di Pietro Clemente
Roma 29 febbraio 2016, ore 15. Siamo nella Sala Alessandrina di Sant’Ivo alla Sapienza, ci incontriamo qui per la attribuzione del Premio Ranuccio Bianchi Bandinelli “La tutela come impegno civile”. È uno spazio straordinario, pieno di storia e di arte, il campanile di Sant’Ivo è in corso di ristrutturazione, la sua particolare fisionomia barocca non è pienamente visibile. A due passi c’è Piazza Navona. In questo spazio è come se luoghi e storie fluttuassero nel mondo. Il premio è per questo anno intitolato a Khaled al-Assad, direttore del Museo di Palmira, straziato dai soldati del Daesh (ISIS). Archeologo resistente alle ideologie, ai fanatismi, fino alla morte e all’uso orribile del corpo, usata come forma di comunicazione di massa. Archeologo che investe sulla memoria, sulla storia delle civiltà, sul valore tutto moderno dei documenti e degli spazi dove altri mondi hanno lasciato traccia nel nostro. Nella sala il nome di Khaled al-Assad evoca un mondo difficile da affrontare, imprevisto, terribile, che ha già i suoi eroi, le sue frontiere dove si decide il futuro.
Nella sala barocca soffia il vento del mondo. Ci sono due premiati, sono entrambi giovani, e vengono da luoghi della periferia dell’Italia. Tommaso Lussu, con l’Associazione Casa Lussu, viene da Armungia, in provincia di Cagliari, nell’entroterra sud-est, ai margini della Sardegna costiera. Il rappresentante dell’Associazione, Giovanni Secco Suardo per la conservazione e il restauro dei beni culturali, viene da Lurano in provincia di Bergamo. Tra la Siria esplosa e Roma capitale, tra questa e i due piccoli centri del Nord e del Sud dell’Italia si crea un a brezza di verità, e anche una corrente di speranza. Lurano, paese contadino in crisi, ha avuto una ripresa demografica forte, legata ai processi di industrializzazione, e conta oggi più di 2500 abitanti; Armungia resta in calo demografico, con 481 abitanti, impegnati nel terziario e nella pastorizia. Lurano ha un castello e Armungia un nuraghe, hanno storie lontane di popolazioni che si sono stratificate. A Lurano la storia dei tempi lunghi è stata fatta dai Liguri, i Galli, la Repubblica di Venezia, gli Austriaci, fino all’Italia contadina e alla Lombardia industriale. Ad Armungia c’è stato meno scambio, ma certo tra mondi pastorali e contadini, tra conquiste e migrazioni anche qui la storia è fatta di vicende complesse.
Oggi Roma sintetizza tutto questo, il presente minaccioso, i passati plurali, decentrati che connettono Palmira con il Mediterraneo. Lo sfarzo della capitale e la povertà delle periferie, si incontrano in modo buono, anche perché una generazione di anziani che ha istituito l’Associazione Bianchi Bandinelli premia due giovani. Una volta i giovani avevano venti anni, oggi ne hanno quaranta. Il tempo e le regole delle genealogie sono cambiati. Qui incontro anche un pezzo del mio mondo di memoria: Tommaso Lussu, Pietro Lussu, Giovanni Lussu loro padre, e Paola loro madre, sono pezzi della mia giovinezza. Giovanni è figlio di Emilio Lussu, Pietro e Tommaso sono i suoi figli, nipoti di Emilio. Emilio fu per me a Cagliari negli anni Sessanta della mia politica giovane, un amico e maestro alto e grande che mi ha accompagnato dai venti ai trent’anni. Con Giovanni, compagno di scuola di mio fratello minore a Cagliari, diventammo amici e nei primi anni Sessanta fondammo il Movimento d’Azione per la Pace (MAP) sulle orme di Bertrand Russell, e poi aderimmo al PSIUP che fu la mia grande scuola di politica.
