di Valeria Dell’Orzo
«Il soggetto animista è dovunque, nell’uccello disturbato che vola protestando… nel fantasma maldestro che segnala la sua presenza incespicando su un ramo secco» (Descola: 286). Dispetti, opaliche apparizioni, soffi freschi o fetidi, ritrovamenti inaspettati, epifanie o continue ricerche di oggetti nascosti, luminescenze o scricchiolii, regali o molestie, sensazioni di pervasivo benessere o dolenti e lividi risvegli: sono questi alcuni dei tanti elementi che caratterizzano le suggestive storie degli spiriti domestici, coi loro tanti nomi e attributi caratteriali, che popolano largamente le nostre città.
Tanti, tantissimi, sono i racconti di case e appartamenti che a Palermo come altrove, prevalentemente tra i vicoli e i catoi del centro storico, o in suggestive periferie (ben noti a tutti sono i numerosi racconti su Villa Caboto a Mondello), ospitano incorporei abitanti, parte stessa della casa, rappresentazione immateriale che umanizza la dimora attribuendole dei tratti personali, codificati e riconoscibili, tratti coi quali entrare in comunicazione attraverso abitudini quotidiane traducibili nel mantenimento di una condivisione dialogica.
Fantasmi, presenze, patruneddi di casa, jinns – gli spiritelli che parlano arabo – e molteplici altre declinazioni caratterialmente connotate, quali riflesso delle suggestioni più profonde dell’io, di un io individuale che si estende in un io collettivo attraverso la narrazione, la confessione, la rivelazione, più o meno esplicita, di fenomeni e sensazioni, portano all’affascinazione ampia della società che avvolge il singolo e conferisce un’eco di attendibilità all’inspiegabile, un senso al nonsense.
Per gli inquilini e per coloro che condividono empaticamente queste esperienze
«la tranquilla evidenza del fatto che le cose sono proprio come vengono percepite non nasce… dalla potenza apodittica di una dimostrazione ben fatta, nemmeno dall’effetto di persuasione che suscita da sé un argomento retorico al quale possiamo finire per credere, ma dalla convinzione, ancorata in un apparato percettivo, di un ethos e in una situazione definita, che il mondo sia conforme all’uso che se ne fa» (Descola: 287).
Le personificazioni attribuite alle abitazioni fanno sì che queste da oggetto d’uso divengano soggetto attivo nella vita e nella storia familiare e sociale, compartecipi in forma diretta alla costruzione di una stabilità casalinga e alle sue ripercussioni nella complessità della vita degli individui coinvolti. È una credenza animista quella che riconosce e attribuisce uno spirito, umano e soprannaturale al tempo stesso, alla casa, a qualcosa di statico e inamovibile, simbolo materiale dell’identità patrimoniale dell’individuo, spazio che con le sue pareti protegge e rassicura, con le sue porte si apre al mondo.
Quello legato all’universo popolato dalle immateriali presenze domestiche è da sempre un suadente strumento di incuriosita attrazione o timorosa repulsione nei confronti della casa, luogo di ambientazione dei racconti fenomenici indissolubilmente connessi a quei profili incorporei che vi dimorano, e che lì agiscono in presunte interazioni col mondo fisico. È un tratto culturale molto diffuso, che si palesa in forme più o meno vaste all’interno di ogni realtà umana forse proprio perché occorre dare un pensiero a quel guscio che occupiamo nei momenti di maggiore vulnerabilità.
La casa è infatti il rifugio del sonno, del cibarsi, dell’intimità, è il luogo in cui le difese si abbassano poiché si è fisicamente schermati dalle insidie esterne, ma è proprio per questo indebolimento dei livelli di guardia che diviene una bolla tremolante da fortificare attraverso la presenza vigile di realtà impalpabili con le quali comunicare, dialogare, conversare secondo codici comportamentali basati sul principio di reciprocità. Una presenza trattata con riguardo sarà dunque, in questo codice, interessata alla tutela degli abitanti della casa, e questi leggeranno tale approccio in ogni episodio di benessere; contrariamente una presenza minacciosa o dispettosa, responsabile morale di ogni disagio, indicherà la necessità di abbandonare quei luoghi per loro non sicuri, o la volontà di punire i nuovi occupanti, colpevoli col loro arrivo di un cambiamento all’interno della dimora.
«L’unione del malefico e del benefico costituisce, naturalmente, la mostruosità prima ed essenziale, l’assorbimento da parte dell’essere sovrumano della differenza tra la ‘buona’ e la ‘cattiva’ violenza, la differenza fondamentale cui tutte le altre paiono subordinate» (Girard: 349).
Il sentire personale viene così condiviso e filtrato socialmente, epurato dalla soggettività sensoriale e emotiva, per essere consegnato alla volontà di immateriali agenti esterni capaci di interferire col mondo domestico attraverso un codificato linguaggio fenomenico. Nello scenario di un odierno asfittico annichilimento sociale, l’ottica della spiritualizzazione dell’abitazione, sia essa esplicitamente dichiarata o tacitamente sospettata, permette di stabilire una diretta relazione personale, convenzionalmente sostenuta da codici comportamentali e da consuetudini pratiche; da formule di saluto a regalie prevalentemente alimentari variamente offerte e, com’è noto,
«nel dono… non è importante tanto l’obbligo di ricambiare – e, al limite se lo consideriamo isolatamente, anche l’obbligo di donare – quanto il fatto che la società e i modelli culturali obbligano (in questo modo) due o più individui ad entrare in relazione» (D’Onofrio: 41).
