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Capelli Afro e movimenti di riscatto politico e culturale

Angela Davis

Angela Davis

di Elena Giancarli 

La configurazione dei capelli ricci afro in America è un riflesso complesso e profondo delle esperienze sociali, culturali e politiche degli afroamericani. Questo simbolo di identità ha attraversato un lungo percorso di trasformazione, passando da un tempo di discriminazione e negazione a un’epoca di orgoglio e rivendicazione. I capelli afro, spesso osteggiati e considerati non conformi agli standard dominanti di bellezza, sono diventati un potente strumento di espressione culturale e politica. Questa evoluzione non solo ha segnato il cambiamento nelle percezioni individuali e collettive della bellezza, ma ha anche accompagnato le battaglie più ampie per i diritti civili e l’autoaffermazione. In questo contesto, esploreremo come l’acconciatura afro sia divenuta un simbolo di orgoglio e resistenza, rappresentando un viaggio dall’emarginazione all’affermazione culturale. 

I capelli afro hanno storicamente rappresentato un simbolo distintivo dell’identità nera, in particolare all’interno delle comunità diasporiche. Nelle culture afroamericane e afro-caraibiche, essi hanno acquisito un significato profondo, influenzato da molteplici fattori politici e sociali. Fin dal XV secolo, i capelli hanno costituito un mezzo di comunicazione fondamentale nelle comunità dell’Africa occidentale, trasmettendo informazioni riguardanti età, stato civile, classe sociale, religione e prestigio. La cura e la lavorazione delle acconciature richiedevano ore di lavoro e rivestivano un’importanza notevole; la figura che oggi comunemente definiamo “parrucchiere” svolgeva allora un ruolo sociale paragonabile a quello di sacerdoti e sciamani.

51g7nvsvqyl-_ac_uf10001000_ql80_Tuttavia, con l’avvento della schiavitù e nei secoli successivi, questi marcatori identitari si trasformarono in motivo di vergogna e disprezzo nelle stesse comunità afrodiscendenti, poiché evidenziavano la loro diversità rispetto alla dominante società bianca americana. L’assenza di strumenti adeguati alla cura dei capelli, insieme alla discriminazione e alle vessazioni ad essi associate, resero gli afrodiscendenti non solo vulnerabili, ma anche profondamente imbarazzati della propria identità. Purtroppo, l’effetto più devastante del colonialismo non fu tanto il controllo territoriale quanto il dominio sulle menti delle persone, contribuendo a generare un profondo senso di inferiorità. 

Tuttavia, tra il 1964 e il 1966, la comunità afroamericana intraprese un significativo percorso di riscoperta e valorizzazione della propria identità, adottando con orgoglio l’appellativo di “Black”. Questo cambiamento rappresentò una risposta diretta alle esperienze di oppressione e vergogna legate alla propria eredità culturale, spingendo molti a rivalutare e abbracciare i capelli naturali e ricci, in netta opposizione all’ideale di capelli lisci che era stato precedentemente considerato più elegante. A metà degli anni Sessanta, i capelli afro emersero come un potente simbolo politico, incarnando una dichiarazione di identità e resistenza in un periodo segnato dal Movimento per i Diritti Civili. Le proteste e le marce contro le leggi segregazioniste, guidate da figure centrali come Martin Luther King Jr., Rosa Parks, Malcolm X e John Lewis, contribuirono a consolidare l’immagine dell’Afro come segno visibile di connessione con le perdute radici africane, diventando un elemento chiave nell’affermazione dell’identità nera. 

Inoltre, durante questo stesso periodo, molti afroamericani iniziarono a celebrare con orgoglio la bellezza intrinseca della loro etnia. L’affermazione emblematicamente semplice ma profonda “Black is beautiful” venne proclamata per la prima volta in questo contesto, segnando un punto di svolta significativo nella lotta per l’autoaffermazione e l’identità culturale. Con il movimento Black Power e l’approvazione del Voting Rights Act del 1965, si affermò una nuova estetica che celebrava una cultura nera rivitalizzata e un rinnovato standard di bellezza. L’adozione orgogliosa dell’etichetta “Black” si tradusse in uno stile che esaltava le radici africane, trasformando questa identità in una potente dichiarazione politica di coscienza e appartenenza culturale. 