Ora in questa sala barocca il tempo si torce su di sé, mi ricorda con davanti il figlio e i nipoti il privilegio di avere avuto la compagnia intellettuale e politica di uomini come Emilio e Joyce Lussu, che hanno segnato con la loro forza culturale la storia d’Italia. Fronti e frontiere di Joyce Lussu, il libro racconto del loro incontro nel mondo europeo dei fuoruscisti, è stato per me un romanzo di formazione formidabile. I racconti di Joyce ne L’olivastro e l’innesto, sulla vita in Sardegna, illuminano la storia e le radici sarde di questa coppia leggendaria. Ora Tommaso Lussu è qui per ricevere il Premio Bianchi Bandinelli 2016, per “la tutela come impegno civile”, ci sono i suoi familiari, e ci sono anche io per apprezzare l’evento. Durante la premiazione, che Tommaso ha dedicato a due donne, Barbara Cardia, la sua compagna, e Giovanna Serri, nonna di Barbara, che ha insegnato loro l’arte della tessitura tradizionale, penso a questo incontro imprevedibile per cui si sono indirettamente ritrovati due pezzi del Novecento: Emilio Lussu e Ranuccio Bianchi Bandinelli. Quest’ultimo era un raffinato intellettuale di nobile famiglia senese, di madre tedesca e nonna austriaca, militò nel Partito d’Azione, archeologo di grande rilievo, fu un intellettuale comunista ed ebbe un ruolo importante nella definizione della cultura del patrimonio storico, artistico e archeologico. Era nato a Siena nel 1900 e morì nel 1975 a Roma.
Emilio Lussu era nato ad Armungia nel 1890, morì anche lui a Roma nello stesso anno di Bianchi Bandinelli, ma la sua storia lo ha legato alla prima guerra mondiale, al sardismo e all’antifascismo con i grandi libri Un anno sull’Altipiano e Marcia su Roma e dintorni. Il partito di azione fu il loro punto di connessione. A Siena dove vivo da 43 anni il primo maggio si festeggia a Geggiano, nel Chianti, in uno spazio che Bianchi Bandinelli ha ceduto alla cooperativa degli ex mezzadri delle sue terre. Emilio conosceva bene a Siena soprattutto Mario Bracci, giurista e con lui membro del governo De Gasperi, conosceva Siena, e me ne scrisse, quando mi trasferii qui per insegnare all’Università. Anche Siena entra così tra le città di memoria in questo strano spazio-tempo di un palazzo romano, vicino al Senato, dove Lussu si impegnò negli ultimi mandati della sua attività politica. Attraverso il lavoro di Tommaso, suo nipote, la casa Lussu, casa di famiglia di Emilio, è lo spazio di un riconoscimento. Questa casa di proprietari sardi, spartana e severa, entra nel cono di memoria della grande Villa di famiglia dei Bianchi Bandinelli, e nello spazio barocco di Sant’Ivo alla Sapienza.
«Tommaso Lussu, archeologo, laureato a Roma – si legge nella motivazione del Premio – dopo un periodo di attività come restauratore si è trasferito in Sardegna ad Armungia, piccolo paese nella provincia di Cagliari. (…) L’associazione Casa Lussu da lui fondata ha sede all’interno della storica residenza della famiglia Emilio e Joyce Lussu: una casa a corte, edificio abitativo caratteristico della Sardegna dell’Ottocento. Presso quest’ultima l’Associazione ha messo in opera un prezioso recupero di strumenti e pratiche della tessitura a mano con telai di legno, avviandone una nuova produzione e tenendo corsi di formazione. Casa Lussu ospita anche periodici incontri di studio sulla storia del Novecento ed esposizioni di opere contemporanee. Queste attività hanno dato un notevole contributo alla conservazione della memoria storica e allo sviluppo del piccolo paese di Armungia, tutelandone attivamente il patrimonio materiale e immateriale. Esprimono inoltre un metodo originale di sviluppo di una economia dell’identità locale in un territorio di grande qualità storica e ambientale, ma in crisi demografica e occupazionale».
