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Castellammare: da porto mercantile a città di loisir

Fig. 1 Castellammare, inizi Settecento, Cassiano da Silva (Amirante Pessolano, 2005).

Castellammare, inizi Settecento, Cassiano da Silva (Amirante Pessolano, 2005).

di Maria Sirago

Introduzione

La città, fiorente per le sue attività commerciali, nel 1420 aveva ricevuto alcuni privilegi, al termine della guerra tra Durazzeschi ed Angioini, quando la regina Giovanna aveva voluto ricompensare gli stabiesi per il loro appoggio. Il privilegio più importante era quello del regio demanio, disatteso nel 1437, quando la città fu venduta per problemi finanziari. Ma Alfonso d’Aragona dopo la conquista del regno aveva riconfermato il privilegio del regio demanio insieme a quello dell’esenzione delle tasse per merci acquistate in proprio e per i capitani delle navi che trasportavano merci per conto dei cittadini (Martucci, 1786; Vanacore, 2014: 198-203).

La città col su attivo porto, inserita nel circuito commerciale della Corona d’Aragona (Sirago, 2020), in breve divenne un fiorente centro commerciale, in cui operavano molti mercanti, che usavano lo scalo come sosta per approvvigionarsi prima di partire per l’Oriente (Schiappoli, 1972: 66). Qui i re aragonesi facevano costruire grosse galere per la flotta, usate anche per il commercio, come quella varata nel 1458 chiamata Castellammare e quelle armate costruite nel 1465 per ordine di re Ferrante per difendere la penisola sorrentina dalle incursioni nemiche (Schiappoli, 1972: 28-29; Castellano, 1996: 178-179).  

Il viceregno spagnolo (1503-1707) e austriaco (1707-1734)

Dopo la conquista di Ferdinando il Cattolico (1503), il Mezzogiorno divenne l’antemurale per la difesa dei domini spagnoli attaccati dai corsari turchi e barbareschi (Mafrici, 1995, 2003). Il porto di Castellammare divenne di vitale importanza per la difesa della Capitale e per il trasporto di derrate agricole dell’agro nocerino-sarnese per l’approvvigionamento annonario napoletano. Qui si costruivano numerose imbarcazioni, necessarie per la marina mercantile (Vanacore, 1981).

Data l’importanza strategica della città il re confermò il privilegio della demanialità ma sottolineò che essa aveva un notevole valore, visto che dalla sola dogana si stimavano 2200 ducati di introito. Nel 1517 la regina Giovanna confermò i privilegi e dette il permesso di imporre una colletta per raccogliere 1000 ducati per riparare le mura e il porto (Vanacore, 2014: 203-204).  Ma alla fine vinse la ragion di stato per cui nel 1529 la città fu concessa al conte Filippino Doria (Martucci, 1786: 128-132). La concessione era un atto dovuto nei confronti dell’ammiraglio, nipote di Andrea Doria. L’anno precedente, mentre il conte di Lautrec, Odet de Foix, assediava con l’esercito francese la capitale partenopea, Filippino Doria aveva sbaragliato la flotta napoletana nella battaglia di Capo d’Orso dove era morto il viceré Ugo de Moncada. Furono presi molti illustri prigionieri mandati a Genova da Andrea Doria: tra questi vi era Alfonso d’Avalos, marchese di Pescara, che usò i suoi buoni uffici per far aderire l’ammiraglio al partito imperiale. Questi firmò un contratto per allestire 12 galere da utilizzare nella flotta spagnola, ottenendo la città di Melfi con il titolo di principe (Sirago, 2018a) mentre Castellammare fu concessa al nipote (Martucci, 1786: 132).

In una relazione conservata nell’Archivio General di Simancas, scritta nel 1530, probabilmente dopo la morte del feudatario Filippino Doria (Cavanna Ciappina, 1992), trascritta da Nino Cortese si descriveva il «buen puerto … y su molle de piedra», guardato da un castello posto in alto. La città aveva anche un «bosque apte para fazer navios» (un bosco adatto a ricavare legname per la costruzione dei navigli) e per costruire botti da vino inviate in tutto il regno (Cortese, 1929:.62-66).

La città era una delle più importanti del regno per cui Carlo V il 18 luglio 1541 la concesse ad Ottavio Farnese, duca di Parma e Piacenza, per 50.000 ducati, anche se valeva il doppio. La concessione fu fatta per implementare la dote della figlia Margherita d’Austria che aveva sposato il duca a Roma il 4 novembre 1538. Ai Farnese furono concessi 2000 ducati annuii sulla regia Dogana in burgensatico (bene personale) commutati dopo il 1593 sui proventi di quelli della Capitale, e i diritti feudali di prime e seconde cause, dei pesi e misure, la tonnara (Sirago, 2018b), e l’“officio della mercatura” (Vanacore, 2002). Nel 1572 la città acquistò per 8000 ducati la Gabella del reale, che comprendeva le rendite delle gabelle dei pesci, del falangaggio (diritto di approdo con le falanghe o bitte, il cui introito era utilizzato per le riparazioni portuali) (Sirago, 2014), delle botteghe dei commestibili, delle taverne, della vendita del vino e della dogana della porta di Scanzano. Il nome di tale gabella derivava dal fatto che in epoca angioina era posseduta dalla corona, poi era stata venduta a privati (Vanacore, 2014: 54ss. e 206- 209). Anche se gli stabiesi erano soggetti al pagamento delle gabelle avevano delle esenzioni fiscali come quelle godute dai cittadini napoletani per i privilegi concessi dai sovrani aragonesi e riconfermati da Carlo V (Martucci, 1786), il che permise un incremento dei commerci.

Per le sue molteplici attività mercantili la città era stata dotata di una Dogana con numerosi ufficiali il cui elevato stipendio mostra il loro carico di lavoro. La Dogana fino al 1594 fu alle dipendenze del Mastro Portolano di Terra di Lavoro che risiedeva a Napoli, poi di quello di Principato Citra che risiedeva a Salerno. Vi era anche la dogana del sale alle dipendenze di quella napoletana con un “fondachiero” (Sirago, 2021a). Nella relazione del 1531 trascritta da Nino Cortese (1929) si calcolava che la dogana del sale e la “dogana gande” potevano valere tra i 2000 e i 4000 ducati annui: la città possedeva le dogane e i fondaci, donati allo Stato in cambio dell’esenzione dei pagamenti fiscali ordinari. Nell’apprezzo del 1636 trascritto da Catello Vanacore si specificava che la Regia Dohana [era] «grancio (direttamente dipendente) della Regia Dohana et magior fundico della città di Napoli», la più importante dopo quella di Napoli. Vi era anche la «regia Dohana del sale, grancio della Regia Dohana del sale di Napoli» (Vanacore, 2002: 15ss.).

 La città nel 1554, secondo i dati del catasto (Vanacore, 2014), contava 599 fuochi (circa 3000 abitanti) tra cui 32 “industrianti” e 5 mercanti, un orefice, un tessitore di raso, un setaiolo, specchio di una società fiorente, a cui si aggiungevano numerosi bottari e altri artigiani. Anche la popolazione marinara era numerosa: vi erano 13 “padroni di barca”, 60 marinai e 30 pescatori, un marinaio pescatore, 3 “padroni di reti”, due marinai “di rezza” (che usavano le reti), un “salatore e rivenditore di pesci”, che possedeva una barca da pesca. Vi erano anche sette mastri d’ascia dediti alla costruzione delle imbarcazioni. Infine erano registrate una “fregata armata” e 3 barche e numerosi carati di imbarcazioni (circa 12), possedute da diversi proprietari (una di un “potecaro”, o bottegaio), di cui alcune usate per la pesca, dotate di reti particolari come i “tartanoni”.

