di Mario Spiganti
Boscaioli e carbonai. Questi erano i mestieri prevalenti tra gli uomini di Carda, così come in tutti i comuni montani dell’appennino toscano. Mestieri sicuramente duri e complessi, che richiedevano un lungo apprendistato, collegato ad una pratica precoce di lavoro minorile. Le competenze acquisite da quei boscaioli in lunghi anni di crescita formativa erano legate a tecniche molto raffinate che nulla lasciavano all’improvvisazione. Le loro prestazioni professionali erano molto apprezzate, ben oltre il territorio casentinese di provenienza. Si muovevano spesso per migrazioni di lavoro stagionali, talvolta annuali. Maremma, Calabria, Sicilia, Sardegna, Corsica e Francia continentale erano alcuni dei loro approdi lavorativi.
La bacheca del circolo di Carda ospita, come altrove ho narrato, un grande “album di famiglia” del paese con moltissime fotografie disposte a testimoniare il passaggio del Novecento. Tra le tante vi è esposta anche questa foto/passaporto datata 6 dicembre 1926. Appartiene a Gualtiero Mascalchi, cardese, e si tratta di un documento rilasciato per l’espatrio in Francia, con validità prevista per la durata di un anno. Gualtiero era un valente boscaiolo tagliatore e carbonaio. Un tipo sempre allegro mi dice Olinto Bianchi che lo ha conosciuto.
È molto probabile che la legenda “per la Francia” sia connessa a permessi di soggiorno di lavoro in Corsica piuttosto che nella Francia continentale. Le memorie da me raccolte si riferiscono comunque prevalentemente alla migrazione tra Carda e Corsica, e sono basate sui racconti di Giovanni Maria Cardini detto Gianmaria e di Marco Italiani. Nessuno dei due è mai stato in Corsica e quanto qui narrato è stato raccolto e memorizzato attraverso la trasmissione orale avvenuta in famiglia e paese.
La Corsica di Raffaello Cardini, padre di Gianmaria
Raffaello Cardini detto Fello si trovava in Corsica anche il 27 marzo 1924, giorno in cui a Carda nasceva Giovanni Maria (notiamo che l’uso del doppio nome con Maria appartiene una radicata e consolidata tradizione corsa, ma potrebbe trattarsi solo di una coincidenza). E le stagioni lavorative da lui passate in Corsica furono molte. «Per la ragione – mi raccontò il figlio nel 2015 – che qua non trovavano lavoro…lavoro qua ce n’era poco.. un poco lo offrivano, però in cambio si doveva avere la tessera del fascio….In quel tempo, io parlo tra anni ‘20 anni ‘30».
Il padre di Gianmaria Raffaello Cardini non era un antifascista conclamato e schedato come lo era stato l’amico Paolo Italiani, ma neppure aveva preso la tessera del partito fascista, o almeno non lo fece per alcuni anni.
Un bel gruppo di tagliatori e carbonai cardesi, una ventina e più secondo Gianmaria, partecipava alle squadre organizzate per il lavoro al bosco, soprattutto in Corsica. Queste squadre talvolta erano fornite di documenti di espatrio stagionale collettivi, validi per il trasferimento temporaneo lavorativo all’estero. Si trattava di lasciapassare che affiancavano o addirittura sostituivano il passaporto personale, che comunque poteva essere richiesto e controllato dai doganieri. Fu così che Paolo Italiani, pur iscritto in una squadra di boscaioli provvista di lasciapassare collettivo, dovette una volta rinunciare all’imbarco per la Corsica in quanto ad un controllo ulteriore risultò sprovvisto per motivi politici del passaporto individuale. A lui era stato negato infatti in quanto socialista conclamato e noto antifascista. In passato invece era riuscito a partecipare a qualche trasferta in Corsica beneficiando di questi permessi di gruppo.