Washington, 1960

Washington, 1960

Come frequentemente accade nelle rivoluzioni sociali, la ribellione estetica degli anni ‘60 trasse origine nei campus universitari, dove gli studenti, ispirati da pensatori nazionalisti, iniziarono a mettere in discussione la cultura che promuoveva l’assimilazione nella società bianca come unica via verso il successo. Questo fervore intellettuale favorì l’emergere di leader del movimento Black Power, quali Kathleen Cleaver, Angela Davis e Stokely Carmichael, che si affermarono in un contesto di crescente disillusione e trasformazione. 

Pur apparendo inizialmente come un principio poco plausibile per un movimento rivoluzionario, per gli afroamericani, un cambiamento nella percezione di sé costituiva una forma profonda di rivoluzione. In un contesto di riaffermazione dell’orgoglio e della coesione culturale, si rivelava essenziale esaltare il proprio aspetto naturale. Artisti afroamericani come l’eclettica Faith Ringgold esplorarono attraverso le loro opere la politica della bellezza, celebrando ideali che riflettevano l’eredità africana. Figure come Abbey Lincoln, Ethel Waters e Betty Shabazz, moglie di Malcolm X, adottarono i loro capelli naturali quale espressione artistica e affermazione della propria identità, riconoscendo che tali ornamenti simboleggiavano il loro retaggio culturale. Abbandonando i capelli lisci in favore dei loro stili naturali, essi celebrarono la bellezza e l’orgoglio afroamericano, un cambiamento che trovò ulteriore espressione nell’arte di artisti come Sly Stone, Jimi Hendrix e Stevie Wonder. 

James Brown

James Brown

James Brown, con la sua iconica composizione del 1969 “I’m Black and I’m Proud” elevò l’Afro a simbolo di autoaffermazione e rivendicazione identitaria. Mentre gli uomini neri tendevano a preferire stili più sobri, le donne cominciarono a esprimere la loro creatività attraverso acconciature quali Afros di varie dimensioni, trecce, cornrows e copricapi africani noti come gelées. Altri artisti, come Nina Simone, utilizzarono la propria arte per stimolare riflessioni e promuovere l’educazione sulle convinzioni degli afroamericani. La sua canzone del 1966, “Four Women“, esamina e denuncia le ingiustizie affrontate da quattro donne, con versi come «My skin is black [...], my back is strong, strong enough to take the pain, inflicted again and again»[1], mettendo in luce la resilienza e la sofferenza delle donne nere. Questo brano, sebbene controverso e non sempre trasmesso dalle emittenti radiofoniche afroamericane, costituì una significativa dichiarazione artistica e politica. “Four Women” svolse un ruolo cruciale nel dibattito sui diritti civili e sull’uguaglianza, mirante a ispirare le donne nere a riconoscere il proprio valore e ad accettarsi per ciò che sono, in aperto contrasto con le norme di bellezza imposte e le pratiche discriminatorie della società. 

Altri artisti e ma soprattutto attivisti hanno utilizzato la loro voce per educare e stimolare i neri americani a riflettere e mettere in discussione le loro convinzioni. Un esempio di questo approccio è Stokely Carmichael, attivista e leader del movimento Black Power, il cui lavoro educativo si è manifestato nei suoi scritti e nei discorsi sul razzismo e sulla giustizia sociale. Questi studiosi hanno contribuito a mettere in luce le ingiustizie e le oppressioni sistemiche che le comunità afroamericane affrontavano, sostenendo l’importanza della rappresentazione e dell’identità culturale. 