Il nome di Bianchi Bandinelli, spesso usato per rappresentare la ‘tutela’ in modo conservativo, ha questa volta fatto da cornice di riferimento a una iniziativa tutt’altro che conservativa. Anche se basata sul rispetto di una struttura edilizia, Casa Lussu è un ‘monumento abitato’ [1], è privata, ha ‘stoppato’ la Soprintendenza che la voleva a disposizione per visite, e si è rianimata; sul web c’è molta Casa Lussu ad Armungia, e c’è anche il B&B di Casa Lussu. Rispetto e tutela, ma anche vita, anche innovazione, la tessitura tradizionale è rinata a casa Lussu, con una scommessa che ha fatto riattivare i saperi del mondo delle donne, che avrebbero potuto radicalmente perdersi. In delle foto ‘patrimonialmente’ emozionanti, Tommaso e Barbara costruiscono l’ordito per la tessitura, come in passato, con dei legni infilati nei muretti a secco, e Zia Giovanna li guarda, li indirizza, li commenta. Con un salto di generazione la tessitura ad Armungia è oggetto, si direbbe in lessico Unesco immateriale, di salvaguardia, ovvero trasmissione alle generazioni perché la portino nel futuro. Da qui si parte, per rianimare il paese, connettere in una rete di generazioni e imprese i paesi della Sardegna interna, che le previsioni del 2020 danno pressoché esausti, a favore della ciambella costiera e turistica. Viaggiare controcorrente guidati dalla cultura, dall’artigianato, dai saperi, dai cibi, dalla produzione locale, da un’altra generazione. Una scommessa piena di futuro difficile. Armungia ha due musei, quello dedicato a Joyce ed Emilio e alla loro storia, e quello dedicato alla vita del paese e al suo mondo produttivo, che comprende anche l’edificio del fabbro. Con la nuova strada che la connette alla costa, Armungia non è più finisterrae. Quella di ridare vita al paese e alla sua vita demografica è una scommessa che Tommaso Lussu sta praticando, in nome del nonno, e in nome di un futuro diverso da quello già previsto. Questa è tutela come impegno civile.
Scena seconda: Emilio, la memoria
Casa Lussu ad Armungia è la casa delle storie e della storia. È il luogo della nascita e della crescita del ragazzo inquieto del quale Giuseppe Fiori ci ha dato un profilo straordinario in Il cavaliere dei rosso- mori: vita di Emilio Lussu (Einaudi, 2000), il ragazzo che divenne il capitano Lussu di Un anno sull’Altipiano [2], secondo il critico Asor Rosa, uno dei cento libri importanti della letteratura italiana del Novecento. Emilio non si considerò mai uno scrittore, ma lo fu per pienezza di esperienza e per nitidezza stringata ed efficace di comunicazione. Lui raccontò la sua clamorosa fuga dal domicilio coatto a Lipari, beffa per il fascismo, nelle pagine di Marcia su Roma e dintorni. In un sanatorio parigino dopo l’operazione di pneumotorace, scrisse Il cinghiale del diavolo, un racconto di caccia che è un insieme di storie di credenze locali e di comunità di cacciatori, in cui descrive le montagne e i boschi di Armungia, i nomi dei luoghi, con una straordinaria efficacia, e dal quale è stato tratto un racconto a fumetti.