A fine Cinquecento nella città di Castellammare, «spesso vi applica[va]no (approdavano) nave et vascelli, con Mercantie per comodità del porto, et sperone», da cui il regio arrendatore percepiva molti diritti per cui si decise di riparare il molo «per beneficio della regia Dohana» (Siago, 2021a). L’approdo, scelto in alternativa allo scalo napoletano, venne riorganizzato secondo il progetto dell’architetto Domenico Fontana. Difatti il molo «fu accresciuto perché le navi scariche andassero a stare in quel porto nel tempo d’inverno» (Castanò, 2008: 105), più sicuro di quello della capitale, dove lo stesso Fontana aveva progettato un rifacimento, non effettuato per il notevole costo (Pessolano, 1983:.81ss.). In quel periodo gli armatori ragusei, che avevano stipulato un contratto con la monarchia spagnola per costruire i galeoni da aggregare all’Armata dell’Oceano, specificavano che le costruzioni sarebbero state effettuate nello “scaro” (porto) di Castellammare, unico adatto, per il suo profondo pescaggio ((Sirago, 2018°: 204ss. e 2022c).

Fig. 2 Modello di galeone spagnolo, 1540

Modello di galeone spagnolo, 1540

Nel corso del Seicento la situazione economica e politica del Mezzogiorno divenne critica, specie dopo il 1618, in seguito allo scoppio della Guerra dei trent’anni, e alla grave crisi economica che si generò. Ma Castellammare era ancora una città fiorente, come si evince dall’apprezzo del 1636 redatto dal Tavolario Orazio Conca (una sorta di indagine patrimoniale) trascritto da Catello Vanacore L’apprezzo fu redatto in un momento di crisi, quando il feudo fu sequestrato al duca di Parma e Piacenza Odoardo Farnese, figlio di Ranuccio. Proprio nell’ultima fase della Guerra dei trent’anni il Farnese aveva mostrato un atteggiamento ostile alla monarchia asburgica, aderendo alla lega antispagnola e alleandosi con la Francia e col duca di Savoia. Perciò il conte duca Olivares nel 1635 sequestrò tutti i beni farnesiani apprezzati dai tavolari. Poi nel 1637, firmata la pace con la Spagna, i beni vennero restituiti (Sirago, 2021a).

La città contava 2000 fuochi o famiglie, circa 10.000 abitanti, ma non si conosceva il numero esatto, poiché era esente da ogni pagamento fiscale. Era una ampia città «con marina et bellissimo porto», valutata 105.680 ducati, una somma considerevole dati i numerosi cespiti posseduti dalla famiglia Farnese. Dalla parte della montagna era circondata da fitti boschi «con castagne, cerque (querce) et selvaggi, nelli quali si fà[ceva] molta quantità di legnami [per costruire] vascelli grandi, barche, et fusti (botti) per riporre il vino che [commerciavano] per Regno et extra Regno». Vi erano molte famiglie nobili, numerosi «mercanti artisti et negotianti industriosi», molti contadini ma anche numerosi marinai e pescatori. Vi erano 20 «mastri d’ascia di mare (falegnami) et calefati che fabbrica[va]no vascelli, nave, galeoni, varche grandi et feluche».  I cittadini possedevano 20 barche utilizzate per trasportare a Napoli grano macinato, legname e carbone e 10 barche grandi per trasportare la calce a Napoli e in altri luoghi. Vi erano poi 12 “feluche sottili” per il trasporto dei passeggeri e 12 vascelli grandi che commerciavano sia in regno che all’estero; i pescatori avevano 30 barche e tartane da pesca, tutte ormeggiate al porto, capace di accogliere anche molti vascelli stranieri che caricavano e scaricavano molte merci. In città vi erano anche quattro scuole elementari e due collegi gesuitici, tutti gratuiti, che permettevano ai cittadini di raggiungere un buon livello di alfabetizzazione (Vanacore, 2002: 15ss.).

Una delle attività lavorative più impegnative era quella della costruzione delle imbarcazioni. I mastri d’ascia di mare stabiesi avevano perfezionato la costruzione delle tartane, imbarcazioni che derivavano dalle antiche taride medievali, lunghe circa 15 metri e larghe 2,5 metri, della portata di circa 300 tonnellate, più grandi delle comuni tartane (ad un albero), dette anche “tartanoni”, con un albero di maestra e uno di mezzana, fornito di 10-12 remi, con 8-10 elementi di equipaggio: sulla poppa, riccamente adornata, vi era intagliata spesso la Madonna di Portosalvo. Poiché il costo di una imbarcazione era elevato, circa 2500 ducati, questo veniva diviso in più persone, dette “caratari” o “partiari” che firmavano un contratto notarile, creando una “Societas navigij”. Il ricco ceto armatoriale stabiese, insieme ai marinai e pescatori, nel 1580 aveva creato una confraternita nella Chiesa della S.S. Annunziata al Molo o Santa Maria, la “Confraternita dei Marinai, Pescatori e Padroni di Barche”, simile alle società di mutuo soccorso, che aveva reperito i fondi grazie ad una tassa imposta su ogni nave che attraccava nel porto e veniva sostenuta dalla somma mensile erogata dai congregati beneficiari assieme ai familiari (Vanacore, 2007; Sirago, 2022a).

Fig. 3 Tartana di Castellammare

Tartana di Castellammare

Dopo la conquista del viceregno (1707) gli austriaci decisero di riorganizzare il commercio dando impulso alla ricostruzione della marina mercantile che doveva essere in grado di commerciare come quella degli inglesi e degli olandesi. Doveva essere anche ricostruita la flotta, necessaria per la difesa delle coste e dei convogli mercantili che trasportavano derrate alimentari dalle Puglie e dalla Sicilia (Sirago, 2016).

Firmato il trattato di Passarowitz (1717), l’imperatore Carlo V cominciò a dare vita al suo “sogno mediterraneo”, in cui si inseriva anche il Meridione. Nel 1718 fu stipulato il trattato di commercio con la porta ottomana per ampliare l’area mercantile dell’Impero asburgico. Nel 1719 fu dato lo status di porto franco a Trieste e Fiume e nel 1728 a quello di Messina, il che diede una svolta alla politica mercantilistica viennese, volta ad un concreto sviluppo economico e commerciale. Invece la proposta di creare un porto franco a Pozzuoli non si concretizzò per la fiera opposizione di Napoli. Nel viceregno meridionale, che rientrava in questo disegno, fu deciso di migliorare la funzionalità dei porti, soprattutto quello della capitale, dove si prevedeva di allungare il molo; ma la spesa prevista era troppo elevata, per cui si provvide ad effettuare solo riparazioni ordinarie (Sirago, 2016). Invece per Castellammare fu progettato un prolungamento del molo.

La città nel 1715 aveva presentato al viceré una richiesta di riparazione del porto a cui doveva contribuire la Regia Corte come era stato fatto in passato. L’anno dopo il molo fu prolungato di 28 metri e nel 1727 di altri 26 metri. Ma per reperire i fondi necessari, circa 8000 ducati, la città impose nel 1718 una tassa sul diritto di entrata delle navi (5 ducati per ogni nave sia regnicola che straniera, 30 carlini per ogni tartana o barca da trasporto, anche della calce, 20 per ogni pinco anche a una sola vela). Ma dopo l’inizio dei lavori il bancone di brecciato che si stava costruendo fu distrutto da una tempesta. Perciò i cittadini ricorsero alla Regia Corte per ottenere una sovvenzione, chiedendo che le spese fossero ripartite anche con le vicine città di Vico, Piano e Sorrento, che beneficiavano dello scalo stabiese. Il progetto fu affidato nel 1726 all’ingegnere regio Giovan Battista Nauclerio che insieme a Pietro Vinaccia fece una ricognizione: furono rilevate due fasi di costruzione del braccio di molo di epoca secentesca ed una risalente al 1715 per una sporgenza totale della linea di costa di 258 metri. In totale fino al 1731 si spesero 16.081 ducati ma il porto fu messo in sicurezza (Castanò, 2008).

