racconti popolari in lingua italiana, conformemente al detto popolare toscano “la novella nun è bella, se sopra nun ci si rappella” [1].
A questo punto, c’è da chiederci che cosa ha spinto Calvino ad occuparsi di fiabe? Oltre ad una pretesa predisposizione, quali erano le sue motivazioni? e che posto occupano le fiabe nel pensiero e nella creatività dell’autore? E soprattutto perché accostarsi a un tale genere di narrativa nonostante il lavoro fosse irto di difficoltà e di ostacoli? Difficoltà e ostacoli di cui era consapevole come appare dalla sua lettera del 1954 a Giuseppe Cocchiara, nella quale lo informava del progetto affidatogli dalla Casa editrice Einaudi di «porre mano a un piano organico di tutta la favolistica mondiale», aggiungendo che il progetto è «particolarmente difficile» per quanto riguarda le fiabe italiane che non hanno avuto «il loro Grimm o il loro Afanasjev»:
«C’è il problema della raccolta del materiale che per alcune regioni è già edito e per altre quasi inesistente. C’è il problema dei dialetti. C’è il problema, mettendo insieme il materiale di raccoglitori diversi, di dare un’unità, stilistica e di metodo, al libro (…) Insomma su una base di lavoro filologica, lavorare con criteri essenzialmente poetici. Anzi [Einaudi] aveva addirittura proposto a me – povero me! – di assumermi questo lavoro di “unificazione”, cioè di scegliere tra le varianti, tradurre dove c’è da tradurre, riscrivere il già scritto in italiano» [2].
Nel 1954 Calvino inizia quindi il lavoro sulle fiabe e si immerge come dice nell’Introduzione «in questo mondo sottomarino disarmato d’ogni fiocina specialistica, sprovvisto d’occhiali dottrinali, neanche munito di quella bombola d’ossigeno che è l’entusiasmo…» (ivi: 12). Ci chiediamo, come se l’era chiesto lo stesso Calvino perché avesse accettato quest’incarico. Noi possiamo azzardare tante ragioni: l’esigenza editoriale di ravvivare in Italia un interesse per la novellistica popolare; rendere accessibile a tutti la lettura e la scoperta di un materiale rimasto fino ad allora riservato agli specialisti di tradizioni popolari; o semplicemente il desiderio del viaggio e la curiosità per un universo popolato da personaggi reali e da creature fantastiche partoriti dall’immaginario popolare. Ma ecco la risposta stessa di Calvino:
«Insomma, ci sarebbe stato da chiedermi perché ho accettato d’occuparmene, se non fosse per un fatto che mi legava alle fiabe (…) quell’unica convinzione mia che mi spingeva al viaggio tra le fiabe; ed è che io credo questo: le fiabe sono vere. (…) Sono, prese tutte insieme, nella loro sempre ripetuta casistica di vicende umane, una spiegazione generale della vita, nata in tempi remoti e serbata nel lento ruminio delle coscienze contadine fino a noi; sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna, soprattutto per la parte di vita che appunto è il farsi d’un destino» [3].
Con questa disposizione d’animo Calvino inizia il suo viaggio nelle raccolte popolari conservate negli archivi in attesa di essere riscoperte e offerte alla lettura del grande pubblico. A distanza di quasi un secolo dal grande lavoro compiuto da folkloristi come Giuseppe Pitré, Gherardo Nerucci, Domenico Comparetti e tanti altri, Calvino mette mano a questa miniera di racconti popolari provenienti dalle varie regioni e dalla tradizione orale in dialetto. Due erano i suoi obiettivi: rappresentare tutti i tipi di fiaba di cui è documentata l’esistenza nei dialetti italiani; rappresentare tutte le regioni italiane. Va segnalato che nello stesso periodo in cui gli studiosi di tradizioni popolari raccoglievano, catalogavano e conservavano negli archivi canti popolari, proverbi e racconti, fioriva col verismo una narrativa che faceva del popolo delle campagne e dei lavoratori delle cave e delle zolfare il protagonista di novelle e di romanzi. In Sicilia, Giuseppe Pitré pubblicava a Palermo, nel 1875 i quattro volumi delle Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani, e Giovanni Verga iniziava la stagione verista con le novelle Vita dei campi, ed il romanzo I Malavoglia. Dal canto suo Luigi Capuana, che pare abbia collaborato col Pitré a raccogliere fiabe – raccontava anche un aneddoto, secondo il quale aveva rifilato al grande folklorista una fiaba di sua invenzione, facendola passare per racconto popolare – divenne un grande scrittore di fiabe, considerate dallo stesso Calvino un’«eccezionale riuscita poetica (…) fiabe nutrite insieme di fantasia e di spirito popolare» (ivi:10).