Tutto nasce da questa casa rurale col pavimento in terra battuta, un antico focolare al centro non più usato, una corte con la stalla, la cantina e la stanza dei cibi, e le stanze da notte e lo studio in alto. Qui oggi c’è una raccolta delle traduzioni dei grandi libri di Emilio in tutte le lingue del mondo, e c’è una sella. Oggetto carissimo a Emilio e Joyce che furono sempre ‘cavalieri’. Il bed and breakfast sta di fronte in uno spazio che Emilio aveva voluto costruire per incontrare persone, per visite e attività pubbliche. Casa di proprietari severa e quasi povera, in un paese privo di risorse. In questa casa Emilio subì da suo padre quella ‘educazione di un democratico’ di cui scrisse in un testo minore pubblicato in una raccolta di racconti per la scuola [3], perché suo padre gli fece fare il servitore di quel servitore, col quale il ragazzo aveva osato comportarsi come a un suo sottoposto. È la casa in cui la mamma di Emilio morì senza rivederlo, giacchè dopo la fuga in Francia da Lipari, fu solo alla fine della guerra che tornò ad Armungia, dove tenne un comizio ancora ricordato che invitava a non fare vendette e a costruire un futuro nuovo. Emilio e Joyce tornavano volentieri. Emilio riprendeva a parlare in sardo, chiedeva ai bambini le loro genealogie, dialogava con le persone, passeggiava in campagna. Aveva affidato a Zia Giovanna Serri, sua parente, la cura della casa, e questa fu conservata con grande rispetto per la struttura tradizionale. In anni più recenti furono fatti dei restauri nello stile tradizionale, giacchè sono nate in Sardegna imprese che fanno restauri e costruzioni edili con l’incannicciato ed altre tecniche abbandonate da tempo, anche con i mattoni in terra cruda. La memoria di Emilio e Joyce, nonostante tutto non è forte nella comunità, con lo spopolamento si perdono anche i ricordi. Essa rischia di essere una memoria istituzionale, trasmessa dalla scuole a dal museo. Emilio e Joyce oggi sono nella piazza, nel grande museo dedicato, ricco di fotografie, immagini che li ritraggono. Emilio è anche nel nome di una strada e dei suoi numerosi vicoli. Si arriva, se non erro, a vicolo sesto Emilio Lussu. Ma il radicamento nella comunità forse rinasce soprattutto grazie al ritorno di Tommaso, alle iniziative sul luogo, che danno di nuovo alla Casa Lussu il senso di essere nel presente e nel futuro, controcorrente.
Nel 1997 dopo una conversazione con Giovanni Lussu, che mi suggerì l’idea di dare rilievo, centralità ai luoghi periferici, di immaginare possibili diversi orizzonti per la marginalità e lo spopolamento, pensando proprio ad Armungia, pensai di andare lì, nel paese di Emilio Lussu, con i miei studenti romani, per una esercitazione di ricerca sul campo, per vedere se da questa ricerca potesse nascere anche qualche scintilla. Lo stage residenziale ad Armungia durò tre anni, per circa 15 giorni all’anno, e coinvolse 66 giovani e diversi docenti, dell’Università di Roma e di quella di Cagliari con la quale collaboravamo. È stata una esperienza difficile e intensa, che quasi tutti i partecipanti ricordano ancora. Furono raccolti racconti di vita e di migrazione, ricordi su Emilio Lussu, storie della vita quotidiana, delle tecnologie, del lavoro per il museo. Furono osservate le attività pastorali, le feste, la vita dei giovani. Raccolti i ricordi. Nacquero amicizie tra giovani, fu realizzato un grande corpus fotografico, e molti incontri. Armungia fu mobilitata, un anno nacquero quattro bambini e al nostro arrivo condividemmo la gioia per questo evento. Molti giovani romani arrivarono vegetariani e tornarono carnivori, il primo anno, il 1998 ad Armungia non c’era connessione né Internet né – nel centro – connessione in rete per i cellulari. La sera si faceva la fila davanti all’unica cabina telefonica. Poi quasi improvvisamente il paese fu connesso in Internet, tanto che qualche cosa messa sul web da uno degli studenti romani fu oggetto di un largo dibattito che scavalcò il mar Tirreno. Anche i giovani di Armungia si incuriosirono ai romani e alla romane in specie, ci furono dialoghi giovanili intensi anche nelle notti al bar senza professori. Tanto che restano ancora oggi nel paese le memorie delle sbornie dei giovani romani e di altre avventure, che sono diventate un ciclo narrativo da veglia: “al tempo dei romani”.
