di Luigi Lombardo
Se oggi domandassi a chiunque, anche gente esperta, storici o ricercatori, se conoscono la cannausa o cannabusa, o peggio ancora la cannavusata, penso che la maggior parte di questi alzerebbe le spalle e ammetterebbe di non averne sentito mai parlare. Ma non è colpa loro. In effetti questo particolare seme fu tolto dalle nostre tavole e dai nostri consumi per due ordini di fattori: economico- commerciali e sanitari. Il fattore sanitario era vecchio: una polemica contro i suoi effetti sulla salute. Il primo intervenne subito dopo l’Unità d’Italia, ed atteneva alla crisi in cui caddero le produzioni manifatturiere ed agricole meridionali a causa della concorrenza dei prodotti del Nord Italia. Ci sarebbe una terza fase, quella a noi più vicina, legata alla lotta contro gli stupefacenti degli anni 70 del secolo scorso, che coinvolse anche la innocua cannabis sativa, da cui si ricavavano i semi di cannabusa. Ma andiamo per ordine.
Fin dal Medioevo si coltivava in Sicilia la canapa (la “sativa” naturalmente), in quantità da generare un commercio rimarchevole di prodotti da essa derivati: fibre per funi e corde, e filo tessile per confezionare tovaglie, biancheria e tessuti di ogni tipo, che venivano chiamati perciò di manni, di stuppa, o in generale di cànnavu. Una particolare e importante produzione di ricavo era il cannavazzu, tela grossolana per sacchi e coperte di campagna. Era un’industria fiorente, attiva commercialmente, redditizia. Nella confezione delle corde eccelleva Siracusa; nei tessuti i centri dell’entroterra Ibleo: Melilli, Sortino, Palazzolo su tutti. Il mannu era il più raffinato di tali prodotti per tessitura, la stuppa la meno pregiata: infatti si ripete ancora oggi a mo’ di proverbio:
«Stuppa mi rasti e stuppa ti filai
tu mi tingisti e iu t’anniviricai»,
come dire “rendere pan per focaccia”. Non dimentichiamo poi che la maggior parte delle vele delle barche per navigazione era fatta di stoffa ricavata dalla canapa.
Ma c’era un ulteriore prodotto della lavorazione della canapa che si ricavava direttamente dalla “scotolatura” della pianta raccolta: il seme chiamato appunto cannabusa. La “scotolatura” era una delle fasi del processo di lavorazione della canapa. Questa si coltivava in quelle aree ricche di acque in parte stagnanti, quali erano le foci dei fiumi o i laghetti che si formavano lungo il loro corso. Essa interessava sia la montagna che la marina, dove tuttavia questa produzione si faceva abbondante e atta al commercio estero, grazie al clima caldo e umido.
Si preparavano i terreni attraverso una frollatura frequente e una serie di arature, in modo da renderlo fràulu. Il sistema di coltivazione era di tipo orticolo con abbondanti concimazioni (grassuri). Verso la fine di marzo si seminava. Il seme veniva ben compresso con pesanti rulli. Fra la fine di maggio e gli inizi di giugno si mieteva alla radice e si raccoglievano in manni le bacchette. Ogni mannu era composto da un certo numero di fastelli, e ogni fastello consisteva nella quantità di bacchette contenute nel palmo chiuso del mietitore. Raccolti in filari (cameri), i mannelli si lasciavano asciugare per tre giorni, quindi si rivoltavano. Quando erano ben asciutti si portavano nell’aia (ariuni) della massaria e si battevano per far cadere i semi (cannavusa), che dopo essere stati ben spolverati si raccoglievano per gli usi diversi cui si piegavano.
Separata la pula, si “infasciavano” con le liami i mannelli a gruppi di dieci (rècuma, forse corruzione di decina): dieci rècume formavano una sàrcina. Così “infasciati”, si accatastavano sotto le logge. Dopo il 15 agosto si portavano al fiume e si disponevano nei maceratoi, detti bbonachi, che erano delle vasche ricavate nel fiume di diversa grandezza, limitate da muretti di pietra dura e profonde oltre un metro. Le sàrcine si univano a due a due a formare delle zattere su cui si disponevano pesanti pietre di arenaria estratte nelle vicine cave. Le zattere si legavano a dei pali conficcati nel greto del fiume. Su di esse ogni proprietario apponeva un proprio segno. In acqua si lasciavano per circa otto giorni, il tempo necessario per far rompere il parenchima e consentire l’estrazione della fibra. Tirati fuori i mannelli, si disponevano in posizione verticale a capanna circolare (le bacchette raggiungevano e superavano i due metri di altezza). Quindi si disponevano a terra e una volta perfettamente asciugati si trasportavano alle masserie per essere maciullati (gramolatura) e scotolati.
