CIP
di Paola Varese
La simbologia della casa è complessa e riferita a più significati, relativi alla dimensione della struttura ma anche a quella più intima dello spazio di individuazione e di definizione dei confini che attengono alla soggettività dell’individuo, all’insieme del vissuto, delle esperienze e dei ricordi.
Per i Cervi si può parlare di casa a partire dal 1934, quando la famiglia arriva come affittuaria ai Campirossi di Gattatico, nelle campagne fra Parma e Reggio Emilia. Prima lo status di mezzadri determinava infatti una condizione di nomadismo, di erranza quasi fra i vari poderi dove era stato possibile stipulare il contatto di mezzadria che allo scadere generalmente dopo un anno e nel mese di San Martino costringeva la famiglie Cervi così come altre a trovarne un altro.
La casa presa in affitto nel 1934 segna da un lato un importante cambio di status, da mezzadri a affittuari, ma ancor di più la conquista di una situazione di stabilità anche se non definitiva. La casa e il podere dei Campirossi sono il luogo in cui fermarsi, lo spazio di definizione come entità familiare.
Ma non solo: i Cervi infatti vivono da subito la casa e il podere come spazio collettivo; del collettivo familiare in cui potere finalmente mettere in atto, in un podere malconcio, le tecniche nuove studiate per migliorare coltivazioni e la gestione complessiva, compresa quella della stalla (al capitel = capitale, per i contadini di queste zone), mai accolte dai padroni. Ma anche di una dimensione collettiva più ampia, dove idee nuove, pratiche e sperimentazioni sulla terra sono i prodromi di un progetto più ampio da condividere, perché visione per un nuovo mondo.
Casa Cervi è casa e allo stesso tempo spazio di sperimentazione di una nuova idea, che non si limita al perimetro del podere e ai confini della abitazione. Tutto questo succede infatti in pieno fascismo, cosi come in pieno regime fascista nel 1939 arriva a casa Cervi il trattore, il primo della zona, con sopra un mappamondo ricevuto in omaggio dal rivenditore a fronte dell’acquisto impegnativo per una famiglia di contadini. Oggi simboli dell’Istituto Alcide Cervi, che gestisce il Museo di Casa Cervi, trattore e mappamondo sono la rappresentazione più vera della ricerca di migliore condizione del lavoro, insieme alla maturazione di una nuova coscienza collettiva, tutto dentro al perimetro della casa dei Cervi.
L’orientamento decisamente antifascista della famiglia trova spazio concreto nella organizzazione di riunioni clandestine nella casa, che diventa così anche casa di latitanza, punto di riferimento e di solidarietà per gli antifascisti e poi per i primi partigiani. È luogo di socializzazione e di elaborazione di una nuova grammatica della convivenza civile radicalmente alternativa al pensiero dominante fascista. A casa Cervi si legge e si elabora un pensiero nuovo attraverso i libri della biblioteca clandestina, la stesura di volantini e la diffusione della clandestina L’Unità. Tappa mappata dai fascisti per rompere le maglie della sovversione antifascista clandestina, casa Cervi viene incendiata all’alba del 25 novembre 1943, i Cervi catturati e la casa sfregiata da un incendio che distrugge i muri ma che vuole distruggere anche l’altra valenza della casa, quella simbolo dello spazio collettivo delle riunioni e del pensiero non autorizzato.
È significativo che casa Cervi venga poi presa di mira dai fascisti locali altre volte: si tratta con chiarezza di un simbolo da distruggere. Succederà anche nell’autunno del 1944, poco prima della morte (anche per dolore) della madre Genoeffa Cocconi, il 14 novembre 1944. Saranno i sopravvissuti, quattro donne mogli, e adesso vedove dei quattro fra i sette fratelli che si erano sposati, insieme al padre del sette fratelli Alcide Cervi e agli undici nipoti orfani di padre che stavano crescendo, a ricostruire se stessi nello spazio domestico ma anche in rapporto con il mondo esterno. Questo nucleo familiare di resistenti, di sopravvissuti si farà carico di rimettere in sesto il podere, di sistemare la casa danneggiata, e di riconfermarsi così come nucleo familiare. La casa dunque come riaffermazione di una identità, che non era andata annientata, nonostante tutto.