I ragazzi degli stage ora sono trentenni, qualcuno quarantenne. Hanno scritto saggi e libri di antropologia, alcuni lavorano in ONG e organismi inter- nazionali, molti sono precari nel modo di vivere e antropologi nel modo di pensare e di scrivere. Da tempo mi auguro un ritorno. Un primo ritorno ci fu nel 2007 per presentare in numero 1 del 2006 della Rivista Lares, dedicato agli scritti di un gruppo di giovani legati all’esperienza degli stages. Anche io ho scritto in quel numero un testo che si intitola Il paese di Emilio Lussu e delle rose [4], un testo ‘emozionato’. In quegli stages incontrai per l’ultima volta Joyce Lussu. Qui incontrai Nenetta Casu che aveva vissuto con i Lussu a Roma per anni, ed era tornata dopo la morte di Emilio. Mi accoglieva come uno di casa. Nel numero di Lares c’è anche una intervista a lei, a Nenetta [5] che facemmo in Casa Lussu, vicino all’antico focolare, sulle sedie basse delle veglie sarde. Anche questa intervista è inframmezzata da un vento di memoria e di nostalgia, di senso dell’incontro di tante storie, della vita come incontro, transito, ma con obbligo di ritorno nella memoria. Un rito che si compiva davanti a tanti giovani che forse non sapevano nemmeno, prima dello stage, chi fosse Emilio Lussu.
Nenetta racconta la sua infanzia di donna povera e presto orfana, racconta un altro tempo, altre storie, ma racconta anche di Casa Lussu, della volontà di Emilio di mantenerla come era, nei limiti del possibile, in modo da testimoniare la storia della famiglia e quella sarda. Nello stage Giovanna Serri, maestra di tessitura per Tommaso e Barbara, mi raccontò i suoi sogni, pieni di pronostici e di vita, Giovanna che ha fatto novanta anni da poco mi colpì con la sua filosofia di vita in cui le storie umane si legano a quelle della natura. Ma non è col fascicolo di una rivista di antropologia che si può riaprire il dialogo. Forse oggi si potrebbe per la nuova vivacità della vita armungese.
Casa Lussu rivissuta da Tommaso è come un’antica astronave, abbandonata nello spazio infinito, che viene ritrovata e dove si riaccendono le luci, si ascoltano discorsi, eventi, si attivano possibilità di vita ulteriore. Una volta un mio amico cagliaritano di lunga data ha invitato su Facebook i suoi amici ad andare ad Armungia a prendere un caffè. Per dare un contributo alla vita di questo paese in bilico. Oggi Armungia non è più finisterrae, ci si può venire anche tornando dal mare, ci si trova da dormire, si mangia in modo organizzato ed eccellente nella rete del B&B anche se non ci sono ristoranti. Ci sono due musei [6] e un nuraghe, e c’è casa Lussu. Si può comprare un tappeto unico. Magari dopo averlo visto nella pagina Facebook : tappeti di Armungia Casa Lussu, o avere scelto il B&B e avere visitato http://casalussu.org/ .
Forse più semplicemente, per chi lo ricorda, è la casa del padre (la ‘dacia’) che compare nel mondo interstellare nel dialogo con un’altra mente nel film Solaris di Andrei Tarkovskj.