Un aspetto significativo di questo periodo di trasformazione culturale è stato il cambiamento radicale nell’industria dei capelli afroamericani. L’adozione crescente dello stile naturale ha avuto conseguenze dirette sui saloni e sui fornitori di prodotti per capelli, portando a una diminuzione della domanda per i loro servizi e prodotti tradizionali. 

immagine3In passato, molte donne afroamericane utilizzavano prodotti chimici, come la lisciva e altri agenti caustici, insieme a ferri caldi per lisciare i capelli e conformarsi agli standard di bellezza occidentali che privilegiavano capelli lisci. La celebre apripista Madam C.J. Walker, attiva intorno al 1906 fino alla sua morte, ha dato un apporto significativo alla consapevolezza della diversità dei capelli afro. Walker costruì un impero economico dedicandosi alla creazione e, soprattutto, alla vendita di rimedi personali per combattere i danni al cuoio capelluto causati dai metodi invasivi e dai prodotti chimici sopracitati. Il suo lavoro non solo ha offerto alternative ai trattamenti dannosi, ma ha anche incoraggiato le donne afroamericane a riconoscere e valorizzare la bellezza naturale dei loro capelli. La sua visione imprenditoriale ha aperto la strada a una nuova industria di prodotti per capelli afroamericani, promuovendo l’idea che i capelli ricci e naturali potessero essere fonte di orgoglio anziché di vergogna. In questo senso, Madam C.J. Walker può essere vista come una pioniera del movimento per l’accettazione del naturale, anticipando il cambiamento culturale degli anni ‘60 e ‘70, in cui il ritorno alle radici e l’affermazione dell’identità nera si sono manifestati anche attraverso il rifiuto dei canoni di bellezza imposti dalla società dominante. 

Tutto questo portò a conflitti tra generazioni, con genitori, nonni e leader religiosi che consideravano il nuovo aspetto dei giovani come una grave offesa. È fondamentale ricordare che questa generazione era segnata da secoli e secoli di assoggettamento da parte dei bianchi americani, che aveva portato inevitabilmente all’interiorizzazione, seppur erronea, di convinzioni di inferiorità. La storica dei capelli e professoressa di studi afroamericani Nowlie M. Rooks evidenzia che, alla fine del XIX secolo, gli annunci pubblicitari per prodotti schiarenti e liscianti, sponsorizzati prevalentemente da aziende bianche, comunicavano ai neri che solo modificando le loro caratteristiche fisiche avrebbero potuto ottenere una mobilità sociale all’interno delle comunità afroamericane e ottenere l’accettazione della cultura dominante. Questo contesto storico spiega perché la generazione precedente guardava con scetticismo e diffidenza la scelta di portare i capelli afro naturali. Rooks sottolinea come questi messaggi abbiano contribuito a creare una cultura di conformità e pressione sociale, rendendo difficile per le generazioni più anziane accettare le espressioni di identità che si allontanavano dagli standard estetici imposti. La frattura generazionale, quindi, non è solo una questione di differenze di stile, ma riflette un’eredità complessa di oppressione e aspirazioni sociali, dove la scelta dei giovani di abbracciare i loro capelli naturali si scontra con le esperienze passate di chi ha cercato di adattarsi per sopravvivere.

Per alcuni, l’Afro era visto come un’anomalia estetica. Dopo anni di convinzione che i capelli dovessero essere lisci, lucidi e ordinati, l’Afro appariva sgradevole e persino estremista. Molti non consideravano nemmeno la dimensione politica dello stile. Per la Chiesa nera, che aveva sempre avuto un ruolo centrale nella comunità, la disapprovazione dell’Afro non riguardava solo l’estetica, ma rappresentava una condanna ideologica di tutto ciò che l’Afro simboleggiava. Nonostante il movimento per i diritti civili avesse politicizzato molti membri della congregazione, la Chiesa nera rimaneva prevalentemente conservatrice e non sosteneva la crescente militanza del movimento Black Power, riflettendo anche sulla questione dei capelli. Per la cosiddetta White America, la rivendicazione dell’identità nera non suscitava una reazione positiva. Il volume dei capelli afro rappresentava una crescente separazione dall’estetica bianca, evocando timori, disagi e una sensazione di perdita di controllo. Per la prima volta, i bianchi iniziarono a osservare attentamente come gli afroamericani portavano i loro capelli, e non tutti apprezzavano ciò che vedevano. 