Tuttavia si parla degli anni ‘20 e questi frammenti di ricordo, in persone all’epoca non ancora nate, sono fragili e talvolta contrastanti. «Stavano là molto tempo, alcuni anche per due anni…lavoravano al bosco… erano tutti boscaioli, …tagliatori e carbonai…e il tagliatore era anche carbonaio a quel tempo… addirittura – ricorda Gianmaria – il pagamento veniva fatto alla fine del lavoro in base al peso del carbone prodotto…il taglio della legna era compreso nel prezzo del carbone… quindi.. era un lavoraccio eh!».
Il taglio del castagno in Corsica
Prima di proseguire con i racconti di Gianmaria e Marco introduco una breve nota sulla questione della “coltura e cultura” del castagno in Corsica. Realizzata con l’aiuto di un interessante articolo di Livia Maria Bartoli, collaboratrice al Musée de la Corse di Corte, e titolato “La storia del Castagno in Corsica” tratto dalla rivista online Corsicaoggi (12 dic. 2017) che riportiamo integralmente in nota [1].
Da queste analisi risulta che dopo la Prima guerra mondiale vi fu una caduta della coltura del castagno come fonte di sussistenza alimentare e una contestuale ed importante crescita del fabbisogno di tannino necessario alle industrie di produzione di coloranti e tinture. Il castagno rappresentava una fonte privilegiata per l’estrazione del tannino e dunque fu avviata una intensissima attività di taglio nelle selve di Castagneto corso, che perdurò fino a metà degli anni ‘30, terminando solo in coincidenza con il declino di quelle industrie chimiche. Tra gli anni ‘20 e ‘30 furono disboscati – sottolinea Livia Maria Bartoli – oltre 2.000 ettari di castagno. Per questa impresa furono ingaggiate squadre di tagliatori provenienti dall’Italia ed in questo contesto figurano anche quelle dei boscaioli cardesi.
Il Lamento del Castagno e alla Cantina
Nella precedente e secolare tradizione corsa il castagno rappresentava una risorsa alimentare di primaria importanza per gli isolani, incoraggiata e protetta dalla amministrazione genovese. Tutto cambiò con l’amministrazione francese operante dalla seconda metà del Settecento, che vide nella “cultura della castagna”, un elemento simbolo delle pulsioni autonomistiche dell’isola e come tale una abitudine da estirpare. Atteggiamento politico ben perseguito poi per tutto l’Ottocento ed oltre.
Contro questa linea politica francese che incoraggiava il taglio degli alberi e il conseguente abbandono di questa selvicoltura, il poeta e cantore corso Antone Battisti Paoli (detto Paoli di Tagliu) compose e scrisse il canto “U Lamentu di u castagnu”, pubblicato nel 1905 nel giornale rivista “A Tramuntana”, che contiene una forte connotazione critica antagonista e autonomista rispetto all’amministrazione centrale francese, in difesa di una radicata tradizione che considerava la castagna come fondamentale “pan di bosco”, così come si usava dire anche in Toscana.
Ritengo poco probabile che la conoscenza di questo canto da parte dei tagliatori cardesi provenisse dalla lettura di pubblicazioni scritte. Penso invece che tale apprendimento provenisse dalla trasmissione orale popolare del canto, così come poteva avvenire in luoghi di aggregazione sociale come situazioni di lavoro, mercati e cantine o osterie.
Nel corso di una delle nostre periodiche conversazioni registrate avevo chiesto a Gianmaria quali canti ricordasse in particolare. Mi rispose: «Il mi babbo li cantava, ..Lu trenu di Bastia…e poi un altro Lu lamentu del lu castagnu, perché in Corsica tagliarono tutti i castagni da frutto. …Come noi facemmo nell’ultimo dopoguerra loro lo fecero negli anni venti…anche in questo erano avanti a noi eh !.. (qui Gianmaria è ironico, esprimendo disappunto per il taglio dei castagni, che nel dopoguerra era strettamente collegato allo stabilimento di produzione del tannino di Bibbiena in Casentino). Lu Lamentu del castagnu, siccome che li tagliavano tutti il castagno si lamenta e dice ‘ma che gli avea aggiu fattu ingratu, che m’ha lettu la sentenza e a morte m’ha cundannatu’…».