Ora si cerca di organizzare ad Armungia delle iniziative che coinvolgano i tanti paesi che condividono il problema della rinascita non prevista dai trend demografici. Cerchiamo di fare una rete tra questi paesi, che si conoscano e scambino le loro esperienze. Mi farebbe piacere che Monticchiello (Siena), frazione di Pienza con 300 abitanti che lotta con i mezzi del teatro [7] e del museo per rivivere, incontrasse Casa Lussu e Armungia. Sarebbero due pezzi di storie che mi stanno a cuore che si incontrano. Io sono un antropologo che si è dedicato ai piccoli paesi. Spero di restare nella loro toponomastica, mentre condivido le sfide per costruire un futuro controcorrente. Non sarà facile, Lussu è restato nei nomi delle strade, ma nella toponomastica diffusa ha avuto un solo racconto: «Una volta mentre eravamo a caccia uscì in questo passo nel bosco un cervo bellissimo, i cacciatori imbracciarono velocissimi i fucili, pronti a sparare, ma Lussu che guidava la battuta, li fermò con un gesto: “è un animale bello e fiero, lo dobbiamo rispettare” disse. Quel passo ora si chiama Su passu de Lussu».
Scena terza: Il patrimonio
Armungia, oltre gli scritti legati agli stage che ho citato, ha da tempo una sua monografia dolorosa, ma anche capace di monito: è Restare paese. Antropologia dello spopolamento nella Sardegna sudorientale, di Felice Tiragallo (CUEC, Cagliari, 1999), che ad Armungia ha dedicato anche altri lavori, per lo più di antropologia visiva. Restare paese, è in un certo senso un imperativo, o un ottativo. Armungia è negli studi, sia per la biografia di Emilio Lussu, sia per gli scritti suoi e di Joyce, sia per le ricerche di diverse università e le pubblicazioni che ne sono conseguite. Anche il n.1 di Lares del 2006 è una specie di monografia patchwork della comunità come ci apparve tra 1998 e 2000. E il museo etnografico è lo spazio di una memoria collettiva, oggetto di ricerca e di lavoro delle donne, interpretato dall’antropologa Gabriella Da Re e da due giovani architetti Braga e Sanjust. Mentre il museo di Emilio&Joyce [8] connette Armungia al mondo che essi traversarono e al tempo in cui furono protagonisti.
Diciamo che ad Armungia c’è cultura, e anche varie amministrazioni, non solo studiosi, hanno ritenuto giusto investire sul ‘patrimonio’. Ora, nel lessico corrente dei nostri studi, qualcuno direbbe che ad Armungia è in atto un processo di patrimonializzazione. Una parola che in qualcuno degli antropologi ha una vaga eco di inquinamento o di avvolgimento in quelle carte trasparenti che usava l’artista Christo per le sue performance impacchettative. Ci sono state tante discussioni sull’Unesco e sul patrimonio, qualcuno pensa che il vero patrimonio è quello di cui non si parla, ma sbaglia perché nel nostro mondo la parola, la autorappresentazione, la narrazione e la meta narrazione sono le forme principali del riconoscimento. Siamo nel mondo globale, quello che guarda gli altri ed è guardato, anche nei piccoli paesi, anche dove ci sono più televisori che abitanti. Patrimonializzare è una parola fatta apposta per confondere i sensi e le idee, è propria di quelli che credono che le comunità e le persone non contano granchè, e che è destino che tutto sia toccato e storpiato dal potere, dalla finanza e dalla politica. Le istituzioni ‘patrimonializzano’ e tutti i fiori appassiscono, ciò che era bello diventa brutto, il caldo freddo.
Se invece dicessimo che ad Armungia c’è una comunità che vuole vivere, e che crede di farlo valorizzando la sua cultura, il suo saper fare, la sua storia, e che ci sono anche degli studiosi e delle istituzioni che pensano che ciò sia possibile e chiedono attenzione, magari anche qualche riconoscimento, cosa cambia? Cambia che è evidente che spesso quelli che sono chiamati processi di patrimonializzazione non sono altro che tentativi di auto-valorizzazione a partire dal significato e le potenzialità che i beni culturali hanno acquisito nel nostro mondo e che consentono processi di empowerment, e anche di sviluppo, in cui il tema dell’incontro turistico con l’altro è anch’esso parte del mondo. È interessante che una comunità come quella di Armungia, almeno nei tentativi che stanno intorno a Casa Lussu, tenda a scegliere un turismo ‘adeguato’ alla sua dimensione, alla varietà di potenzialità del territorio (trekking, parco letterario), all’offerta storico-culturale (il Nuraghe, i due musei, la Casa Lussu), con delle iniziative (feste, incontri culturali) e di cibo qualitativo organizzato. Consapevoli che nulla può succedere in tempi brevi.