Le fiabe di Luigi Capuana pur essendo fiabe d’autore si accostavano al modello popolare, a tal punto che all’apparire di C’era una volta…, molti vollero vedere in queste fiabe dei raccontini presi dal folklore siciliano e trascritti in lingua. Perfino il Verga che in una sua lettera gli scriveva dicendo: «Io spero che tu non avrai cambiato una virgola alla favola genuina delle nostre donne», Capuana gli rispondeva: «E io non posso resistere alla tentazione di disingannarti, non posso resistere alla vanità di dirti che in tutto quel libro non c’è una sola riga che la ‘favola genuina delle nostre donne’ possa reclamare; che tutto quel mondo di fatti, di personaggi, di luoghi è un mondo mio, sbocciatomi non so come, sotto un’esaltazione nervosa che aveva dell’allucinazione» [4].
Un altro siciliano, Giuseppe Bonaviri, dopo più di un secolo, prova a riscrivere la fiaba siciliana sperimentando nuove tecniche, tra fantastico e favolistico, invertendo talvolta i ruoli, come nei racconti Gesù e Giufà, dove i miracoli li fa Giufà anziché Gesù [5].
Comunque, la Sicilia insieme alla toscana appaiono come le regioni più ricche di fiabe, sia sul piano quantitativo che quello qualitativo. Naturalmente troviamo nelle fiabe siciliane lontane riminiscenze del mondo arabo, sia nei frequenti rimandi alle Mille e una notte, che nella presenza di tutto un ciclo dedicato a Giufà. Questo è stato ovviamente per me una ragione in più per scegliere di tradurre in arabo queste fiabe: i lettori tunisini e più in generale arabi, ritroveranno qualcosa delle proprie tradizioni orali.
Personalmente ricordo una delle storie di Giufà che mi fu raccontata da piccolo, e che si trova proprio in questa raccolta delle Fiabe italiane: è quella di “Giufà, tirati la porta!”, con la sola differenza che invece del campo: «Giufà doveva andare al campo con sua madre. La madre uscì di casa per prima e disse: Giufà, tirati dietro la porta!», nella storiella tunisina, la madre andava al matrimonio di una vicina e disse a Giufà, che voleva anche lui andarci, di tirarsi dietro la porta. Il resto potete immaginarlo: «Giufà si mise a tirare, a tirare, finché a porta si staccò dai gangheri. Lui se la caricò in spalla e andò dietro a sua madre».
Dopo l’escursione nel mondo delle fiabe popolari, Calvino è giunto a queste conclusioni: «le fiabe, si sa, sono uguali dappertutto»; ma «la comunanza non esclude la diversità: scelta/rifiuto di certi motivi, creazione di personaggi, atmosfere diverse, stili di racconto diversi» (ivi: 20)
Secondo quali criteri Calvino ha trascritto, o meglio tradotto queste fiabe? La domanda non è di poco conto per chi come me ha scelto di tradurre in arabo le Fiabe italiane. Nelle variegate espressioni popolari, dai canti ai proverbi ai mimi e alle fiabe, forse quest’ultima è quella più traducibile, ma resta il fatto generale, secondo le stesse parole di Calvino, che «tradurre una pagina vernacola equivaleva talvolta ucciderla». Quindi si pone una questione di legittimità dell’atto traduttivo: è possibile tradurre una fiaba senza ucciderla? Rispetto ad altri generi di produzione popolare, la fiaba è forse quella che si presta meglio all’intervento sui testi. Diceva Calvino: «È assurdo tradurre i canti popolari. Mentre la fiaba gode di maggior traducibilità che è pregio della narrativa» (ivi: 22).
Uno si chiede fino a che punto è intervenuto Calvino sui testi in dialetto per trascriverli in una lingua italiana accessibile a tutti i lettori, perché questo è alla fin fine l’obiettivo di tutta l’operazione: «Questo libro è nato col preciso intento di rendere accessibile a tutti i lettori italiani (e stranieri) il mondo fantastico contenuto in testi dialettali non da tutti decifrabili». In altre parole, trascrivere le fiabe o tradurle significava restituirle al lettore italiano (e straniero) con la stessa misura di godibilità, senza togliere nulla del suo fascino, e il traduttore-camaleonte deve travestirsi da raccontafiabe, e se c’è bisogno per una fiaba troppo scarna o povera di testimonianze «dovevo per salvarla – diceva Calvino – ritesserla da cima a fondo».