Lo scalo mantenne la sua fisionomia di porto attrezzato e fortificato, necessario per i traffici sia dei prodotti della zona, pasta lavorata, vino, legname, calce lavorata nelle montagne, noci e nocelle, sia per quelli esteri, regolati dallo stesso sistema doganale in vigore durante il periodo della dominazione spagnola. Data l’accresciuta importanza della città venne realizzato anche un programma delle difese costiere da Napoli a Castellammare, nel cui territorio, secondo le nuove tecniche difensive proposte dal marchese di Villeena, Juan Manuel Fernàndez Pacheco, furono realizzati i forti di Rovigliano (su una roccaforte cinquecentesca) e quello di Pozzano, sul lato costiero verso Sorrento (Castanò, 2008).

Fig. 4 Porto e molo di Castellammare, 1715 (Castanò, 2008, p.107)

Porto e molo di Castellammare, 1715 (Castanò, 2008: 107)

Nel 1727 Carlo VI fece fare una inchiesta sulla marina mercantile esistente nei distretti di Gaeta e Salerno, in cui si contavano 5967 padroni di barche e marinai e 843 imbarcazioni. Nei soli casali di Napoli si contavano 1437 padroni di barche e marinai e 179 imbarcazioni; ma 1000 marinai di Torre del Greco, dove si contavano 125 feluche coralline, erano addetti alla pesca specializzata del corallo. A Castellammare si contavano 25 padroni di tartane (la tipologia in uso nei secoli precedenti) e 287 marinai, 7 padroni di “feluche di traffico” e 67 marinai, 30 padroni di barche da pesca e 150 pescatori, una attività fiorente, praticata anche con la tonnara, in uso per tutto il Settecento. Numerosi padroni di tartane con marinai e padroni di “feluche di traffico” con marinai si registravano a Vico Equense, Piano e Meta, Sorrento e Ischia. Alcuni padroni di gozzi con marinai si contavano a Vico ed Ischia. A Vico, Piano e Sorrento si contavano 15 pinchi (imbarcazioni di grossa stazza) con marinai e a Piano erano registrate 4 navi con marinai Oltre quelle di Castellammare si contavano barche da pesca e pescatori nell’isola di Ischia (dove si calavano due tonnare) e pescatori a Sorrento e Massa (dove si calavano le tonnare). Si delineava così la fisionomia delle città marinare del golfo napoletano, in cui il porto Castellammare continuava ad essere il polo principale delle attività commerciali, dopo quello della Capitale, mentre a Piano e Meta si sviluppava una attività cantieristica specializzata, volta alla costruzione di imbarcazioni di grossa stazza, pinchi e polacche (Di Vittorio, 1973; Passaro, 2019a e b; Sirago, 2021a).

L’età borbonica. Il regno di Carlo (1734-1759)

Quando Carlo di Borbone conquistò il regno meridionale, nel 1734, i ministri che attorniavano il giovane sovrano, in primis Bernardo Tanucci, decisero di utilizzare le dottrine mercantilistiche già sperimentate in epoca austriaca. Il regno, riacquistata la sua autonomia, fu oggetto di attente cure, soprattutto nell’ambito del commercio, rimasto fino ad allora per gran parte in mano degli stranieri. Nel 1735 fu creata una Giunta di Commercio su modello di quella austriaca, sostituita nel 1739 dal “Supremo Magistrato di Commercio”, che dirimeva le varie questioni nelle “Conferenze di commercio”; tale organo decideva in merito alle cause commerciali e marittime discusse nei “Consolati di terra e di mare” posti nei principali porti del regno, tra cui quello di Castellammare, dove convivevano gli usi militari e civili. Venne creata una Segreteria di Guerra e Marina che doveva vigilare sulle forze marittime e sul loro accrescimento, sulla funzionalità dei porti e sul potenziamento di quelli più importanti, sullo sviluppo della marina mercantile, sull’istruzione nautica. Fu riorganizzata anche la rete infrastrutturale costiera, lungo la quale dal 1742 vennero risistemate le strutture fortificate come quelle di Rovigliano e Pozzano, nel territorio del porto stabiese (Sirago, 2004: 33ss.).

Per rendere più sicuro il commercio in Levante, dove si verificavano continui assalti da parte dei corsari barbareschi, nel 1740 fu stipulato un trattato di commercio con la Porta Ottomana e poco dopo venne nominato ambasciatore Guglielmo Maurizio Ludolf, che si trasferì a Costantinopoli. Il trattato fu poi la base di quello firmato nel 1741 tra Napoli e la Reggenza di Tripoli, un centro molto attivo, anche se di livello inferiore a Costantinopoli. Sulla scia dei    precedenti trattati ne furono stipulati altri con alcune nazioni nordeuropee, nel 1742 con la Svezia, nel 1748 con la Danimarca e nel 1753 con l’Olanda. Il commercio col Mar del Nord era di vitale importanza perché da lì proveniva il pesce salato (stock fish, stoccafisso), necessario per i periodi di magro prescritti dal calendario liturgico per l’approvvigionamento della Capitale (circa 40.000 cantara annui verso il 1765). Altri generi per la costruzione della flotta provenivano dalla Svezia e dalla Russia (Riga) legname del Nord, usato per gli alberi maestri dei nuovi vascelli (invece di quelli di Calabria, meno affidabili e quasi esauriti), cannoni di bronzo, ecc. (Sirago, 2019).

Uno dei primi obiettivi per incrementare i commerci fu quello di risistemare i principali porti del regno. Fu creata una “Soprintendenza dei Porti e Moli del regno” che doveva redigere i progetti per i porti la cui esecuzione fu affidata ad apposite “Giunte” controllate dalla Segreteria di Guerra e Marina, sotto la supervisione dell’ingegnere Giovanni Bompiede, capitano del porto della Capitale, e del comandante della flotta, Michele Reggio. I lavori iniziarono nel porto di Napoli a partire dal 1739. Poi furono ristrutturati i porti pugliesi e i principali porti siciliani (Sirago, 2004). Nel 1754 fu progettata la sistemazione del molo di Castellammare, sotto la supervisione dell’ingegnere Bompiede e del generale Reggio, che affidarono al tavolario Porzio l’incarico di redigere una relazione sui lavori da fare e all’ingegnere Laurenti la supervisione delle opere da eseguire, controllate dalla Giunta del porto (Sirago, 2021a).

Fin dai primi anni di governo fu ricostruita la flotta, necessaria per la difesa delle coste e per quella dei convogli mercantili, e nel 1735 fu creata l’Accademia di Marina per l’istruzione degli ufficiali. Per contrastare gli assalti nemici furono armate anche due grandi galeotte, imbarcazioni ad un albero con tre cannoni, e alcune petriere: lo Stato aveva anche promesso sussidi per coloro che avessero armato simili imbarcazioni, invito raccolto solo nel 1749 da alcuni commercianti di Napoli e Castellammare (Sirago, 2019).

Nella generale riorganizzazione del Regno indipendente particolare attenzione fu data alla ricostruzione della marina mercantile, necessaria in primo luogo per i rifornimenti annonari (soprattutto grano e olio) provenienti in massima parte dalla Puglia, su navi sorrentine, a cui si aggiungevano i prodotti siciliani, soprattutto il sale. All’inizio del dominio borbonico si contavano poche imbarcazioni mercantili e il commercio estero, come in passato, dipendeva da mercanti stranieri, soprattutto genovesi e francesi per i prodotti provenienti dal Mediterraneo, olandesi, danesi e inglesi per quelli provenienti dall’Atlantico e dal Baltico La mancanza di una flotta adeguata causava frequenti assalti ai bastimenti mercantili napoletani anche dopo la stipula del trattato di pace con la Porta Ottomana e con Tunisi. Nel 1741 fu emanata una prima “prammatica” in cui si prescriveva che le imbarcazioni dovevano ottenere un permesso, da rinnovare ogni due anni, per i viaggi che intendevano intraprendere. L’anno seguente fu emanato un Regolamento, rinnovato nel 1751, 1757 e 1759, e fu creato un comitato che doveva controllare l’operato dei capitani, obbligati a loro volta a redigere un giornale di bordo. Nel 1751 fu creata una «Compagnia di assicurazioni marittime» per regolamentare il commercio (Passaro, 2019a e b). Vennero concesse franchigie per la costruzione di navi mercantili, il che dette i suoi frutti: tra il 1752 ed il 1762 si costruirono 444 imbarcazioni, soprattutto feluche, tartane e grosse polacche, 69 a Castellammare, 129 a Piano (Cassano) e Meta (Alimuri), nel territorio di Sorrento, di grossa stazza, e 233, più piccole nell’isola di Procida (Sirago, 2004 33ss).

