Ai suoi conclamati meriti l’editore Einaudi aggiunge la monumentale edizione del corpus catulliano procurata da Alessandro Fo. Il libro, accolto nella classica nue, si segnala infatti a un primo sguardo per le dimensioni decisamente abnormi, dedicando ai carmi superstiti la bellezza di circa 1500 pagine. Constatato che traduzione e testo a fronte ne presidiano più o meno un quinto, si rimane lì per lì stupiti dalla preponderanza degli apparati (Introduzione, Nota al testo, Nota metrica, Riferimenti bibliografici) culminanti nelle oltre ottocento pagine di commento testo per testo, riga per riga, parola per parola. E ci si chiede subito se il più godibile dei poeti latini, e il più prossimo alla sensibilità di noi posteri, aveva bisogno di accompagnarsi a un simile mostro. La mia risposta, da lettore ‘semplice’, da, per usare le parole di Angelo Maria Ripellino, «umile innamorato di poesia» [1] non sarà reticente: siamo dinanzi a un’impresa tanto ‘necessaria’ quanto perfettamente riuscita.
Nel volume si distingue innanzitutto la novità della traduzione: la prima che tenti di restituire tutta la gamma della polimetria catulliana (la sua decina di tipologie) mediante un sistema parallelo di misure ‘barbare’, volte a «riprodurre, tramite gli accenti tonici regolanti la struttura metrica di ciascun verso italiano, le sequenze di ictus di volta in volta previste per la lettura “ictata” delle corrispondenti strutture metriche antiche» (ivi: CXXXIII); sistema che ha il vantaggio di ripercorrere con buona approssimazione le cadenze degli originali e in uno di mantenere lo stesso numero di versi. Su questa base ‘imitativa’, affidata a una compiuta padronanza tecnica, si svolge poi il ‘corpo a corpo’ con il mirabile mobilismo, tonale e tematico, del dettato catulliano.
Nel cimento Fo mette in campo la sua, ormai trentennale (e pluripremiata), milizia poetica, uno dei cui fari è proprio l’autore tradotto, stabilendo una davvero rara sintonia con il suo ‘competitore’: capace di emularne la forma dell’insieme e insieme la forma del più minuto particolare, di aderirvi con una devozione che vuol preservarne al meglio il ricercato ordito (il regime allusivo, le simmetrie, le ribattiture, i giochi fonici) e sposarne al contempo la spontaneità, reimprovvisando per così dire il suo leggendario ‘improvviso’.
Un’agonistica aderenza distribuita ugualmente nelle magistrali versioni dei carmi ‘dotti’ o ‘maggiori’ (penso in specie al tour de force richiesto dai carmi 63, 64, 68b), dove si imponeva la mimesi di una lingua alta, sostenuta, preziosa, e in quelle delle nugae, che esigevano di volta in volta toni colloquiali, irridenti, sbarazzini, sentimentali, meditativi. Per questo secondo riguardo si veda ad esempio come nel carme 10 (incontro e scambio di battute con l’amichetta di Varo) è reso il disinvolto Ego, ut puellae | unum me facerem beatiorem (Ed io, per farmi | bello con la ragazza, e per tirarmela), o, nel carme 97 (sul fetido Emilio), la violenza scommatico-aiscrologica di Quem siqua attingit, non illam posse putemus | aegroti culum lingere carnificis? (E, se qualcuna lo tocca, perché non pensare che quella | possa leccarsi anche il culo di un boia con la diarrea?) o l’estroso argutatio inambulatioque (cigolio e andirivieni tuttintorno) del carme 6 o, viceversa, nel carme 72, l’affettuoso rammarico (per Lesbia) Dilexi tum te non tantum ut vulgus amicam, | sed pater ut gnatos diligit et generos (Ti ho avuto a cuore, a quel tempo, non come il volgo un’amica, | ma come ha a cuore i suoi figli, ed anche i generi un padre). Un’aderenza che si batte con onore anche sul fronte forse più ostico al traduttore di Catullo, quello dei numerosi, semanticamente variegati e spesso intraducibili diminutivi. Ecco dunque il solaciolum del carme 2 diventare «piccolo conforto», l’aureolum malum del 2b «la mela tutta d’oro», il pallidulus pes del 65 «il piede pallido pallido».