Così come sono le persone a fare un mercato e non le merci, le parole che ci si scambia più che le cose, allo stesso modo tra l’abitante e l’abitato sono le memorie e le narrazioni, il ricordare e il raccontare che valgono ad addomesticare i luoghi e gli spazi. Si mette così in atto un vero e proprio rapporto tra l’uomo e la casa, oggetto inanimato ma ora pervaso di un proprio spirito, dotato di una personale volontà, di un delineabile carattere e di riconoscibili intenzioni. Nel contesto diffuso di una progressiva dispnea sociale basata sulla deprivazione costante del contatto fisico e visivo a favore del contatto virtuale, questo con l’invisibile è invece un virtuale che si fa vicino fino all’incontro quotidiano attraverso un sistema di comunicazione basato sulla creazione di senso lungo l’esoscheletro della casualità fenomenica.
«È questa attitudine a percepire in modo soggettivo un mondo che prolunga i loro organi e i loro bisogni che converte le entità animiste in soggetti ed è perché sono riconosciute come soggetto che si ritiene che abbiano un’anima. Che tale interiorità sia descritta come somigliante a quella degli umani non è sorprendente, non più del fatto che permette lo spiegamento di una vita ‘culturale’ nei collettivi sociali» (Descola: 287).
La spiritualizzazione animista dell’oggetto casa, adattandosi alla realtà circostante, si trova oggi a compensare un trasversale fenomeno di brutale cedevolezza dell’idea di rifugio, contribuendo a creare appigli di sicurezza o a rendere meno sofferta la privazione di quello spazio divenuto labile nel continuo susseguirsi di violenze domestiche e di dissesti economici, di rovinose occupazioni momentanee che sfociano in frequenti e destabilizzanti sfratti, spesso psicologicamente e materialmente violenti e vessanti, non solo per chi ne è direttamente colpito ma anche per chi partecipa emotivamente allo smarrimento di intere famiglie, di intere fette della società.
«Dove c’è sofferenza, c’è l’uomo. Dato universale, il dolore costituisce il problema: è scandalo ed enigma per l’uomo. Un dato difficile da interpretare. Si collega infatti con la presenza del male nel mondo umano… in quanto passivo, come dolore, ha cause… in quanto atto umano, appartiene al senso (o non senso) dell’esistenza umana dell’uomo. Si offre perciò alla riflessione che ne vuole scoprire cause, scopo, senso» (Di Giovanni: 261).
La paura della mancanza di stabilità, la conflittualità, la precarietà permanente che striscia, trasversale, tra i più e i meno giovani, l’emergenza abitativa che attraversa di notizia in notizia il quotidiano di ciascuno di noi fanno sì che le suggestioni prendano forme nette, per tutelarsi dall’auto-colpevolismo o dalla colpe-volezza sociale, per dare delle risposte lì dove per giustizia e buon senso le cose dovrebbero andare diversamente.
«Ognuno di questi soggetti mutevoli, venuti da un’ontologia singolare ed esercitante la sua attività in un collettivo specifico, sarà necessariamente confrontato a problemi epistemologici e metafisici distinti che cercherà di risolvere a suo modo e con i mezzi dei quali dispone, istituendo così zone di oggettività, di non soggetto, rispetto alle quali dovrà elaborare un trattamento adeguato» (Descola: 286).
La risposta a questo ingente carico emotivo può trovarsi allora, paradossalmente, su un piano “altro”, attraverso la giustificazione di un agire esterno e sovrumano, attraverso la creazione di una personificazione fenomenica, un’impalpabile realtà ostile dalla quale prendere le distanze, ma anche in molti casi una benevola presenza tutelare che assicura all’abitante di dormire sonni tranquilli entro quello spazio che magari non gli appartiene ma entro il quale è gradito e dunque protetto da invisibili proprietari morali che vegliano per lui e sulla fragilità del rifugio.
La credenza negli spiriti, nelle anime, riconosciute e attribuite alle case può essere oggetto di condivisione o di analisi, di fascinoso e divertito voyeurismo o di mercificazione turistica ma in ogni caso «lo sciogliersi nel bagno della ragione non scioglierà la loro pertinenza sociale» (Descola: 286).
Dialoghi Mediterranei, n.18, marzo 2016
Riferimenti bibliografici
P. Descola, Oltre natura e cultura, SEID, Firenze, 2014.
A. Di Giovanni, Dolore e valore. Un problema di «senso», in Il dolore, pratiche e segni, a cura di G. D’Agostino e Janne Vibaek, Quaderni del Circolo Semiologico Siciliano, 32-34, Palermo, 1989: 261-268.
S. D’Onofrio, Dono e pensiero simbolico, in “Archivio Antropologico Mediterraneo”, anno VIII / IX, n. 8/9, 2007: 39-45.
R. Girard, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano, 2014.
* Dialoghi Mediterranei ringrazia l’Archivio Giuseppe Modica per la concessione delle immagini.
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Valeria Dell’Orzo, giovane laureata in Beni Demoetnoantropologici e in Antropologia culturale e Etnologia presso l’Università degli Studi di Palermo, ha indirizzato le sue ricerche all’osservazione e allo studio delle società contemporanee e, in particolare, del fenomeno delle migrazioni e delle diaspore, senza mai perdere di vista l’intersecarsi dei piani sincronici e diacronici nell’analisi dei fatti sociali e culturali e nella ricognizione delle dinamiche urbane.
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