Anche Castellammare beneficiò di questo nuovo corso: entrata a far parte dei beni allodiali o personali di Carlo (che aveva ereditato i beni farnesiani dalla madre Elisabetta) fu oggetto di attente cure da parte del sovrano, che conosceva bene l’importanza del porto stabiese. In città vi erano molti mercanti ed imprenditori ma non si registravano molti armatori, come nella penisola sorrentina Gli abitanti erano dediti al commercio, alla navigazione e soprattutto alla costruzione di imbarcazioni di grossa stazza (tra i 3500 e 5000 tomoli, di solito tartane e marticane ma anche pinchi, costruiti sia per gli stabiesi che per armatori di Napoli, Procida, della costa sorrentina e amalfitana e per quelli siciliani (Sirago, 2021d). Nel catasto onciario redatto nel 1753 su 1730 fuochi o famiglie (circa 10.000 abitanti) si contavano 4 padroni di barche che possedevano 5 gozzi (imbarcazioni da trasporto usate anche per la pesca), 372 marinai e 139 pescatori, che ancora usavano la tonnara, bene allodiale o personale dei Borbone (Sirago, 2021a)

Grazie alla nuova legislazione borbonica a metà Settecento la marina mercantile napoletana era stata incrementata ed era in grado provvedere al rifornimento annonario della Capitale. Poi cominciò ad inserirsi in un circuito più ampio, specie dopo lo scoppio della «Guerra dei Sette Anni» (1757-1763), quando iniziò ad essere organizzato il commercio con le Americhe. Il mercante e armatore messinese Gaspare Marchetti, che risiedeva a Londra, aveva costituito una società con alcuni mercanti, tra cui il leccese Lucio La Marra ed alcuni commercianti napoletani, Nicola Palomba e Gennaro Rossi, interessati al «commercio con l’Oceano». Il Marchetti aveva acquistato una nave, La Concezione, che nel 1756 aveva caricato merci alla fiera di Salerno da spedire a Londra. La fiera, istituita nel 1259 da re Manfredi, la più importante del regno meridionale, si svolgeva a Salerno in settembre ed era molto frequentata anche dagli inglesi, che acquistavano i prodotti meridionali (in primis l’uva passa prodotta in Calabria). Il mercante aveva potuto approfittare del momentaneo blocco del commercio inglese per cui dopo un primo carico aveva ordinato al La Marra di far costruire a Castellammare, unico porto idoneo, alcune navi da 20 o 22 cannoni per le quali aveva ricevuto le franchigie prescritte, tra cui l’acquisto di cannoni e polvere al prezzo pagato dalla regia marina. In breve furono costruite alcune navi, Principe Reale, Principessa Reale, Partenope, Regina Maria Amalia (di 900 tomoli, 360 ton.), armate dei necessari cannoni acquistati dai mercanti Palomba e Rossi. Così iniziò un proficuo commercio con base a Londra con la Martinica francese. Nei dati reperiti nell’Archivio di Stato si cita solo la costruzione di una nave con legname avanzato dalla costruzione di una nave per conto di Lucio La Marra. Ma tali costruzioni, citate in altre fonti, dovevano avere permessi particolari proprio perché armate di cannoni e destinate al commercio oceanico (Passaro, 2019a; Sirago, 2019).

Il ministro Tanucci aveva osservato con soddisfazione l’inizio di questo commercio, che però a suo parere doveva essere incrementato. In una lettera scritta da Pisa al ministro Ludolf del 20 aprile 1757 ribadiva che era necessario ampliare la  rete dei lazzaretti per rendere sicuro il commercio col Levante, notando che «con un poco di forza marittima, che va formandosi, e con  un poco di perfezione, che va acquistandosi nelle fabbriche delle sete, ci vedremo più vicini alla speranza del commercio orientale». Ma concludeva con rammarico «Sarebbe stata questa guerra tra Francia e Inghilterra [la Guerra dei Sette Anni] una buona occasione, se fossimo stati più preparati». Difatti erano pochi i commercianti    intraprendenti come il Marchetti ad aver osato solcare gli Oceani, dove vi era il pericolo  del sequestro delle navi da parte degli inglesi (Sirago, 2019).

La regina Carolina e il ministro Tanucci

La regina Carolina e il ministro Tanucci

Ma un nuovo corso si apriva per il regno meridionale: il 6 ottobre 1758 Carlo di Borbone, divenuto re di Spagna, cedette al terzogenito Ferdinando gli «Stati e Dominj italiani» (regni di Napoli e Sicilia, Stato dei Presidi di Toscana, beni allodiali, o personali, farnesiani e medicei) dove aveva regnato per 25 anni istituendo un Consiglio di Reggenza per amministrare i regni durante la minore età del giovane re, designando come Presidente della Reggenza il fedele segretario di Stato, Bernardo Tanucci, che da quel momento cominciò a scrivere una missiva settimanale a Carlo per informarlo delle questioni di governo, ufficio che continuò ad esercitare anche dopo la sua destituzione  (1776), fino alla sua morte (Sirago, 2019).

La reggenza Tanucci (1759-17567)

Il ministro Tanucci fin dall’inizio della Reggenza dové affrontare un difficile periodo di transizione attenendosi a tutte le indicazioni sulla politica estera che Carlo inviava settimanalmente nella sua corrispondenza ed inviando a sua volta sia al re che ai ministri della corte madrilena tutte le informazioni sul Regno. Egli enunciò un programma politico volto a mantenere il sistema di Carlo senza suscitare la suscettibilità degli altri componenti del Consiglio. Uno dei primi problemi era l’inquietudine suscitata dalla guerra tra Francia e Inghilterra, in cui furono coinvolte le principali potenze dell’epoca, che creava difficoltà    per il commercio, già ostacolato dagli assalti barbareschi (Mafrici, 2007), terminata nel 1763. Il ministro aveva la piena consapevolezza della crisi attraversata dal Regno governato da un «re pupillo», sia pure sotto la supervisione della Spagna. Perciò manifestava tutta la sua preoccupazione nell’ambito della difesa, affidata ad una marina poco funzionale, malgrado tutti i ducati spesi negli anni precedenti. La marina era necessaria per lo sviluppo del commercio ma mancavano i fondi per le costruzioni (Sirago, 2019: 513ss.).