La prima operazione era eseguita soprattutto dalle donne, con l’uso di una gramola di legno, detta mànganu, formata da una base, suttana, e dalla soprana detta pistuni. L’operatrice disponeva l’attrezzo un po’ obliquo sul terreno, indi impugnava la soprana alzandola per l’impugnatura. Con l’altra mano prendeva i fustelli della canapa e li faceva passare fra i due corpi, abbassando violentemente la soprana e maciullando il canapulo. La seconda operazione prendeva il nome dall’attrezzo spàtula, e quindi spatulari si diceva l’operazione relativa. La fibra ottenuta ancora grezza era avviata al commercio, soprattutto a Siracusa, dove era acquistata dai numerosi cordai. Le leggi sanitarie costituirono un ostacolo alla coltivazione della canapa, ma più poterono sul suo declino l’arretratezza dei sistemi di lavorazione e commercializzazione, e ultimo, e il peggiore, la impietosa concorrenza delle industrie del nord.
Il seme raccolto nelle ceste veniva tostato, come si faceva con la giuggiolena: questa operazione era già di pertinenza dei torronari, chiamati in questo caso cannavusari. Questi raccoglievano il seme tostato in grandi caldare e lo mescolavano con il miele, rimestando continuamente: il procedimento era simile a quello usato dai cubaitari per confezionare la cubàita, tipico dolce natalizio. La cannavusata ottenuta si vendeva nelle sere che precedevano il Natale, in particolare il giorno della festa dell’Immacolata, l’otto dicembre, quando i cannavusari ne declamavano le virtù col grido (vanniata):
«Iè biella, iè cannavusata,
ruci e rusata».
Questi artigiani del torrone, chiamati talora confettieri, più comunemente cubaitari (e i cannavusari ne erano una filiazione), erano ambulanti che ieri come oggi frequentavano le più importanti feste patronali dell’Isola, da un capo all’altro, come leggiamo nel documento del 1807 in cui due mastri cubaitari siracusani si portano a Melilli, in occasione della festa di San Sebastiano, celebrata il primo maggio [1]. Di estremo interesse mi sembra un altro documento[2], conservato presso l’Archivio di Stato di Siracusa, in cui un mastro vende ad una suora del Convento di Montevergini tutti gli attrezzi di cubaitaro. In esso si fa, tra l’altro, riferimento alla fornitura anche di cannabusa e si conferma l’ipotesi che le suore dei conventi non hanno in verità creato la dolceria di tradizione, ma hanno piuttosto imparato dai confettieri o cubaitari un’arte che poi hanno conservato e a loro volta trasmessa.
Pare siano stati gli arabi ad insegnare ai siciliani l’arte della cubaita, del torrone, e della confetteria. ma strano a dirsi tutte queste parole hanno una radice latina: torrone da torreo, cubaita da copedia, confetto da conficere. Significherà qualcosa? I Greci conoscevano già un dolce di miele e giuggiulena, chiamato “myllos”. C’è da precisare che la parola cubàita ai Romani arrivò tramite il greco-bizantino (il greco Kobeta divenne in latino Copedia e in volgare cobeta, che si mantiene in siciliano evolgendo in cubaita). Gli arabi nei loro ricettari mai hanno usato la parola torrone, che invece è comunissima nei territori di conquista araba, come la Sicilia o l’Andalusia. Il primo ricettario di confetteria europeo, il Llibre de totes maneres de confits, venne scritto in un territorio (la Catalogna) a stretto contatto con la cultura araba: ma in questo ricettario tutti i torroni di mandorla sono designati appunto con la parola torrons, laddove in precedenti ricettari arabi si usavano altri nomi per indicare gli stessi prodotti (ad esempio h’alwā, ).
A guardar bene, tutti i popoli che si affacciano sul mare nostrum (absit iniuria verbis) hanno condiviso (e ancora condividono) stili di vita, costumi, parole, suoni, cibi e … sofferenze, così che il trasferimento di mode alimentari da un’area all’altra è l’esito fecondo di contatti e incontri favoriti da un comune sostrato e un collettivo patrimonio culturale.
Questo particolare prodotto della dolceria siciliana, la cannabusa, scomparve, attaccato dalle leggi sanitarie in quanto ritenuto inebriante e tossico. La ragione risiedeva nel collegamento con gli effluvi nocivi della macerazione, che provocava fastidi alle popolazioni vicine ai maceratoi della canapa. Ma più poté la forza della concorrenza dei prodotti che già l’industria dolciaria imponeva ai consumatori meridionali.
La piccola storia della cannabusa, qui brevemente richiamata, riconduce dunque alla grande storia mediterranea, alle sue diverse e complesse vicende di migrazioni e scambi, alle molteplici rotte intraprese dagli uomini che hanno su questo mare dispiegato una fitta trama di contatti e relazioni, di traffici e transazioni, connessioni non soltanto economiche e commerciali. Il destino di questo seme e di questo frutto può dirci ancora qualcosa su quello che in Sicilia ha rappresentato la cultura contadina, un’economia povera ma ingegnosa, una civiltà che sapeva trarre dalla terra le risorse più umili per rendere più “dolce” la vita e sicuramente più nobile e più gentile l’umanità.