Nel dibattito francese sul patrimonio si è insistito sulla idea che nel mondo moderno il patrimonio produce ‘emozioni’ che vengono chiamate ‘emozioni patrimoniali’. L’idea guida è che nella modernità laica e individualista il sacro sia stato sostituito dall’arte e dal mondo dei musei, così che le emozioni (collettive, e soprattutto indi- viduali) si sono spostate nella dimensione del consumo pubblico di eventi artistici, del turismo di cultura dei musei e della memoria [9]. In qualche prospettiva di analisi antropologica un po’ ‘foucaultiana’ ‘le emozioni patrimoniali’ sono cose per le masse subalterne al potere degli Stati. La mia idea è che non solo ‘non possiamo non dirci turisti’ tutti quanti, ma che le ‘emozioni patrimoniali’ riguardano gli analisti stessi, gli antropologi ed altri, non ‘il resto del mondo’. Come scrisse in una sua intervista James Clifford [10], quando lavoriamo in situazioni concrete il problema che abbiamo non è quello di essere puristi e antiessenzialisti, ma quello di esser parte : «ho bisogno – scrive – di farlo per restare implicato nella situazione concreta in cui mi trovo, e per non andare alla ricerca di un luogo di purezza filosofica o politica che infine evaderebbe la contingenza storica e la sua politica culturale».
Ad Armungia, come a Monticchiello e in altri luoghi c’è il senso di una battaglia culturale, il senso del nesso tra marginalità e sviluppo, tra valore culturale e bisogno di reti; far crescere controcorrente queste situazioni è ‘costruire il patrimonio’ insieme, dal basso, dagli studi. Operare in questi contesti non mi rende mai semplice essere d’accordo, ma mi rende doveroso partecipare, e capire i valori del ‘patrimonio’ non in assoluto, ma dentro un processo attivo. Questo processo ad Armungia ha avuto molte micce: il museo, gli stage, il secondo museo, gli studi, ma solo ora con Casa Lussu sembra potersi attivare dall’interno una connessione di questi fattori, e vivere la speranza di rianimare tutte le micce dello sviluppo culturale finora rimaste inesplose. In questo senso il premio Bianchi Bandinelli è un segnale importante di attenzione collettiva ai mondi marginali e alla loro tenace volontà di ‘essere nella storia’.
Per le ragioni che ho raccontato Armungia è per me casa di memorie, luogo di ritorno alla giovinezza. Ricordare Emilio e la sua amicizia, il suo rigore, la sua fierezza di uomo ormai anziano, ma sempre attento e vigile, le cose che diceva a noi giovani, fa parte per me di un ‘Lussu’ vissuto, è una sorta di piccolo patrimonio culturale immateriale, uno ‘heritage’ che porto sia nella memoria che nella coscienza. Tessere alla maniera di Zia Giovanna è molto di più; trasmettere quel sapere pratico e ricco di modalità che si apprendono nel tempo è letteralmente quel che nella Convenzione Unesco del 2003 si intende per ‘salvaguardia’. Tommaso e Barbara con Giovanna hanno attivato una trasmissione di know how che non è ‘ripetizione’ di gesti, come in un musicista che rifà sempre lo stesso motivo, è invece costruire futuro, per gli artigiani, per le differenze culturali, per i saperi della natura, per i gesti efficaci incorporati e capaci di produrre ‘cose’ dotate di uno stile. Le competenze attivate si ri-aprono a loro volta alle varianti, alle creazioni, a nuovi mercati. Ad Armungia il ‘patrimonio culturale immateriale’ sta vivendo un tempo fecondo.