91xmj8qc-2l-_ac_uf8941000_ql80_Fino alla metà degli anni Sessanta, i dibattiti sui capelli neri erano limitati alla comunità afroamericana. Tuttavia, in quel periodo, i capelli naturali neri divennero un tema ricorrente, portati alla ribalta da individui che avanzavano richieste politiche senza precedenti. Attivisti come Angela Davis, con il suo iconico afro, utilizzarono la loro immagine per esprimere un forte senso di identità e resistenza. Davis dichiarò: «Quando indosso il mio afro, non sto solo affermando la mia bellezza, ma sto anche rivendicando il mio diritto di essere chi sono, senza compromessi» [2].La sua presenza nei movimenti per i diritti civili e il Black Power notificò l’importanza della bellezza nera e della dignità in un contesto di oppressione. Un altro esempio è Stokely Carmichael, leader del movimento Black Panther e del Black Power, che sostenne l’importanza di riappropriarsi della cultura nera, «Dobbiamo liberarci dalla mentalità di chi pensa che il nostro valore dipenda dal conformarci agli standard bianchi» [3].La sua affermazione sottolineava l’importanza di abbracciare la propria identità culturale, compresi i capelli naturali, come atto di resistenza contro l’oppressione. Inoltre, il movimento delle Black Panthers adottava l’immagine dell’afro come emblema di orgoglio e ribellione. In uno dei loro manifesti, si affermava: «L’afro è la nostra dichiarazione di identità; è una protesta contro secoli di oppressione e un’affermazione della nostra bellezza naturale.»[4]Questo slogan non solo abbracciava la diversità dei capelli afro, ma rappresentava anche una lotta più ampia per i diritti civili e sociali. 

Tuttavia, nel corso del 1971, l’acconciatura Afro aveva progressivamente smarrito gran parte del suo significato politico, riducendosi a una mera moda superficiale. Con il declino del movimento e l’adozione dell’Afro da parte di persone bianche, questa acconciatura si era trasformata in una semplice scelta estetica connessa ad una moda. La crescente accettazione del look afro aveva condotto alla proliferazione di prodotti specifici per la cura e la modellatura dei capelli. Sebbene i capelli naturali continuassero a simboleggiare bellezza e orgoglio, furono gradualmente sostituiti da stili più lisci e pratici, in risposta alle pressioni sociali e alle esigenze di un mercato del lavoro sempre più conservatore. Così, la cultura popolare e i cambiamenti sociali avevano relegato l’Afro da potente dichiarazione politica a banale acconciatura, rivelando che il percorso verso un autentico cambiamento sociale era ancora lungo e complesso. 

81hbo2ufwfl-_ac_uf10001000_ql80_Nel tempo, la ricerca di capelli lisci ha incarnato il desiderio, se non l’ossessione, di possedere capelli considerati socialmente desiderabili. Nel suo saggio del 1992, incluso nella raccolta Black Looks, Bell Hooks ha analizzato questa ossessione persistente, sottolineando che, nonostante le lotte per i diritti civili e il movimento del Black Power degli anni ‘60, gli afroamericani hanno continuato a essere socializzati attraverso mass-media e sistemi educativi conservatori, interiorizzando idee e valori della supremazia bianca. In questo contesto, i modelli di bellezza nelle rappresentazioni popolari delle donne nere, anche negli anni successivi, spesso presentavano capelli lunghi e lisci. Ad esempio, quando Mattel presentò la sua prima Barbie nera nel 1980, la bambola aveva una lunga e fluente chioma. Anche dieci anni dopo, quando l’azienda cercò di conferire maggiore diversità etnica ai suoi modelli con pelle più scura, la Black Barbie, rinominata “Shani”, mantenne la sua lunga chioma sciolta. La giustificazione fu che le bambine di tutte le razze amavano giocare con i capelli e quindi, nonostante le modifiche apportate per aumentare l’inclusività, i capelli lunghi e fluenti continuavano a costituire un elemento fortemente attrattivo, aspirazione che per una parte della comunità afro discendente resta tutt’ora interiorizzata come fattore primordiale per un’illusoria integrazione.