Questo mio dialogo con Gianmaria è del 2015. Ed è interessante osservare la profonda qualità della trasmissione orale avvenuta in famiglia rispetto a significativi aspetti poetici della cultura popolare corsa. Appresi dal padre i canti sono infatti ricordati con proprietà dopo oltre 80 anni, ed anche cantati con la capacità di rispettare la melodia originale di origine corsa. Nel passo sopra citato in corsivo viene ricordata una strofa del lungo canto. Questa sotto riportata è la versione originale corsa della sestina, riportata felicemente da Gianmaria con leggere varianti.
Or chì l’averaghju fattu
À lu corsu cusì ingratu
Chì m’hà fattu la sintenza
À morte m’hà cundannatu.
Senza sente tistimonii
Nè cunsultà lu ghjuratu
Dopo avere espresso la sua difficoltà a riportare alla memoria tutto il testo, Gianmaria così continua:-
«il mi babbo la cantava.. diceva poi…:
… ricordi o Sambucucciu
di quella triste serata
senza un morso di fame
e con la tu famigliola
facevi una pulendata
e così passavi allegro
il resto della nuttata».
Qui Gianmaria opera una straordinaria sintesi di alcune sestine del canto, sotto riportate nella versione originale, muovendo dalla citazione dell’antico eroe nazionale corso Sambucucciu, simbolo dell’autonomia isolana ed esaltando poi la virtù della castagna che consentiva alla famigliola raccolta attorno al focolare di sfamarsi con una pulendata e trattenendosi in allegria per il resto della nottata. Le sestine da lui sintetizzate sono:
Ùn ti ne ricordi più
Corsu di li tempi andati?
Di Sampieru è Sambucucciu
Di tutti li to antenati.
Quandu da tanti nemici
Eranu sempre assaltati?
Qual’hè chì li siccuria
Chì si dava tanta pena?
Qual’hè chì li mantenia
Ben’ purtanti, à panza piena?
Li mio frutti inzucarrati.
O Corsu, rifletti appena!
Ùn ti ne ricordi più
Una sera, à lu fucone
Tutta la to famigliola
Cantava lu lazarone.
Eramu un vennari sera
Di pane manc’un buccone.
Qual’hè chì ti succurrì
O Corsu, in quella sirata?
Chì mittiste la paghjola
E feste una pulindata
È cusì passaste alegra
U restu di la nuttata.
Alla Cantina e il “Chjam’è Rispondi”
Una cosa dunque è certa, Raffaello Cardini “Fello”, amante della poesia e del canto, rientrava da queste periodiche e lunghe esperienze lavorative con molti aneddoti, racconti e canti, che arricchivano la famiglia e le veglie di paese. Di lui Gianmaria ancora racconta: «Erano andati giovani ..al massimo di una trentina di anni… e gli piaceva… Se lavoravano in una zona di regola facevano una baracca a poche centinaia di metri dal paese… andavano al paese…alla ‘cantina’ dicevano… e lì succedeva che cantavano, …leticavano anche.. gli toccava anche fare a cazzotti ogni tanto…però».
Leticavano anche, racconta Gianmaria. La relazione con i corsi era complessa nella realtà di quegli anni. I soggiorni di lavoro erano lunghi per le squadre di boscaioli cardesi di cui facevano parte Gualtiero, Raffaello e Salvadore lo scarpaio calzolaio. Alla sera quando possibile si andava alla Cantina, luogo privilegiato di incontro con i Corsi e qui avvenivano i più significativi scambi culturali.
Così come a Carda e in Toscana erano diffusi il canto di improvvisazione a contrasto in ottava rima e quello degli stornellatori, altrettanto nella Corsica di un tempo (riferendosi primariamente agli anni ‘20) era diffusa una altra forma popolare di canto improvvisato a contrasto. Si chiamava “Chjam’è Rispondi”.