Alla fine della guerra dei sette anni molti padroni cominciarono a vendere le loro imbarcazioni a «forestieri amici», ottenendo il permesso dalla Corte, sempre che pagassero i diritti di esenzione ottenuti al tempo della costruzione delle loro imbarcazioni: il 3 febbraio 1763  fu concesso ad Antonio Longobardo di Castellammare di poter vendere la sua nave; stessa concessione fu data il 19 maggio a Michele di Costanzo, anche «fuori dei domini       del re» ed il 25 settembre a Nicola de Turris di Castellammare fu concesso di vendere  la sua polacca fuori del regno; il 29 dicembre fu concesso ad Antonio Maria Lauro di poter vendere due suoi pinchi «a nazionali o forestieri di nazioni amiche»; il 13 giugno 1765, fu permesso a Pietro Cafiero di Piano di poter vendere un suo bastimento ed il 10 aprile 1766 ad Antonio Cafiero di poter vendere la sua tartana. Questa tendenza può essere attribuita alla consapevolezza che senza lo stato di guerra erano di nuovo in auge  le navi straniere. Ma si può anche supporre che i padroni di imbarcazioni costruite in Regno, specie a Castellammare e nella costa sorrentina, avendo raggiunto una particolare abilità costruttiva, riuscivano a trovare una clientela tra i padroni «forestieri». Perciò incrementavano le costruzioni utilizzando le franchigie previste dalla vigente legislazione per poi rivendere    le imbarcazioni, entrando in un redditizio ciclo produttivo. Gli stessi mercanti Palomba e  Rossi avevano diversificato il loro commercio, esportando «seta e lana in matassa» (10.000 libbre il Palomba e 7.000 il Rossi) ed avevano venduto una loro polacca a Livorno. Durante la Reggenza continuò il lavoro di ripristino dei principali porti iniziato in epoca carolina e dei lazzaretti, necessari per lo «spurgo» delle merci provenienti dal Levante, dove la peste era endemica, specie quelli di Messina e Brindisi, unici porti in cui era possibile far entrare le armate, e quello napoletano posto nell’isoletta di Nisida, dove approdavano le navi provenienti dal Levante che poi dovevano scaricare le merci nel porto della Capitale. Poi, data l’incertezza della situazione politica e il timore di un assalto al Regno e soprattutto alla sua Capitale, che poteva essere bombardata se non si fossero prese le dovute precauzioni, nel 1766 furono revisionate le batterie poste in tutto    il Golfo napoletano e l’artiglieria che vi era stata montata (Sirago, 2019). 

Fig. 5 Il cantiere di Castellammare, particolare in Philipp Hackert, varo del vascello Partenope, www.liberoricercatore.it

Il cantiere di Castellammare, particolare in Philipp Hackert, varo del vascello Partenope, www.liberoricercatore.it

Il regno di Ferdinando

Raggiunta la maggiore età, il 12 gennaio 1767, al compimento del sedicesimo anno, il re    iniziò il suo governo, sia pure coadiuvato dai ministri della abolita Reggenza. Dapprima Tanucci dichiarò di voler rallentare la sua attività, per la cattiva salute. Poi accettò di restare al fianco del giovane re, anche perché i problemi degli anni precedenti, sia le contese per l’accessione al Patto di Famiglia che le cause per i grani acquistati a Trieste e Marsiglia durante la carestia del 1764, non erano stati risolti (Sirago,2019).

 Uno dei primi atti del governo fu quello di espellere nel novembre del 1767 i Gesuiti sulla scia di quanto fatto dalla monarchia spagnola. Tra i beni sequestrati ai gesuiti vi erano i collegi in Napoli e nei capoluoghi delle province, riaperti secondo la normativa prevista da Antonio Genovesi, perfezionata dopo la sua morte da Giacinto Dragonetti. Tra le “scuole per il lavoro” nel 1770 furono istituiti i collegi nautici per pilotini di San Giuseppiello a Chiaia, in Napoli, e di Meta e Carotto nella penisola sorrentina, volti a riorganizzare l’istruzione nautica. Nello stesso periodo fu riorganizzata l’Accademia di Marina fondata nel 1734 e furono incrementati gli studi nautici e astronomici sia nell’Accademia che nei collegi per i pilotini (Sirago, 2022b).

In quegli anni il ministro Tanucci si adoperava per risolvere il problema più urgente, quello di garantire la difesa della Capitale e del suo Golfo, provvedendo all’armamento delle piazze marittime e delle batterie con numerosi cannoni acquistati in Svezia.  Nella sua missiva settimanale a Carlo del 26 marzo 1776 notava che la difesa del litorale, per la quale erano stati spesi con la cassa allodiale 30.000 ducati per le costruzioni e 40.000 per l’artiglieria venuta sia dalla Svezia che da Trieste, era completata, anche se ormai non sembrava così necessaria, visto che i venti di guerra  si erano placati. Nello stesso tempo faceva continuare il lavoro di ripristino dei principali porti iniziato in epoca carolina, riorganizzando i lazzaretti, necessari per lo «spurgo» delle merci provenienti dal Levante, dove la peste era endemica, specie quelli di Brindisi e Messina. Furono perciò dati ordini per il ripristino dei lazzaretti di Messina e Brindisi, unici porti in cui era possibile far entrare le armate. La maggiore attenzione fu data a lazzaretto di Nisida, dove approdavano le navi provenienti dal Levante che poi dovevano scaricare le merci nel porto della Capitale (Tanucci, 2019)

Ma tutti i suoi sforzi furono vanificati dopo il matrimonio del re con Maria Carolina, figlia di Maria Teresa d’Austria, celebrato per procura il 7 aprile 1768, con il quale si creavano nuovi equilibri politici. La regina fin dal suo arrivo aveva mostrato la sua intenzione di inserirsi negli affari di governo, anche se secondo i capitoli matrimoniali la sua partecipazione doveva diventare ufficiale non appena avesse partorito il primo figlio maschio. Ella si diede da fare per estromettere il vecchio ministro, sempre in contatto con Carlo, che a fine ottobre 1776 fu bruscamente messo in pensione e sostituito con il marchese della Sambuca, Giuseppe Beccadelli Bologna. Da quel momento la regina Maria Carolina prese saldamente le redini del governo (Tanucci, 2019).

Nel «nuovo sistema» inaugurato dopo la caduta di Tanucci – sottolinea Raffaele Ajello – uno dei punti chiave era quello di «conquistare il ‘corazón’ della regina … primo impulso per carriere molto rapide», come quella dell’ammiraglio John Acton. di origini franco-scozzesi. Egli era un valente uomo di mare, nominato nel 1776 generale maggiore della marina toscana. Nel 1778 la regina chiese al fratello Pietro Leopoldo, granduca di Toscana, di farlo venire a Napoli per riorganizzare il comparto marittimo, in primis la flotta, necessaria per proteggere le navi mercantili dagli assalti dei corsari barbareschi. L’ufficiale, giunto a Napoli nell’agosto del 1778, fu nominato Segretario del Dipartimento della Marina e Direttore supremo delle regie fabbriche navali con uno stipendio di 14.700 ducati annui, aumentati due mesi dopo a 17.000. La nomina era ad interim per non irritare Francia ed Inghilterra; ma pochi mesi dopo la regina lo invitò a rimanere in regno, per cui Acton si dimise dalle cariche toscane accettando l’impiego non più interino Ajello (1991:432ss. 3: 448ss.). Il 14 aprile 1779 fu nominato tenente generale e gli furono affidate la Segreteria di Stato e la direzione della Real Marina, a cui si aggiunsero il 4 giugno 1780 la Segreteria di Guerra e nel 1782 la Segreteria di Azienda e di Commercio. Visto lo stato di crisi del comparto marittimo nel 1782 Acton promosse una generale riforma, in modo da poter riorganizzare tutti i settori, dando particolare attenzione all’istruzione nautica. Lo stesso anno vennero riorganizzate anche le finanze e per rimettere ordine ai bilanci, perennemente in deficit per le enormi spese effettuate dai regnanti, f«u costituito il Supremo Consiglio delle Finanze», in cui il consigliere Ferdinando Galiani fu nominato assessore per tutti i rami del commercio (Ajello, 1991:449; Ciccolella, 2015: 233).

Il piano di Acton per la marina era volto soprattutto al ripristino della flotta per la quale dovevano essere costruiti dei vascelli a 74 cannoni su modello di quelli francesi e inglesi. Fino ai primi anni Ottanta Ferdinando doveva chiedere al padre delle fregate per la difesa del regno e doveva mandare in Spagna le proprie fregate per farle riparare. Così Acton, per liberare il regno dalla sudditanza spagnola, decise di progettare un regio arsenale per la costruzione di nuovi vascelli. Sia per la maestria dei mastri di mare e calafati stabiesi, sia per il luogo ampio e spazioso, in pochi anni fu costruito il cantiere, anche grazie all’abbondante legname dei boschi circostanti nonché per l’ottimo sistema difensivo di cui era dotata la città.