Sebbene la storia documenti le innumerevoli battaglie intraprese dalle comunità afrodiscendenti per rivendicare l’identità culturale, permane una drammatica disparità nella percezione e nell’accettazione dei capelli afro, che continuano a essere oggetto di discriminazione sul posto di lavoro. Basterebbe condurre semplici ricerche per scoprire quante donne afro discendenti nel corso degli anni, abbiano denunciato tali ingiustizie.

Un esempio emblematico di questa problematica è rappresentato dal caso di Chastity Jones, che ha messo in luce le discriminazioni legate alle acconciature naturali. Nel 2010, Jones, la donna afroamericana, ha visto ritirarsi un’offerta di lavoro da Catastrophe Management Solutions poiché si rifiutava di tagliare i suoi dreadlocks in conformità con la politica aziendale. Decisa a combattere per i suoi diritti, Jones ha avviato un’azione legale per discriminazione razziale. Tuttavia, nel 2016, la Corte d’Appello dell’11° Circuito ha stabilito che la politica sui capelli non violava il Civil Rights Act. Questo verdetto ha acceso un dibattito intenso sulla discriminazione razziale, contribuendo all’adozione di leggi come la Crown Act, destinate a proteggere le acconciature naturali.

Analogamente, anche il caso di Deanna e Mya Cook ha messo in risalto le problematiche connesse alla discriminazione razziale nell’ambito dell’istruzione. Nel 2018, durante i preparativi per la cerimonia di diploma della loro scuola superiore nel New Jersey, le sorelle gemelle sono state informate che indossare i loro dreadlocks era vietato dal codice di abbigliamento dell’istituto. Questa decisione ha suscitato indignazione e profonda umiliazione, poiché le giovani si sono sentite vittime di una violazione della loro identità culturale. La loro vicenda ha catturato l’attenzione dei media, dando origine a un acceso dibattito sulla discriminazione legata alle acconciature naturali e stimolando la riflessione su misure legislative necessarie a tutelare i diritti degli studenti e a promuovere politiche più inclusive nelle istituzioni scolastiche.

A seguito di numerosi episodi analoghi, nel 2019 la senatrice Cory Booker e la rappresentante Ileana Ros-Lehtinen hanno introdotto la sopracitata Crown Act (Create a Respectful and Open World for Natural Hair), una legge concepita per prevenire la discriminazione basata sulle acconciature naturali, come dreadlocks, trecce e capelli afro, frequentemente associate alla cultura afroamericana. Questa legislazione, originariamente presentata in California e successivamente adottata in vari Stati, estende la protezione legale contro la discriminazione sia nel contesto lavorativo che in quello scolastico, riconoscendo le acconciature naturali come espressioni culturali e identitarie. La Crown Act rappresenta un significativo passo avanti verso una maggiore inclusività e rispetto, sfidando le convenzioni tradizionali di “professionalità” e promuovendo la diversità.

wad_logo_pSimilmente, anche in altre nazioni si sono registrate mobilitazioni significative nel corso degli anni. Nel Regno Unito, la lotta contro la discriminazione legata ai capelli afro sta acquisendo crescente attenzione, sostenuta da organizzazioni come World Afro Day e Halo Collective. Queste associazioni si dedicano attivamente a sensibilizzare l’opinione pubblica sulla questione e a promuovere leggi in grado di proteggere le persone di origine africana dalle ingiustizie legate al loro aspetto. World Afro Day, fondata da Zara McFarlane, celebra ogni anno i capelli afro e promuove l’orgoglio culturale, educando scuole e luoghi di lavoro sui diritti relativi alle acconciature naturali. Parallelamente, Halo Collective si concentra sul benessere delle persone afrodiscendenti, offrendo eventi e workshop che incoraggiano l’accettazione di sé e la salute mentale.