Uno dei cantori intonava su un tema un canto con rime improvvisate in strofe a sestina chiamando così un contendente a rispondere per le rime, sempre cantando in sestina e restando nell’argomento. L’altro rispondeva e si andava avanti fino a che uno dei due si arrendeva e lasciava la contesa poetica. La contesa era una forma di gara aperta, nel senso che anche altri avventori potevano inserirsi nella disputa cantata, che poteva divenire a tre o più voci. Al termine ne restava solo una, quella del vincitore.
I boscaioli cardesi, conoscitori e talvolta esperti praticanti quali erano del contrasto improvvisato in ottava rima, sicuramente furono attratti da questi scambi poetici praticati in Corsica. Certamente per l’apprendimento della lingua furono favoriti dalla lunghezza dei soggiorni lavorativi e da una certa somiglianza linguistica tra lingua corsa e il dialetto toscano da loro parlato, ed è molto probabile che qualche volta, per non dire spesso, i poeti cardesi provassero a subentrare nei canti, partecipando attivamente a questo cimento poetico di contrasto, sia pure condotto in sestine e non in ottave.
Come ci ricorda Giovanni Ragni, antropologo, ricercatore e storico della tradizione poetica orale corsa: «con la descrizione dei tratti salienti del ‘chjam’è rispondi’, possiamo affermare che – trattandosi di un dialogo, di una conversazione in rima – una parte intrinseca del “gioco” del canto improvvisato consiste nella capacità di convincere gli ascoltatori che la propria tesi espressa tramite il canto è la migliore; nell’affermare prontamente che il proprio discorso raccoglie più consensi ed è espresso con maggiore maestria, abilità e sagacia rispetto all’improvvisatore opponente» (“La nuova generazione di improvvisatori di chjam’è rispondi in Corsica. Rottura o continuità?” in “Rivista di Studi. Antropologia e Teatro”, Università di Bologna, 2018: 34, gentilmente concesso dall’autore e alla cui lettura invitiamo gli interessati utilizzando il link https://antropologiaeteatro.unibo.it/article/view/7949/7666).
La Cantina era il luogo privilegiato di questi incontri culturali tra cardesi e corsi. Qui si stabiliva una familiarità che poteva portare al formarsi di amicizie durature come anche a dispute molto accese. Gianmaria parla, riferendosi ai racconti del padre Raffaello, di scazzottate avvenute alla Cantina. Ricordo in proposito infine che lo scontro fisico conseguente agli sfottò del canto improvvisato non era poi assente neppure in Toscana, legato magari a qualche bicchiere di troppo.
Dunque negli anni ‘20 vi fu un profondo scambio tra culture orali ricche e articolate, esemplificate ma non esaurite dalla pratica della poesia di improvvisazione, tanto nella forma del contrasto in ottava rima che del chjam’è rispondi. Entrambe queste forme di arte poetica sono iscritte dall’Unesco nel Patrimonio Culturale dei Beni Immateriali dell’Umanità. Per la verità questo percorso di riconoscimento al momento è stato completato solo per l’Ottava Rima, ma tale procedura è in corso di definizione nel 2025 anche per il chjam’è rispondi. Manca solo l’ufficialità che spero si concretizzi entro l’anno corrente.