Fig. 6 Philipp Hackert, varo del vascello Partenope, www.liberoricercatore.it

Philipp Hackert, varo del vascello Partenope, www.liberoricercatore.it

Per i lavori, diretti dall’ingegnere Giovanni Bompiede, nel 1785 erano stati spesi 58.600 ducati: il denaro copriva sia le spese del “varatojo” che per i due moli laterali allo “scaro” e per i magazzini, il quartiere dei forzati che vi lavoravano e altre abitazioni per gli ufficiali, ricavate dall’antica “cristalleria”.  In circa tre anni si delineò il profilo della nuova costa, segnata da due moli paralleli, perpendicolari alla battigia, costruiti per proteggere lo scalo di costruzione fisso, posti a breve distanza dalla linea di recinzione del cantiere mercantile, sulla spiaggia verso Pozzano. Il cantiere, in cui lavoravano circa duemila operai, entrò a pieno regime negli anni Novanta. Tra il 1795 e il 1797 il molo fu ulteriormente prolungato e vi fu posta una batteria di artiglieria stabile casamattata di 30 bocche da fuoco, la prima nel lido del Mediterraneo, come si legge nell’iscrizione della lapide commemorativa, costruita dal generale dell’artiglieria francese Francesco De Pommereul. Sulla costa verso Napoli fu collocata un’altra batteria bassa che prese il nome dal suo costruttore, il tenente Giovanbattista Eblé, in modo da proteggere il porto, divenuto uno scalo militare (Crinò, 2008: 109-110). Ma alla notizia dell’arrivo dei francesi il re fuggì a Palermo dando ordine di bruciare la flotta. Poi nei pochi anni di regno, fino al nuovo arrivo dei francesi, non si fecero ulteriori ripristini (Sirago, 2021b).

In quegli anni fu dato anche un impulso alla costruzione di navi mercantili di grossa stazza per i commerci oceanici e in Mar Baltico e Mar Nero. Per un controllo capillare delle costruzioni l’ammiraglio John Acton decise che la “Giunta di navigazione” da lui presieduta doveva approvare la costruzione e il varo di ogni imbarcazione.  Dai dati reperiti nell’Archivio di Stato di Napoli per il periodo dal 1782 al 1799 (Segreteria d’Azienda vol.   1355-1420) si registra un notevole aumento di navi mercantili.  In totale a Castellammare furono costruiti 26 bastimenti a tre e due alberi, 6 pinchi a tre alberi, 2 polacche a tre alberi, tutti di grossa stazza, fino a 6000 tomoli ed un bastimento a tre alberi di 13.000 tomoli per un negoziante napoletano. Molte navi si costruivano nella penisola sorrentina, 24 a Vico Equense, nella marina di Equa, e 225 tra Piano e Meta, nelle marine di Cassano e Alimuri. Infine a Napoli fra i pochi bastimenti varati ve ne erano due a coffa per navigazione oceanica. Invece a Procida si costruirono 236 imbarcazioni, tutte di piccola stazza, tra i 3000 3 i 5000 tomoli.  Dagli anni Novanta i bastimenti a tre alberi costruiti a Castellammare e nella penisola sorrentina, di solito di 4000/5000 tomoli, aumentarono di stazza, arrivando fino a 8000 tomoli. Per i committenti di Piano furono fabbricati anche due brigantini, una nuova tipologia che si diffuse dai primi dell’Ottocento; anche a Procida oltre alle martigane e alle tartane cominciarono ad essere realizzati bastimenti di 5000/6000 tomoli (Sirago, 2021a e 2021d). Ma durante le guerre napoleoniche buona parte delle imbarcazioni furono distrutte.

Fig. 7 Polacca sorrentina in costruzione (Bayard, 1832)

Polacca sorrentina in costruzione (Bayard, 1832)

II Decennio francese (1806-1815)

Giuseppe Bonaparte, giunto a Napoli il 30 marzo 1806, aveva trovato la marineria in grave crisi per cui il 15 maggio aveva affidato a Nicola Pignatelli il Dicastero della Marina, chiedendogli di redigere un rapporto sul suo stato. Il re doveva riorganizzare al più presto tutto il comparto marittimo secondo gli ordini di Napoleone che doveva ricostruire la flotta distrutta da Orazio Nelson nella battaglia di Trafalgar del 21 ottobre 1805. Napoleone aveva progettato di riorganizzare gli arsenali di Genova, La Spezia e Castellammare sul Tirreno e di Ancona e Venezia nell’Adriatico per costruire i nuovi vascelli a 80 cannoni. Perciò Giuseppe Bonaparte dette maggiore attenzione ai porti militari, in primis quelli di Napoli e Castellammare, incaricando l’ingegnere Francesco De Simone di fare una capillare ricognizione nel golfo di Napoli a sud ovest di Castellammare, dove dovevano essere ripristinate le batterie. Secondo la sua relazione del 7 luglio 1807 il porto di Castellammare doveva essere ampliato con un prolungamento del molo esistente, un lavoro necessario per permettere l’attracco dei grossi vascelli, su cui doveva essere costruita una batteria; inoltre doveva essere ripristinata la batteria Eblé (Crinò, 2008: 111ss.; Sirago, 2021b).

Fig.8 Giovanni d’Alessio, Pianta del porto e rada di Castellammare di Stabia, 6 luglio 1807, BNN, mss., carte geografiche, Ba 29a 66

Giovanni d’Alessio, Pianta del porto e rada di Castellammare di Stabia, 6 luglio 1807, BNN, mss., carte geografiche, Ba 29a 66

Gioacchino Murat, arrivato a Napoli nel 1808, potenziò il lavoro di riorganizzazione del settore marittimo iniziato da Giuseppe Bonaparte ma decise di non creare a Castellammare un porto militare, la cui costruzione sarebbe stata troppo onerosa, preferendo potenziare quello di Nisida, necessario per la quarantena delle navi mercantili. A Castellammare furono varati due vascelli a 74 cannoni, uno chiamato Capri in ricordo della “presa” dell’isola occupata dagli inglesi e l’altro Gioacchino.

Qui fu progettato di realizzare scali sul molo per costruire tre vascelli contemporaneamente, progetto ripreso negli anni Venti. Fu poi data attenzione ai porti commerciali, affidati al termine del blocco continentale, dal primo luglio 1813, al “Corpo degli Ingegneri di Ponti e Strade”, creato nel 1808 da Murat. In questo piano di ripristino della marineria rientra anche la riorganizzazione dell’Accademia di Marina e delle scuole nautiche napoletana e sorrentina, dove si dovevano creare ufficiali e pilotini per le nuove tipologie di imbarcazioni (Sirago, 2021b).

Fig. 9 Varo del vascello Capri, autore ignoto, www.liberoricercatore.it

Varo del vascello Capri, autore ignoto, www.liberoricercatore.it

Secondo periodo borbonico (1815-1860)

Dopo la restaurazione, re Ferdinando continuò a seguire la politica murattiana in ambito commerciale. In primo luogo, fu riorganizzato il sistema portuale e il comparto marittimo per il quale nel 1818 furono promulgate le “Ordinanze Generali della Real Marina”. Tra il 1818 e 1819 si incominciò a riorganizzare il cantiere di Castellammare, per il quale furono spesi 18.963 ducati e 66 grana. I lavori furono interrotti per i moti del 1820-21 ma furono poi ripresi, per adeguare il cantiere alla costruzione dei vascelli a 80 canoni su modello francese, secondo il progetto del 1812. Nel 1822 era in costruzione il vascello Vesuvio per il cui varo bisognava eseguire «lavori idraulici nello scalo», terminati l’anno seguente con una spesa di 36.000 ducati.  Poi nel 1824 fu costruito il «il prisma sotto acqua e la scala volante» che doveva poggiare su di esso per favorire il varo del vascello, eseguito il 14 dicembre, al termine dei lavori idraulici. I lavori continuarono fino al 1827, come si evince dalla pianta stilata quell’anno, in cui si evidenziava la piattaforma dove si doveva collocare il vascello. (Sirago, 2021b).