Sono in fase di sviluppo proposte legislative simili alla Crown Act statunitense, finalizzate a vietare la discriminazione basata sui capelli afro. Un significativo progresso è stato compiuto in Francia, dove nel 2024 sono state adottate nuove leggi per combattere la discriminazione legata alle acconciature, come dreadlocks e trecce, riconoscendo l’importanza culturale di tali espressioni. La normativa stabilisce che le politiche aziendali e scolastiche non possano vietare queste acconciature, a meno che non ci siano motivi giustificabili di sicurezza o igiene. Le nuove disposizioni garantiscono che né i luoghi di lavoro né le scuole possano discriminare le persone per il loro aspetto fisico, prevedendo sanzioni per le istituzioni che non rispettano tali normative. Questo provvedimento rappresenta un’importante conquista verso una maggiore inclusività e rispetto delle identità culturali, contribuendo a promuovere una società plurale e accogliente. 

Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024 
Note
[1] Nina Simone, “Four Women”, Hal Mooney, 1966. tr. It. «La mia pelle è nera [...] la mia schiena è forte, forte abbastanza da sopportare il dolore, inflitto ancora e ancora»
[2] Angela Davis, Angela Davis: An Autobiography. International Publishers Co Inc.,U.S., 1988. tr. Ing. « When I wear my hair in an afro, I am not just making a statement about my beauty; I am asserting my right to be who I am, unapologetically».
[3] Stokely Carmichael and Charles V. Hamilton, Black Power: The Politics of Liberation in America, Random House, New York, 1967. Tr. Ing. «We have to free ourselves of the mentality that says our value depends on conforming to white standards». 
[4] Bryan Shih and Yvonne Wong, The Black Panthers: Portraits from an Unfinished Revolution, 2016. Tr. Ingl.«The afro is our statement of identity; it is a protest against centuries of oppression and an affirmation of our natural beauty». 
Riferimenti bibliografici e sitografia
A’Leila, Bundles, On her own ground: The life and times of Madam C. J. Walker, Scribner, 2001.
Angela Davis, Angela Davis: An Autobiography. International Publishers Co Inc.,U.S., 1988.
Ayana Byrd, Lori Tharps, Hair Story: Untangling the roots of black hair in America, St. Martin’s Publishing Group, 2014.
Bryan Shih and Yvonne Wong, The Black Panthers: Portraits from an Unfinished Revolution, 2016.
Emma, Dabiri, Twisted: The tangled history of black hair culture, Perennial 2020.
Fernández Campbell Alexia, 2019, A black woman lost a job offer because she wouldn’t cut her dreadlocks. Now she wants to go to the Supreme Court. https://www.vox.com/2018/4/18/17242788/chastity-jones-dreadlock-job-discrimination
Jurmain, Robert, H. Nelson, Lynn Kilgore and Wenda Trevathan. Introduction to physical anthropology. Belmont, Calif, Wadsworth, 2000.
Medsger Matthew, 2022, hair discrimination illegal in Massachusetts after CROWN act becomes law. https://www.bostonherald.com/2022/07/26/bhr-l-crown-0727/
Rooks, Noliwe M., Hair raising: beauty, culture, and African American women. Piscataway, Rutgers University Press, 1996.
Stokely Carmichael and Charles V. Hamilton, Black Power: The Politics of Liberation in America, Random House, New York, 1967.

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Elena Giancarli, ha conseguito la laurea in Lingue e Letterature dell’Europa e delle Americhe presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”. Nel corso del suo percorso accademico, ha approfondito lo studio delle letterature straniere e delle tecniche di traduzione, in preparazione della tesi sulle strategie di traduzione audiovisiva applicate alla pellicola di Benito Zambrano “La voz dormida”  Successivamente, ha conseguito la laurea specialistica in Lingue Moderne per la Comunicazione e la Cooperazione Internazionale presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, con una tesi intitolata “Capelli afro: il perdurare dell’identità attraverso i flussi migratori”, che ha ispirato il presente articolo.

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