È dentro a questo percorso, che si intensifica già dal primo dopoguerra, che Alcide diventa papà Cervi. Ancora un rimando al lessico della casa, che fa di Alcide un padre della patria, il simbolo del ruolo dei contadini nell’antifascismo e nella Resistenza, motore della narrazione pubblica della storia della sua casa e della costruzione della memoria pubblica della Resistenza.
La casa nel frattempo è la meta di un pellegrinaggio ininterrotto e enorme di visite. Migliaia di visitatori organizzati e non solo visitano la casa come un santuario laico. Negli spazi interni dove la famiglia delle donne e dei nipoti con il nonno Alcide continua ad abitare si ammassano doni e omaggio, laicissimi ex voto che si aggiungono infatti ai documenti dell’attività antifascista e della resistenza dei Cervi, della vita contadina e agli oggetti di vita e di lavoro conservati e ancora elementi della vita quotidiana della famiglia.
È dentro a questa contaminazione che la casa si avvia verso un processo di trasformazione dei suoi spazi, all’inizio del tutto spontaneo e in perfetto e originale equilibrio della dimensione privata della casa con quella pubblica. La famiglia, del resto, vive in sinergia con una ribalta pubblica sempre più presente, dove sembra non esserci soluzione di continuità con la dimensione familiare. Sono tantissime le foto dell’Archivio di Casa Cervi impegnata a accogliere visitatori durante le occupazioni quotidiane. Un contrasto originale che determina anche l’originalità del percorso di trasformazione in Museo di casa Cervi.
Casa Cervi è al centro di una ribalta, dentro al processo di costruzione della democrazia nel dopoguerra dove vicende centrali come quella della famiglia Cervi diventano imprescindibili per costruire una memoria pubblica della Resistenza.
La musealizzazione
La parola MUSEO compare fra le prime volte nel 1961, in una targa ancora collocata sotto la grande volta della porta cieca (era cosi chiamato nelle case coloniche del territorio soprattutto fra Reggio e Modena il largo porticato che teneva unite la parte abitativa con la parte del lavoro). È di qualche anno posteriore una lettera di Alcide alle Istituzioni del territorio dove è posto il problema della conservazione, gestione, trasmissione del patrimonio. Casa Cervi, sotto la spinta di una volontà spontanea, che la mette al centro di un processo di musealizzazione, forse all’inizio inconsapevole, comincia a riflettere sulla necessità di presidiare questo percorso, tanto più che negli anni ’70 si apre una fase di studio sulla nascita dei primi musei della Resistenza, come passaggio dalla dimensione evocativa dei monumenti a quella razionale e narrativa dei Musei.
ll passaggio dalla casa come abitazione alla casa come museo avviene dunque in continuità. Diventata proprietaria della casa nel 1975, la Provincia di Reggio Emilia provvede ad allungarla sul lato est, riadattando gli spazi per la famiglia (nel frattempo gli undici nipoti di Alcide stanno diventando grandi) e per la sua funzione pubblica di accoglienza.
Nell’allungamento si ricava anche una saletta dove si cercano di organizzare i numerosi doni, senza un vero progetto, all’inizio, ma così come si potrebbero raccogliere in una casa. Siamo di fronte al primo tentativo di organizzare dentro a uno spazio nuovo, e destinato, la trasmissione di un fatto epocale, un topos della Resistenza, provando a strutturare il percorso della memoria, l’intreccio fra i diversi livelli della narrazione, dove il pubblico ha un ruolo fondativo. Questo è indubbiamente il primo nucleo del Museo. Sono tappe successive, prima di recupero e ristrutturazione degli spazi con costanti adattamenti alle esigenze espositive e di accoglienza organizzata e anche guidata, che portano infine nel 2001 alla intera musealizzazione degli spazi della casa.