Durante i primi anni della Restaurazione fu avviata anche la ricostruzione della marina mercantile, incentivata dal regio decreto emanato il 15 luglio 1816, il “Diritto di navigazione”, con cui si stabiliva di elargire un premio di 60 grana per ogni tonnellata di naviglio costruito. In breve le costruzioni raddoppiarono (da 2387 del 1818 a 5008 del 1825). Questo incremento era dovuto anche al regio decreto del 3 novembre 1823, n.837, con cui furono concesse ulteriori agevolazioni per la costruzione di brigantini, specie quelli “armati di coffa”, in grado di affrontare i viaggi oceanici e nel Mar Nero. Poi nel 1826 fu promulgata la legge di navigazione che equiparava le navi mercantili napoletane a quelle francesi, spagnole, il che dette ulteriore impulso alla marina mercantile (Sirago, 2021a).

Fig.10 Pianta del Porto di Castellammare. Cantiere e Dipendenze della Real Marina, 1827 (Castanò, 2008:114)

Pianta del Porto di Castellammare. Cantiere e Dipendenze della Real Marina, 1827 (Castanò, 2008: 114)

Dal 1818 era iniziata anche la navigazione a vapore col “pacchetto” Ferdinando I, fatto costruire dalla società di Pierre Andriel, per la rotta Napoli-Marsiglia. L’impresa risultò fallimentare perché il voluminoso motore consentiva di trasportare solo passeggeri e posta. Ma nel 1823 si formò un’altra società, per cui si fecero viaggi regolari tra Napoli e Palermo (Sirago, 2014b).

Dal 1830, salito al trono Ferdinando II, venne attuato un capillare piano di riforma sia in ambito portuale che nella riorganizzazione della flotta e della marina mercantile. Vennero redatti alcuni “Specchi della Marina Mercantile” per calcolare il numero effettivo delle imbarcazioni costruite in tutto il regno.  Nel distretto di Napoli, in cui era compresa Castellammare, nel 1818 si contavano 632 imbarcazioni. Nel 1833 se ne annoveravano 2158 di cui 70 a Castellammare (per un totale di 6337, 16 tonnellate su circa 115.000). Ma qui erano state costruite 321 imbarcazioni (su 2086): difatti, come per il passato, non vi era un vero e proprio ceto di armatori ma di imprenditori e soprattutto di costruttori di imbarcazioni. Nel 1838 il numero era molto più alto: si contavano 339 imbarcazioni su un totale di 4048 per 4677 tonnellate (di cui 18 brigantini, le altre di piccolo cabotaggio o per la pesca): ma ne erano state costruite 475, anche di grossa stazza (Sirago, 2021a).

In realtà il porto di Castellammare, dichiarato militare, doveva essere riorganizzato anche per la fabbricazione delle nuove navi a vapore. Nel 1837 fu costruita una “macchina” da tirare a terra, ed a secco i reali Bastimenti da guerra. L’anno dopo furono previsti altri lavori per una spesa di circa 11.000 ducati. Poco dopo fu creata una commissione di tecnici composta da Giovan Battista Staiti, Ispettore del Materiale dell’arsenale, Domenico Cuciniello, ufficiale del Genio Idraulico, e dal capitano del Corpo del Genio Giuseppe Mugnai, che dovevano per redigere un progetto di ingrandimento del cantiere in cui doveva essere inglobato lo spazio del vicino cantiere mercantile, da ricostruire in altro luogo, nella spiaggia “alla dritta della fabbrica di cuoi”. Ma questa soluzione non era ottimale perché il sito non aveva un fondo adatto per le costruzioni.  Perciò fu proposto di lasciare il cantiere mercantile nel suo sito unendo al cantiere reale solo la parte di suolo al confine «lungo il muro esterno della sala a tracciare» e quello «del locale delle dismesse vasche».

Lo “scalo di alaggio” che si doveva costruire all’interno del porto doveva essere esteso «fino alle grosse fregate di 60 cannoni». Si prevedeva anche un prolungamento delle tettoie per la conservazione del legname, una banchina per cingere le otto navate in cui ormeggiavano 16 barche cannoniere; e sulla copertura delle navate si poteva creare una veleria. Si progettava anche la costruzione di altri magazzini e officine dove poter lavorare nella stagione invernale. L’anno seguente fu dato ordine di iniziare i lavori a partire dalle tettoie che dovevano riparare i legni da costruzione, ed eseguire quelli previsti, per i quali si prevedeva una spesa di 300.600 ducati. I lavori, iniziati nel 1840, durarono alcuni anni: nel 1843 vennero completati i lavori dell’avanscalo di alaggio, anche quelli sott’acqua, alla profondità di 28 piedi, eseguiti da un valente “sonnotatore” (sommozzatore) per cui in ottobre si poté varare in sicurezza la fregata a vapore Ercole. In quel periodo erano in lavorazione altri due battelli a vapore di 300 cavalli. Nel 1846 il molo venne prolungato di altri 100 palmi per accogliere le imbarcazioni di grossa stazza ed altri  lavori vennero effettuati fino al 1850 per una spesa totale si 340.000 ducati (Sirago, 2021a e b).

Fig.11 Il porto di Castellammare nel 1838, «Poliorama Pittoresco», Napoli, 18 agosto 1838.

Il porto di Castellammare nel 1838, «Poliorama Pittoresco», Napoli, 18 agosto 1838

Il potenziamento del porto di Castellammare rientrava nella politica promossa da Ferdinando II a partire dagli anni Trenta per riorganizzare il regno soprattutto nel settore delle finanze. Egli voleva dare impulso allo sviluppo tecnologico volto a emancipare il regno dalle potenze straniere, in primis l’Inghilterra, che forniva i motori per le navi a vapore e i macchinisti. Perciò nel 1830 aveva incaricato William Robinson, un capitano di vascello scozzese, che aveva servito nella flotta napoletana, di creare una piccola fabbrica di armi a Torre Annunziata. Poi aveva chiesto al primo tenente di artiglieria Luigi Corsi, un giovane valente ingegnere che aveva studiato all’accademia militare della Nunziatella, di cooperare con lui per apprendere «l’arte pirotecnica». Nel 1837, dopo la morte del Robinson per colera, il Corsi era stato nominato direttore del laboratorio, trasferito nella reggia di Napoli. Esso era utilizzato sia per fabbricare armi sia per la riparazione dei motori a vapore acquistati in Inghilterra per i pacchetti a vapore usati per posta e passeggeri. Qui furono anche costruite due macchine a vapore di 12 cavalli usati come “cavafondi” (draghe), le prime del regno (Sirago, 2014b). Ma poiché il sito era angusto il re incaricò il generale Carlo Filangieri di cercarne uno idoneo per costruire un Regio Opificio, la futura Pietrarsa (oggi Museo Nazionale Ferroviario), fondato nel 1840, per costruire i motori marini e quelli per la nascente ferrovia, inaugurata nel 1838, diretto dallo stesso Corsi. Qui venne costruito «tutto il macchinario per lo scalo di alaggio in occasione della tirata a secco del vascello Vesuvio, composto di 6 argani alla Barbottin, una macchina da provare catene, utensili per costruire catene, e tutta la ingegneria con trasmissione per l’officina dei torni, ad uso dello arsenale di Castellammare», come riferiva il Filangieri nelle sue Memorie (Sirago-Rastrelli, 2024).

Fig. 12 Il Regio Opificio di Pietrarsa

Il Regio Opificio di Pietrarsa

Nel 1851 fu varata la pirofregata Ettore Fieramosca, costruita nel cantiere di Castellammare, che montava «una macchina di 300 cavalli con ruote a palette, e caldaje di rame», fabbricata a Pietrarsa, i cui operai curarono «la montatura a bordo del piroscafo» della macchina, iniziando poi a costruire simili modelli (Sirago-Rastrelli, 2024).