La Corsica di Marco Italiani e Oliviero Dominici detto Salvadore: lu trenu di Bastia
Sapevo dunque di canti e racconti che rimbalzavano tra Corsica e Carda. Questa presenza culturale nelle memorie cardesi era stata rilevata anche dal gruppo di ricerca etnomusicale dell’Associazione “La Leggera” di Rufina (FI), di cui fanno parte gli amici Marco Magistrali e Filippo Marranci. Grazie a loro qualche anno prima era stata realizzata a Carda una serata/incontro con una coppia corsa. Si trattava di Doria Gavini, attrice e cantante grande interprete del canto corso e di Bernardu Pazzoni ricercatore, musicista e cantore lui stesso. La coppia si esibì presso la sede del Circolo di Carda con un repertorio di canti corsi bellissimo e da loro stessi commentato. In quella occasione intervennero anche Marco Italiani e Gianmaria Cardini. Non solo cantarono “U Trenu di Bastia” rispettando con grande proprietà la tradizione melodica corsa, ma Marco fornì anche una ineccepibile spiegazione del significato storico e politico della canzone, lasciando la coppia proveniente dalla Corsica sbalordita dalla sorpresa. «Non avremmo potuto dire nulla di diverso» commentarono.
Ricordavo bene questa esperienza e nel 2016, alcuni anni dopo, nel corso di una conversazione nel suo salottino, ripresi con Marco il tema Corsica. Gli chiesi: «Ora Marco però tu mi devi raccontare come ti è arrivato a te questo canto, dove lo hai imparato e perché». Marco mi rispose: «Io l’ho imparato che avevo 16 anni o 17 (1939/41) che andavo da questo calzolaio (Oliviero Dominici detto Salvadore)…bravo calzolaio…Che allora…la scuola…dove si andava?… Qui non c’era né treni… né corriere… Qui la terza elementare e buonanotte!…imparare a far qualche cosa…c’era du’ barbieri.. c’era tre sarti… c’era tre calzolai… c’era il fabbro…c’eran tre bottegai… il paese trecento abitanti… era vivo no!…..co le su ragazze…le pecore… tutto …Allora il mi babbo gli venne in mente..co i suoi amici,, questo ragazzo potrebbe andar a imparare…». Qui Marco non parla ma con le mani imita il gesto di togliere i chiodi dalle scarpe come suo principale lavoro di garzone di calzolaio. E riprende… «a me me metteva a recuperare il ferro.. Allora c’era già guerra di Spagna, Guerra di Etiopia, poi la guerra del 39 la Germania…poi si entrò in guerra anche noi».
Poi mi spiegò, più con gesti straordinari che con le parole, come il suo primo lavoro fosse appunto quello di raddrizzare i chiodi tolti dalle scarpe vecchie. Recupero molto importante in quel tempo di sanzioni e autarchia.
La bottega di mastro Salvadore lo scarpaio tra anni ‘30 e ‘40 rappresentava uno dei luoghi di riferimento del paese, centro vivo di informazioni e notizie. Si trattava di un personaggio brillante e grande narratore e cantore. Nella primavera del ‘44 erano suoi abituali frequentatori e amici i giovani partigiani della Teppa, acquartierata a Carda. Passavano dal calzolaio per ottenere piccoli favori come farsi riparare scarpe o giberne, cinture o cartucciere e si trattenevano poi volentieri per scambiare due parole tanto con lui che con Marco suo garzone.
Il maestro scarpaio Salvadore era stato in passato a lavorare in Corsica. I racconti di quell’esperienza, compreso il canto “U trenu di Bastia”, erano narrati, anche cantando, mentre batteva il martello e lavorava. In tal modo passarono memorizzati per trasmissione orale al suo straordinario apprendista. Imparate da lui Marco mi cantò con perfetta melodia corsa queste strofe del canto:
U trenu chì và in Bastia
Hè fattu per li signori ;
Pienghjenu li carritteri
Suspiranu li pastori ;
Per noi altri osteriaghji
Sonu affani è crepacori.
. Anghjulì lu mio Anghjulinu
Pensatu n’aghju una cosa,
Quand’ellu passa lu trenu
Tirali una mitragliosa,
È li sceffi chì sò nentru
Voltali à l’arritrosa.