Se la traduzione tradisce il valore del poeta, il sesquipedale commento celebra la caparbia maturità del filologo e dell’esegeta. Sulla scorta di una discussione preliminare dei complicati problemi posti dalla tradizione manoscritta del Liber, e della puntuale giustificazione dei luoghi in cui l’edizione si discosta da quella di riferimento (Mynors), ogni singolo ‘pezzo’, dai longiora ai minimi frammenti, è munito di un saggio (talvolta delle proporzioni di un libro) suddiviso in una ‘presentazione’ che ne illustra l’aspetto e le principali questioni, e in una capillare ricognizione, filologica, storica e interpretativa, che lo interroga passo per passo e a tutto campo: ‘croci testuali’, lezioni dubbie, lacune, datazione, contesto, riferimenti, ricezione, schemi interpretativi e così via, esaudendo ogni plausibile curiosità ed esigenza.
Nell’impossibilità di dar minimo conto di un lavoro così smisurato, si può solo qui rilevare il sommo scrupolo, l’infinita cautela con cui il chiosatore maneggia un lascito particolarmente precario − dallo stesso assetto in cui ci è pervenuto (trova ancora seguaci la tesi che possa addirittura attribuirsi all’autore) fino ai minuti dettagli che, esaminati a fondo, si rivelano spesso ardui rompicapi – e quindi fortemente esposto ad eccessi esegetici di ogni genere. Ad essi, alla «pornocritica», alla «fantafilologia», e a ogni griglia preordinata o partito preso che voglia trarre dal testo responsi di comodo, Fo oppone con garbo la salda dottrina, il sano buon senso e il pudore dello studioso tradizionale stretto alle carte, refrattario ai voli gratuiti, alle congetture peregrine di certa critica performante e creativa quanto volentieri volatile: umiltà visibile nei puntuali e spesso ripetuti omaggi ai ‘colleghi’ che lo hanno illuminato con intuizioni feconde (Alfredo Mario Morelli, Mario Citroni, Kenneth Quinn e molti altri), e che gli dà poi il diritto di rivendicare le proprie piccole medaglie, come il fatto di presentare, fra i primi, il carme 66 «con il suo ‘nuovo’ e vero finale, identificandolo […] in quello che fino al 2011 era stato sempre ritenuto, erroneamente, il distico iniziale del successivo» (ivi: 899).
Il mio primo incontro con Catullo risale ai tempi, ormai mitici, delle Medie (quelle in cui il Latino pesava) e del Liceo Classico. A quell’altezza le antologie scolastiche, lo sappiamo, passavano al più il lamento per la morte del fratello e i mille baci a Lesbia (e in quel di Castelvetrano, anche volendo, non era facile allora invenire edizioni del Liber). Ne feci comunque tesoro, ovviamente ammirando la felice eleganza e la inconsueta ‘presa diretta’ che me lo faceva senz’altro più vicino di un Virgilio, di un Orazio (o del Tibullo che pure prediligevo), nelle cui laboriose volute avvertivi il sudore della costruzione.
All’intera raccolta giunsi, abbandonato Liceo e Latino, parecchio più tardi. L’edizione Garzanti, che comprendeva un’intelligente premessa di Luca Canali e una partecipe traduzione del poeta Mario Ramous, mi permise di scoprire un Catullo notevolmente più ampio di quello, purgato, che conoscevo: l’epigrammista mordace, il satirico, il comico, l’autore di eruditi poemetti. Ma la versione, se pur appropriata e piacente, non rendeva piena giustizia alla poikilìa, alla ricchezza, tematica e tonale, del legato catulliano e alla varietà metrica che la sostiene.
Annaspando fra la marea di postille che sembra sommergerlo, il Catullo di oggi mi si affaccia come un poeta ancora più giovane, più fresco, più sorprendente di quello di ieri e dell’altroieri. Ma ora so che il suo ‘miracolo’ s’incista nelle consapevoli operazioni di un grande artista, risiede in una straordinaria miscela di talento e dottrina, di risorse tecniche e grazia sorgiva, di raffinata cultura in felice simbiosi con un intuito pressoché infallibile. Al sale del gesto perentorio e inconsueto − come quello di rivolgersi, forse primo fra i Latini, alla propria lettera (il papyre, dicas del carme 35), o quello di convocare i propri versi (Adeste, hendecasyllabi, quot estis) a vendicarlo di una moecha turpis (carme 42) −, alla spuma della pointe fulminante, al fuoco di un lessico amoroso destinato a fondare un codice della modernità, Catullo aggiunge la farina di un solido mestiere, di un’abilità d’architetto chiamato a esatti congegni verbali, di un gusto sicuro per le minuzie che dicono tutto, che brillano come gioielli.
