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Camilleri e la Sicilia: oralità e teatro come specchio polifonico del mondo

copertina

Andrea Camilleri

di Annarosa Mattei

Non è un caso che Camilleri nasca in Sicilia, a Porto Empedocle, nello stesso territorio agrigentino in cui nacque Pirandello, segnato, forse più di altri luoghi, da antichi miti, da una naturale attitudine al racconto orale e alla messa in scena teatrale. Prossima a Porto Empedocle la collina del Caos, dove c’è la casa di Luigi Pirandello, che Camilleri conobbe da bambino, in piena estate – come racconta lui stesso nel suo libro Il gioco della mosca – durante una fugace visita, restando impressionato dalla sua divisa di accademico d’Italia: «Tu sei nipote di Carolina Camilleri? (…) Me la puoi chiamare? Digli che c’è Luigino Pirandello che la vuole vedere».

Non è un caso che lungo il corso principale di Porto Empedocle, trasformato nella immaginaria Vigata delle sue storie, si trovino oggi due statue, quella del suo Montalbano e quella di Pirandello: un personaggio di finzione, percepito come più autentico e vivo di un uomo vero, e il famoso scrittore, lontano suo parente, che più di altri ha svelato i sorprendenti paradossi di una realtà a cui nessuno chiede di essere verosimile.

Una vita assai lunga e operosa quella di Camilleri, dedita naturalmente a raccontare storie, sia per lavoro sia per libera scelta, in forme e in modi diversi, dalla prima giovinezza agli anni della vecchiaia estrema, illuminati da una inimitabile, rara capacità di distanza da sé e dai suoi mali, da una ancor più rara capacità di impegno, che lo ha visto sempre presente e attivo nel dibattito civile e politico, fino agli ultimi giorni di vita.

Camilleri è stato ed è la Sicilia, di cui ha espresso l’anima antica e profonda, assumendo una molteplicità di volti e di voci, entrando a pieno titolo in un universo letterario corale che affonda le sue radici in un crogiolo di lingue e civiltà traboccanti di innumerevoli storie e di una folla di personaggi ansiosi di essere messi in scena e narrati da un medium, capace di intenderli come pochi altri. Nel suo orizzonte letterario troneggiano Luigi Pirandello, Leonardo Sciascia, Gesualdo Bufalino, insieme a tanti altri più remoti testimoni, che riportano al mondo mitico greco e autoctono e alla grande letteratura europea.

1Da Pirandello certamente Camilleri aveva imparato a soprassedere sull’io, a prendere le distanze da sé, a osservare il mondo pullulante di vita con il distacco dell’umorista-filosofo, a registrarne le voci con divertita e ironica sapienza, inventando da par suo una lingua colorita capace di esprimerne la varietà e la potente energia. E non è irrilevante osservare, nel momento della sua scomparsa, come il suo polifonico procedimento narrativo sia una straordinaria eccezione nell’attuale panorama letterario, poiché nulla è più distante dalla scrittura di Camilleri dell’ossessione narcisistica di tanta scrittura del nostro tempo, concentrata troppo spesso nello spazio ristretto di un ‘io’ protagonista e debordante, non di rado attento solo ai propri malesseri e del tutto indifferente ai segnali e ai rumori infiniti del mondo.

Camilleri, come un antico sciamano, è stato capace di intendere e registrare le voci di tanti, di una folla di gente qualunque, ma anche di avere sempre in memoria, da sapiente letterato, i grandi testimoni del suo tempo, da Samuel Beckett a Eugène Jonesco a August Strindberg a Thomas Stearns Eliot, per citarne solo alcuni, tra classici e contemporanei, che amò far conoscere al pubblico attraverso il teatro, sua prima e ultima passione, riversata a piene mani nell’arte della sceneggiatura e nella narrazione.

Se è difficile ripercorrere la lunga attività letteraria di Camilleri nei diversi ambiti in cui si è manifestata, può essere molto interessante riflettere in particolare sulla sua scelta narrativa, sulle modalità, le forme e i linguaggi attraverso i quali si è espressa con rara e generosa capacità comunicativa. Una vera e propria genialità, la sua, che sapeva apparire semplice e quasi innata, nonostante la sua evidente, raffinata e coltissima formazione letteraria, tanto da suscitare entusiasmo a adesione tra i lettori e qualche dubbio in certa critica accademica, sospettosa di tanta popolarità. L’amore per il teatro e la pratica della sceneggiatura sono il segreto della sua narrazione, come di quella di Pirandello, conterraneo, parente e modello, capace come pochi altri di trasferire trame e personaggi dal racconto breve al romanzo al teatro, sino al copione di un film.