Non si sente più
un chiocco di frusta
più nemmeno un campanellu
passan settimane e mesi
senza guadagna un duellu
Anghjulì lu mio Anghjulinu
Datti un pocu di rimenu,
Vai è feghja issu catinu
S’ellu hè viotu o s’ellu hè pienu
, Ch’avimu da prisentallu
À lu sceffu di lu trenu. [2]
Nel suo testo inserì anche delle varianti lessicali con parole italianizzate, che qui non ho trascritto, ma lo fece rispettando la struttura complessiva corsa. Solo inserì una strana strofa, la terza da lui cantata, quella che inizia con “Non si sente più un chiocco di frusta”. Oltre a mancare di un verso questa strofa da lui cantata non è riportata in tutte le trascrizioni degli antropologi e ricercatori corsi che si sono occupati della canzone, o almeno in quelle che ho potuto consultare.
Questo celebre canto inoltre non è anonimo ma ha una autrice, Maria Felice Marchetti, una ostessa e poetessa di Acqua Nera (Cervioni in Corsica) che la compose nel 1888 e che trasmise solo oralmente. Non nacque dunque come composizione scritta come fu per il “Lamento del Castagno” di A. Paoli. Si tratta di un canto di protesta, che ebbe un enorme successo, indirizzato contro la costruzione della ferrovia Bastia – Aiaccio, di cui nel 1888 fu inaugurata la prima tratta Bastia-Corte. La ferrovia infatti rappresentava una pesante minaccia per il traffico e commercio gestito da carri trainati da animali (cavalli in particolare) e gestito con una rete di stazioni di posta e osterie di una delle quali era titolare la stessa Maria Felice Marchetti. Chiesi anche a Marco il significato del canto e così mi rispose: «Mettendo il treno, i vetturini, i barrocciai erano alla fame! Perché tutto quello che portavano.. le merci che portavano co’ muli …andavano col treno…Non si sente più un chiocco di frusta.. senza guadagna’ un duello».
Ho scritto sopra che Marco mi cantò “U trenu di Bastia”. Nella realtà, oltre a cantare, via via che procedeva accompagnava le strofe con piccole parafrasi e gesti per aiutarmi nella comprensione del testo. Si trattava di una sua abitudine e lo faceva anche quando mi declamava passi dell’Orlando Furioso o della Divina Commedia o le canzoni partigiane da lui apprese nel ‘44. Volendo usare una metafora si rapportava a me come un Maestro ad allievo. Ed in effetti era così. Spesso mi è capitato di leggere che in passato ricercatori di antropologia o storia orale procedessero alle “interviste nel campo” con l’idea di dare voce e restituire alla scrittura scientifica le “classi subalterne”. Per la verità l’unica subalternità che ho riscontrato a Carda è stata la mia, sempre un passo dietro ai miei interlocutori.
La diffusione di questo canto contro la ferrovia Bastia Corte Ajaccio avvenne solo oralmente e in tal modo fu trasmessa per circa 40 anni. Soltanto negli anni 30 fu trascritta da studiosi del folklore. E non tutte le trascrizioni effettuate da allora riportano la strofa, presente nella versione cardese. Le varianti sono aggiustamenti e diversità poetiche introdotte dai boscaioli cardesi. In ogni caso si tratta di un episodio che la dice lunga sulla potenza della trasmissione orale e della memoria sociale condivisa in una rete vivente e mobile che attraversa il Mediterraneo.
Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025
Nota
[1] Livia Maria Bartoli, scrive in “CorsicaOgg” del 12 dicembre 2017: (https://www.corsicaoggi.com/sito/la-storia-del-castagno-corsica/ )
«In Corsica, la storia del castagno è strettamente legata alla storia dell’Isola. Infatti, la castanicoltura vedrà un forte sviluppo dal XVIesimo secolo quando i genovesi incoraggiarono l’arboricoltura. Pensavano che, nutrita l’isola con castagne, avrebbero potuto esportare più cereali.