In questa confessione risiede la portata del lavoro di Calvino sulle fiabe. Certo le fiabe restano sempre un prodotto della fantasia popolare, Calvino non ne è l’autore. Ma ciò non significa che l’impronta di Calvino sia assente, e lo vediamo nelle note alla fine di ogni fiaba, che testimoniano del lavoro compiuto da Calvino: cambiare il titolo di una fiaba perché quasi impronunciabile, o aggiungere particolari per rimediare alla povertà di dettagli, lavorare sui personaggi, sugli oggetti magici, cambiare il finale di una fiaba ecc..:
«In tutto questo mi facevo forte del proverbio toscano caro al Nerucci: “La novella nun è bella, se sopra nun ci si rappella”, la novella vale per quel che su di essa tesse e ritesse ogni volta chi la racconta, per quel tanto di nuovo che ci s’aggiunge passando di bocca in bocca. Ho inteso di mettermi anch’io come un anello dell’anonima catena senza fine per cui le fiabe si tramandano, anelli che non sono mai puri strumenti, trasmettitori passivi, ma (…) i suoi veri autori» (ivi: 25).
Posso essere anch’io un anello di questa anonima catena? In un certo modo lo sono, innanzitutto perché sono diventato il raccontafiabe arabo di racconti popolari italiani, e poi perché ho dovuto operare le modifiche necessarie per rendere queste fiabe godibili allo stesso grado (almeno spero) per i lettori arabi: alcuni titoli li ho cambiati perché difficili da pronunciare, come Giricoccola o Il gobbo Tabagnino. Ho tradotto le frequenti parti in versi, le cantilene, i ritornelli… cercando di salvaguardare sia il senso che la poeticità. Ho tradotto la fondamentale introduzione di Calvino per fare del libro sia una raccolta di fiabe italiane sia un documento di notevole importanza teorica e metodologica derivante dall’interesse che Calvino ha sempre avuto per questo genere di narrativa. E non sarebbe esatto o giusto, secondo me, considerare le Fiabe italiane come una parentesi trascurabile nella produzione generale di Calvino, poiché vediamo che anche negli anni che seguirono, e fino alle Lezioni americane, Calvino non ha cessato di parlare e di riflettere sulla fiaba. Ne testimoniano inoltre i suoi scritti ulteriori su: Le parità e le storie morali dei nostri villani di Serafino Amabile Guastella (1969); Le fiabe del focolare di Jacob e Wilhelm Grimm (1970); Mimi siciliani di Francesco Lanza (1971); La tradizione popolare nelle fiabe (1973); La mappa delle metafore (1974); I racconti di Mamma l’Oca di Charles Perrault (1974).
Si diceva all’inizio che la scelta di Calvino da parte della Casa editrice Einaudi era dovuta, fra l’altro, a una sorta di predisposizione verso il fiabesco e il fantastico, rivelatasi sin dal suo primo romanzo I sentieri dei nidi di ragni, e confermatasi con la trilogia I nostri antenati, e i romanzi fantastici che hanno fatto la sua fama nel mondo intero. Ma la predisposizione non basta: c’è in Calvino una visione della realtà e del mondo dove il magico ed il fantastico fanno parte integrante dell’essenza dell’uomo e della sua realtà circostante. L’Uomo non è tale se non è capace di magia e di poesia.
Dialoghi Mediterranei, n. 62, luglio 2023
[1] I. Calvino, Fiabe italiane, Introduzione, Mondadori, Milano 1956: 25
[2] I. Calvino, Sulla fiaba, a cura di Mario Lavagetto, Einaudi, Torino 1988:VI
[3] I. Calvino, Fiabe italiane: 3
[4] L. Capuana, Tutte le fiabe, vol. 1, Mondadori, Milano 1983: 11
[5] G. Bonaviri, Novelle saracene, Rizzoli, Milano 1980
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Ahmed Somai, italianista e traduttore tunisino. Co-autore dei tre primi manuali per l’insegnamento della lingua italiana in Tunisia (1995-1997). Autore di una Bibliografia italiana sulla Tunisia (ed. Finzi), ha curato per la collana “I Classici” i volumi: G. Verga, Vita dei campi; L. Capuana, Il marchese di Roccaverdina. Dalla metà degli anni ’80 è impegnato in una costante attività di traduzione in arabo di opere e autori italiani: I. Calvino, Fiabe italiane, vol.1, Finzi Ed. Tunisi, 1988; G. Bonaviri, Il sarto della stradalunga, Finzi, Tunisi, 1998; N. Ammaniti, Io non ho paura, Cenatra, Tunisi, 2008; di U. Eco ha tradotto in arabo i romanzi: Il nome della rosa (1991); L’isola del giorno prima (2000); Il cimitero di Praga (2014); Numero zero (2017) e i saggi Semiotica e filosofia del linguaggio (2005); Dire quasi la stessa cosa (2012). Co-traduttore e curatore dell’Antologia di Poeti Tunisini tradotti in italiano, Roma-Tunisi, 2018. Ha tradotto ultimamente per l’editore Madar al Islam, Beirut, 2019, La colonia saracena di Lucera di Pietro Egidi.
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