2Trasformare un testo narrativo in sceneggiatura e viceversa, tanto da far diventare ‘arte’ entrambi i procedimenti: questo è stato il tocco esclusivo di Camilleri, da che iniziò a lavorare in Rai, a partire dal 1957, dai primi racconti fino ai romanzi pubblicati negli anni della maturità e poi, a non finire, nel corso della sua lunga vita di cantastorie. Avrebbe voluto terminare la sua vita seduto in una piazza a raccontare, affermava nei suoi ultimi giorni, segnati dalla inevitabile sofferenza della vecchiaia e dalla cecità, che, a detta sua, lo aveva reso libero di non guardarsi più in faccia e di attingere alla verità come Tiresia.

Fu Leonardo Sciascia, conosciuto nell’occasione della sceneggiatura del Giorno della civetta, a sollecitarlo a scrivere e a pubblicare storie, a presentarlo a Elvira Sellerio, che divenne sua grande amica e fortunata sostenitrice della sua tarda e straordinaria popolarità di romanziere. Una popolarità che non fece altro che crescere e crescere, fino ai suoi ultimi giorni, quando era atteso alle Terme di Caracalla per il suo monologo, Autodifesa di Caino, che avrebbe certamente ripetuto l’impatto emotivo e il successo delle Conversazione su Tiresia, recitato da lui stesso nel Teatro greco di Siracusa, se solo non lo avesse arrestato la morte.

Camilleri, del resto, inizia proprio con il teatro, diplomandosi regista all’Accademia nazionale d’arte drammatica, ed è puro e amato teatro la modalità narrativa di ogni sua storia, sempre fittamente intessuta di dialoghi, tra sovrapposizioni ed equivoci, come si conviene a una commedia. E, come nel teatro delle origini, l’oralità è per lui la via della trasmissione narrativa più efficace e vera, dai racconti giovanili ai primi romanzi di successo, fino alla fortunatissima serie di Montalbano.

Già con Il birraio di Preston Camilleri aveva avuto inatteso successo e impennate di vendita, ma con La concessione del telefono, pubblicato nel 1998 e giunto alla 59 edizione, diventa un vero fenomeno, osservato dai critici e amato senza riserve dal pubblico dei lettori. Basta esaminare la struttura di questa sua celebre storia per entrare nel mondo animato e colorito di Camilleri, nello spazio di una Sicilia inventata, dove tutti parlano una lingua che non esiste ma che sembra più vera del vero.  Come Il re di Girgenti, che, qualche anno dopo, racconta una storia favolosa, fondata su leggende orali, nella forma apparente di un romanzo storico.

3Storia e ‘cunto’ si mescolano nel laboratorio narrativo di Camilleri, che, nella Concessione del telefono, alterna i capitoli, intitolandoli ‘cose scritte’ e   ‘cose dette’, mescolando le vicende pubbliche alle vicende private, la burocrazia demenziale agli intrighi amorosi, costruendo un canovaccio narrativo di prodigiosa vivacità e comicità. Come in un copione di commedia dell’arte i personaggi recitano la loro parte suscitando effetti impareggiabili di pirandelliano umorismo: Filippo Genuardi “preso a mezzo tra lo stato e la mafia”, fedifrago, commerciante parassita, chiede una linea telefonica con l’intento non dichiarato di contattare l’amante, moglie del suocero, e dà avvio a una impareggiabile pantomima con i personaggi che detengono i poteri locali, dal prefetto, Vittorio Marascianno, a Calogero Longhitano, capo della mafia locale.

«Noi tutti siamo il teatro, il pubblico, gli attori, la trama, le parole che udiamo» dice Andrea Camilleri nella sua Confessione su Tiresia citando Borges e un’idea del mondo come teatro che è stata anche di Shakespeare.  L’11 giugno del 2018, nel Teatro greco di Siracusa, un anno prima di morire, è lui stesso che recita per la prima volta un suo testo, realizzando a pieno la sua vocazione, proprio quando la cecità lo colloca sullo stesso piano percettivo del mitico indovino, in una dimensione in cui l’oscurità si fa veggenza del mondo, possibilità di accedere alla verità, alla misteriosa natura profetica della poesia.

Dialoghi Mediterranei, n. 39, settembre 2019

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Annarosa Mattei, scrittrice, studiosa di letteratura, vive a Roma, dove ha fatto i suoi studi ed è tuttora attiva. Ha pubblicato tre romanzi negli Oscar Mondadori: Una ragazza che è stata mia madre (2005); L’archivio segreto (2008); Il sonno del Reame (2013). Il suo ultimo libro è un saggio storico-letterario, intitolato L’enigma d’amore nell’occidente medievale (2017, La Lepre edizioni). Collabora con la pagina culturale del quotidiano Il Messaggero. Si occupa di promozione del libro e della lettura anche attraverso i social media. Tiene un suo blog intitolato Le considerazioni del gatto Gregorio.

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