I corsi colpevoli di aver distrutto alberi innestati, potevano essere condannati a 10 anni di galera. Nel diciassettesimo secolo, le ordinanze genovesi stabilivano che ogni corso capofamiglia doveva piantare ogni anno 4 castagni o altri alberi da frutto: il fico, l’olivo, il gelso per il baco da seta. Altrimenti dovevano pagare una multa all’Ufficio di San Giorgio, (la prima banca italiana e anche europea) che amministrava la Corsica.
Il secolo segna l’età d’oro del castagno che verrà chiamato “albero del pane”, un soprannome testimone della sua importanza sul piano economico. Tuttavia la situazione cambia quando, nel 1769, la Corsica diventa francese. I francesi, in particolare Marbeuf (governatore dell’Isola) pensavano che i castagni rendessero più facile l’insurrezione e incoraggiassero il farniente.
Il castagno è considerato “immorale” giacché è il cibo della pigrizia. Sempre per i francesi, i corsi trascurano la terra perché la castagna sostituisce tutto: si raccoglie, si secca, si macina e con essa si fa il proprio pane. E si nutrisce il bestiame.
L’amministrazione francese vieta dunque di piantare nuovi alberi. L’esodo rurale e il primo conflitto mondiale pongono fine all’ampio sfruttamento del castagneto. Più tardi lo sviluppo delle fabbriche di tintura portano al saccheggio del castagneto, perché gli alberi corsi erano particolarmente ricchi di acido tannico. L’abbattimento degli alberi è così intensivo che gli sfruttatori fanno venire manodopera italiana: i boscaioli che introdurranno con i loro arnesi contaminati la malattìa dell’inchiostro presente in Italia e ancora sconosciuta in Corsica.
Alla chiusura delle fabbriche nel 1936 ,erano scomparsi 2000 ettari del castagneto sui 21000.“U lamentu di u castagnu” porta testimonianza di questo triste periodo della storia dell’albero del pane. La canzone è stata composta da Antone Battisti Paoli(1858–1931), detto Paolo di Tagliu. Il Lamentu è stato pubblicato nel giornale corso “A Tramuntana” nel 1905 e nel giornale “ A Muvra”, nel 1926.
[2] I due canti corsi riportati in questo articolo possono essere consultati integralmente in molti siti importanti. Per brevità ne segnalo solo 2: “Lu trenu di Bastia” https://www.gbatti-alinguacorsa.fr/textes/chansons/a-canzona-di-u-trenu.htm; “U lamentu du castagnu” https://lyricstranslate.com/it/barbara-furtuna-lamentu-di-u-castagnu-lyrics.html.
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Mario Spiganti, laureato in Filosofia alla Facoltà di Lettere e Filosofia di Firenze (1978), animatore culturale sin dagli 80 in Casentino (AR), si occupa di Memoria e Territorio. Nel 1988 per la Comunità Montana del Casentino progetta, realizza e dirige la Banca Intercomunale Audiovisivi (B.I.A.), nel 1996 progetta e dirige il servizio Cred (Centro Risorse Educative e Didattiche)- Banca della Memoria. Il CRED è anche archivio digitale di immagini e suoni legate alle tradizioni culturali e materiali dell’Area Casentino, della Provincia di Arezzo e della Regione Toscana. Nel 2004 riceve ad personam il premio EX-AEQUO per la Cultura della Regione Toscana. Dal 2014 socio della Associazione Italiana Storia Orale (AISO) è autore di progetti pertinenti alle persecuzioni razziali fiorentine, al passaggio della guerra e Resistenza in Toscana; di un progetto di Storia Orale, in corso d’opera, “La frazione montana di Carda (AR) nel Novecento: dalla guerra Italo Turca del 1912 a Lascia o Raddoppia? (1957)”. Negli anni 2018-2019 come coautore partecipa in Cile alla realizzazione, per la Regione Emilia Romagna, del progetto “Il Territorio nella Valigia”, condotto con videointerviste, sulle memorie femminili delle emigrazioni emiliano romagnole in Cile nel Novecento.
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