E so che è una personalità ancora più complessa. Certamente più avvertito, meno ‘mordi e fuggi’, soprattutto alla luce di una attenta compulsazione dei longiora (e delle poderose glosse che vi sono consacrate), premiata da gemme come il carme 63 (il cosiddetto Attis, assembrato a un «‘film’ estremamente compresso e veloce: la microstoria scorre serrata e la gamma di tempeste psichiche è così concentrata che a una lettura cursoria non si lascia immediatamente percepire in tutte le sue cangianti sfumature» (ivi: 762), o il carme 64, con la sua meravigliosa struttura concentrica che converge sul numinoso monologo di Arianna, o il capolavoro supremo rappresentato dal carme 68b, una summa in cui, all’insegna del mito di Protesilào e Laodamia, si intrecciano i tre principali motivi catulliani: l’amore di una vita; l’amicizia; la morte del fratello in terre lontane. Certamente più ‘serio’ e ‘umano’, se si pensa alle ‘meditazioni’ sparse nel Liber e al modo in cui tradizionali valori romani come la fides e la pietas sono da lui declinati nei termini di un patto d’amicizia (foedus) in cui può inscriversi anche l’amore ‘sacrilego’ per la matrona Lesbia: amore in cui la dimensione della costanza affettiva giunge a prevalere sulla stessa temperie passionale ed erotica.
Rileggiamolo allora questo Fabrizio De André degli Antichi, la cui voce comprende un «alternarsi, e spesso mescolarsi in coesistenza, di gioco, di greve volgarità e di distillata finezza, di elemento basso o popolare e di sofisticato preziosismo tecnico, di leggerezza e profondità, di lepos e pathos» (ivi: XLII). Una voce ‘dialogante’, incline a pronunciare il suo nome e a rivolgersi a un destinatario che è sì un membro, amico o avversario che sia, della sua cerchia (il suo ‘pubblico’), ma è poi il suo pubblico futuro, convocato in virtù di una maestria, tutt’altro che esibita ma sovrana, candidamente certa di lasciare il segno appeso al carme inaugurale: plus uno maneat perenne saeclo («anni e anni resti, in più di un’epoca»). Una voce che sembra raggiungerci da un microfono pronto a scavalcare i secoli, quasi appena pronunciata nel vivo della vivacità della vita, dei suoi piccoli e grandi fatti, dei suoi lazzi e pianti a volte racchiusi in un unico arco.
Condividiamo allora con lui il gaudio che sigilla il carme 31: ridete quidquid est domi cachinnorum (ridete con le risa tutte di casa); scompisciamoci pure alla cacata carta di Volusio (carme 36); proviamo ad attingere il sublime di mutuis animis amant amantur (carme 45); godiamoci, come l’avessimo or ora appresa, la battuta da ‘un giorno in pretura’ del carme 53: «Di magni, salaputium disertum!» («Grandi dèi, un cazzabubbolo eloquente!»); incantiamoci al ‘movimento di camera’ dal corpo nudo dell’affranta Arianna alle sue dismesse tuniche (carme 64): omnia quae toto delapsa e corpore passim | ipsius ante pedes fluctus salis alludebant (cose con cui, scivolate da tutto il corpo e ora sparse | giocherellavano i flutti del sale lì ai suoi piedi); fermiamoci a sorprendere l’arguta solea, il «chiacchierare dei sandali» del carme 68b; scortiamo Catullo nella disavventura mondana del carme 41, dove Ameana puella defututa | tota milia me decem poposcit (Ameana, ragazza strafottuta, | diecimila mi ha chiesto, tutti interi).
Si potrebbe continuare, riscrivendo paro paro, come il Pierre Menard di Borges con il Don Chisciotte, l’intero Liber. Per farlo, abbiamo adesso questa vera ‘Casa Catullo’: una più che liberale dimora, munita di un ‘salotto buono’ (la traduzione, l’introduzione e la parte ‘divulgativa’ del commento) per le frequentazioni meno impegnative, di un’infilata di stanze (la parte ‘tecnica’ del commento) per gli opportuni approfondimenti, e dei ripostigli per specialisti costituiti dalla nota al testo e dalla nota metrica; topografia che consentirà in ogni caso, a chi lo desideri e ne abbia il cuore, una progressiva iniziazione ai segreti del sempreverde Catullo.
Dialoghi Mediterranei, n. 37, maggio 2019
Nota
[1] Lettera a Renzo Oliva (12 agosto 1965), in «Poesia», n. 117, maggio 1998: 15.
______________________________________________________________
Antonio Pane, dottore di ricerca e studioso di letteratura italiana contemporanea, ha curato la pubblicazione di scritti inediti o rari di Angelo Maria Ripellino, Antonio Pizzuto, Angelo Fiore, Lucio Piccolo, Salvatore Spinelli, Simone Ciani, autori cui ha anche dedicato vari saggi: quelli su Pizzuto sono parzialmente raccolti nel volume Il leggibile Pizzuto (Firenze, Polistampa, 1999).
_______________________________________________________________