In quell’anno infatti viene inaugurato un percorso che coinvolge tutta la casa, tutti i suoi spazi in un racconto che intreccia fatti e memoria con gli spazi un tempo della famiglia. Solo una porzione della parte allungata dalla Provincia è destinata al nucleo familiare che ancora rimane, mentre il resto della famiglia, dopo la morte di Alcide nel marzo del 1970 e dopo che i suoi nipoti erano cresciuti, si è definitivamente allontanata.
Adesso che prevalgono le mission museali della ricerca della conservazione e trasmissione, della accoglienza è un fatto singolare che nell’allestimento del 2001, e nel riallestimento di alcune sale nel 2021 si ricerchi – anche nelle soluzioni allestitive – il rispetto per la casa, per la storia più intima della famiglia, che viene sottolineata nella parte abitativa, mai alterata con modifiche espositive. Si vuole anzi che il visitatore colga del tutto questa atmosfera, che aiuta a leggere la storia per come si è sviluppata diventando la storia di tutte e di tutti a partire dagli spazi di una abitazione della campagna reggiana.
Casa Cervi e il Museo di Casa Cervi cominciano da qui, ma rimane singolare il fatto che sia la famiglia nel dopoguerra, sia la riflessione museale degli anni successivi abbiano dovuto confrontarsi, come in un processo inverso, con la ricerca della dimensione privata, da ricavare fra le pieghe della dimensione pubblica.
Dal dopoguerra la casa della famiglia Cervi e poi il Museo che si sviluppa dalla sua evoluzione, sono meta di coloro che vogliono ritrovare le radici della democrazia, che si riconoscono nell’antifascismo, e in un percorso dove le collezioni, le opere, gli arredi sono saldamente collocati dentro a un universo valoriale.
Casa Cervi è oggi un luogo fisico, con la casa Museo e la prestigiosa Biblioteca Emilio Sereni sul podere dei Campirossi. Allo stesso tempo, rimanda a una grande pluralità di valenze, riferite alla sua lunga storia, dove ha assunto e tenuto insieme le caratteristiche di Museo di storia; casa museo; ecomuseo; Museo etnografico; centro di incontro, di formazione, di documentazione; biblioteca; memoriale; pinacoteca (cfr Massimo Venegoni, Paola Boccalatte in La scelta della libertà. Museo Cervi, il percorso di visita), lungo il filo ininterrotto dei suoi valori fondativi, vivi e attuali ancora oggi.
Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
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Paola Varesi, laureata in Lettere Moderne a Bologna, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia (vecchio ordinamento), ha collaborato con Istituzioni pubbliche (come l’Archivio di Stato di Parma) e private (come Fondazione Palazzo Bossi Bocchi) per progetti di ricerca documentaria e iconografica. Ha iniziato il rapporto di lavoro con l’Istituto A. Cervi dopo l’allestimento di una mostra documentaria/ artistica sulla memoria della Resistenza curata da Istituto Storico della Resistenza di Parma e Istituto Storico della Resistenza di Reggio Emilia (Istoreco). In qualità di responsabile del Museo Cervi, ha seguito e segue l’organizzazione delle attività culturali; la promozione e la curatela del patrimonio e delle collezioni, fra le quali anche la collezione d’arte contemporanea che si è formata dal dopoguerra, e che si arricchisce ancora di opere di prestigio, come la recente acquisizione del dipinto di R. Sebastian Matta “Morire per amore”. Nella ricerca della attualizzazione dei linguaggi della memoria, cura e organizza dalla sua nascita il Festival di Resistenza, Teatro per la memoria, progetto di teatro civile che si svolge presso gli spazi esterni di Casa Cervi. Suoi articoli e saggi sono in pubblicazioni varie, anche a cura dell’Istituto Cervi, riguardanti in particolare il percorso museale, la sua storia e evoluzione. Ha curato anche la pubblicazione del catalogo Museo Cervi, la raccolta di arte contemporanea (Regione Emilia Romagna) e del volume La scelta della libertà. Il Museo Cervi.
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