Dialoghi Mediterranei, n.19, maggio 2016
Note
[1] Traggo questa espressione da un volume sul patrimonio culturale, a cura di D.Fabre e A.Iuso, Les Monuments sont habités, Editions de la Maison des sciences de l’homme, Paris , 2010, in cui ho anche scritto un testo Armungia, pays de quelqu’un: 215-234
[2] Vedi anche il film tratto dal racconto di Lussu: Uomini contro, di Francesco Rosi, 1970
[3] Il cinghiale del diavolo e altri scritti sulla Sardegna, Torino, Einaudi, 1976
[4] Il paese di Emilio Lussu e delle rose: 85-98
[5] Nenetta Casu -Pietro Clemente, Armungia 17 Maggio 1998. Casa Lussu (intervista): 219-234
[6] Il Museo etnografico “Sa domu e is ainas” nasce da una raccolta di oggetti promossa da Joyce Lussu tra le donne di Armungia e trasformata in Museo dopo un lavoro di ricerca dell’Università di Cagliari, diretto da Maria Gabriella Da Re. http://www.armungiamusei.it/index.php?option=com_content&view=article&id=48&Itemid=40.
[7] http://teatropovero.it/
[8] Il Museo storico “Emilio e Joyce Lussu”, nasce nel 2012 in collaborazione tra il Comune di Armungia e l’Istituto Sardo per la Storia della Resistenza e dell’Autonomia (ISSRE), con un Comitato Scientifico e per il particolare impegno di Giuseppe Caboni, http://www.armungiamusei.it/index.php?option=com_content&view=article&id=68&Itemid=69,
[9] Fabre D., L’istituzione della cultura: per una antropologia comparata. L’esperienza del LAHIC , in Lares 1, 2003; Fabre D., a cura di, Emotions patrimoniales, Editions de la Maison des sciences de l’homme, Paris, 2013
[10] Clifford J., Ai margini dell’antropologia, Meltemi, Roma, 2003: 65-66
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Pietro Clemente, professore ordinario di discipline demoetnoantropologiche in pensione. Ha insegnato Antropologia Culturale presso l’Università di Firenze e in quella di Roma, e prima ancora Storia delle tradizioni popolari a Siena. È presidente onorario della Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici (SIMBDEA); direttore della rivista LARES, membro della redazione di Antropologia Museale, collabora con la Fondazione Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano. Tra le pubblicazioni recenti si segnalano: Antropologi tra museo e patrimonio in I. Maffi, a cura di, Il patrimonio culturale, numero unico di “Antropologia” (2006); L’antropologia del patrimonio culturale in L. Faldini, E. Pili, a cura di, Saperi antropologici, media e società civile nell’Italia contemporanea (2011); Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita (2013); Le culture popolari e l’impatto con le regioni, in M. Salvati, L. Sciolla, a cura di, “L’Italia e le sue regioni”, Istituto della Enciclopedia italiana (2014)
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Mi ha fatto un enorme piacere leggere questo testo, dove trovo finalmente valorizzati i nomi di Joyce ed Emilio Lussu, insieme alla comunità di Armungia dove Barbara e Tommaso stanno facendo uno splendido lavoro, che è poi tutt’uno con le loro scelte di vita. Con i semplici desideri si fa poco, se non vengono seguiti dalle opportune azioni. Io ho fiducia che queste azioni verranno, perché credo nell’enorme attrattiva che può suscitare una maggiore conoscenza delle vicende umane dei coniugi Lussu, così come dell’ambiente naturale e culturale dell’entroterra sardo. Credo che vi siano diversi segni di questo. Non ultimi il riconoscimento del premio a Casa Lussu, l’interesse mostrato da più parti verso la costruzione di una rete tra i piccoli centri italiani e la presenza di questo articolo in un sito destinato allo sviluppo di “Dialoghi mediterranei”!