Poiché nel cantiere militare era stato inglobato quello mercantile, che occupava lo spazio delle vecchie calcare, con scali volanti, nel 1841 fu costruito un nuovo cantiere mercantile nel versante opposto della città, oltre il rivolo San Marco, in una località detta ancora oggi “Macello o cantiere mercantile”, inaugurato il 30 settembre alla presenza della famiglia reale. Per completare tale costruzione, i cui edifici avrebbero dovuto essere costruiti dal Comune di Castellammare, il 14 ottobre 1840 fu redatto un disegno. Poi l’anno seguente si doveva provvedere al “cavamento del fondo” necessario per i bastimenti mercantili con un “Cavafondo” o sandalo della regia Marina. Infine nel 1844 a protezione del cantiere l’ingegnere Ercole Lauria progettò una scogliera (Sirago, 2021a).

Nel 1847 il presidente del Consiglio Distrettuale Raffaele Cardea, capitano di vascello, presentò un’istanza a nome del comune al ministro Segretario di Stato degli Affari interni Nicola Santangelo in cui si chiedeva di ampliare ulteriormente il porto per palmi 1500 in modo da favorire il commercio. Dopo i moti del 1848 la richiesta venne rinnovata: il Consiglio del Distretto sottolineava che i lavori effettuati non garantivano «né la sicurtà dell’approdo, né la certa stazione de’ legni, a scapito delle merci e della vita”. Invece il suo allargamento avrebbe prodotto per la città “ricchezza di commercio». Quanto alla spesa si chiedeva un anticipo dalla Real Tesoreria, che sarebbe stato ripagato con i proventi ricavati dal diritto di entrata nel porto, già utilizzati per la costruzione del faro. In cassa vi erano infatti 7000 ducati ricavati dal 1843 al 1851 dal diritto di “lanternaggio” di grana 60 a legno al di sopra della di 50 tonnellate portata, a cui si sarebbero aggiunti i diritti di entrata nel porto per ogni legno a vela latina o quadra, che sarebbero aumentati con l’ampliamento del bacino portuale.

Le attività cantieristiche e produttive nel corso dell’Ottocento si dipanarono lungo la fascia litoranea da Pozzano fino al nuovo polo mercantile. Lo stesso arsenale, con i nuovi lavori, era diventato parte integrante del porto, rafforzando la vocazione industriale della città e accrescendo l’immagine di un operoso centro portuale, sia militare e commerciale. In questo contesto si inserisce la vicenda della scuola nautica richiesta a viva voce dalle autorità cittadine, visto che gli alunni dovevano frequentare quella di Piano e Meta, aperta nel 1843 per la numerosa popolazione marinara, che lavorava nel cantiere da guerra che in quello mercantile (Sirago, 2021a). 

Il periodo postunitario

Dopo l’Unità nel cantiere si continuarono a costruire imbarcazioni di minore tonnellaggio mentre si passava lentamente dal legno al ferro. Dopo il 1880 si ebbe un periodo di crisi che coinvolse tutta la cantieristica italiana, anche se si continuava a costruire le grosse navi da guerra, varate alla presenza del re. Nel 1901 fu varata la corazzata Benedetto Brin, il che segnò un rinnovamento della flotta; poi fino alla Prima Guerra Mondiale si costruirono numerose navi da guerra. Ma nel dopoguerra la situazione cambiò, anche perché si stava affermando l’arsenale di Taranto, edificato a fine Ottocento. Dopo la conferenza navale tenutasi a Washington nel 1921 si decise che la marina italiana doveva limitare per un decennio le costruzioni navali: perciò a Castellammare tra il 1927 ed il 1931 furono costruite solo quattro unità, la cisterna Tarvisio (1927), la nave scuola Cristoforo Colombo (1928), l’incrociatore Giovanni delle Bande Nere (1930) e la nave scuola Amerigo Vespucci (1931) che è ancora in navigazione (Sirago, 2009).

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Castellammare città di loisir

Dai primi dell’Ottocento a queste attività marittime si affiancarono anche quelle legate alla balneazione termale e marina, come stava avvenendo anche a Napoli (Sirago, 2013). La pratica della villeggiatura, anche per cure termali, era già diffusa in epoca romana nell’antico approdo di Stabiae. Poi era stata ripresa in epoca angioina quando i sovrani avevano costruito una dimora per la “villeggiatura” a Quisisana, un colle che domina la città di Castellammare. Qui tra il 1765 e il 1790 Ferdinando di Borbone fece realizzare un Palazzo Reale con parco e giardino all’italiana, dove trascorreva piacevoli soggiorni dedicandosi alla caccia e alla pesca, suoi passatempi preferiti. Questo “luogo di delizie” era prediletto anche da Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat, che vi soggiornarono spesso. Attorno alla reggia furono costruiti “casini” e ville di aristocratici che venivano a trascorrere piacevoli periodi in estate, come quella di Carlo Acton, nipote dell’ammiraglio John (Sirago, 2013).

Fig. 13 Brigantino a vapore “Sirena” nel Golfo di Napoli collezione privata Antonio Formicola (Formicola Romano, 1994, p. 125)

Brigantino a vapore “Sirena” nel Golfo di Napoli collezione privata Antonio Formicola (Formicola Romano, 1994: 125)

L’abitudine della villeggiatura in luoghi ameni costieri, trasformati in città di loisir, e dei bagni a mare pian piano venne recepita dalla classe borghese, in crescita nel corso dell’Ottocento. Ma ancora negli anni ’20 la città di Castellammare non era molto attrezzata: la scrittrice Mariana Starke notava che non vi era una buona recettività, solo «several lodging houses (case in affitto) but no inns (alberghi) … to sleep (per dormire)” ed un “tolerably good Restaurateur» (Starke, 1820: 497) Alcuni anni dopo cominciarono ad essere aperte trattorie e locande: “La Partenope”, la “Locanda del Sole”, nella «strada del porto, con facciata alla marina, sopra il caffè del commercio»; e si cominciavano a fittare anche “casini” per la villeggiatura (Sirago, 2013: 91 ss). La città era diventata interessante anche per i suoi reperti archeologici: in una delle prime Guide napoletane del 1818 Andrea De Jorio consigliava: «Per coloro che si trattengono qualche giorno in Castellammare sarà una passeggiata osservare i semplici indizi dello scavo, sia di Pompei che dell’antica Stabia» (ivi: 16).

In quegli anni, con l’introduzione della navigazione a vapore venivano organizzati anche dei “giri nel Golfo”, con sosta a Castellammare, Sorrento, Ischia o Capri con i “pacchetti a vapore” di linea tra Napoli e Palermo (Sirago, 2014b).

Poi dal 1839 fu aperto il primo tratto della linea ferroviaria Napoli-Nocera, il cui viaggio di inaugurazione fino a Portici è illustrato in un dipinto di Salvatore Fergola. La linea nel 1842 fu prolungata fino a Castellammare (Ostuni, 1980, Pagnini, 2019: 179-181), dando un valido ausilio allo sviluppo delle attività termali e balneari, con le quali Castellammare si trasformò in breve in una ridente città di villeggiatura, con strutture eleganti dotate di ogni comfort (Sirago, 2013).

Fig. Salvatore Fergola, Inaugurazione della ferrovia Napoli-Portici, 1840, Napoli, Museo San Martino

Salvatore Fergola, Inaugurazione della ferrovia Napoli-Portici, 1840, Napoli, Museo San Martino

Una delle attrazioni più interessanti era quella del termalismo: la città vantava un’antica tradizione di cure con le acque termali, scoperte nel 1740 da fra’ Tommaso Ricciardi, per le quali era stato costruito uno stabilimento balneare, dove veniva praticato il termalismo, conosciuto fin dall’antichità. Nel 1811, durante il Decennio Francese le acque minerali erano state concesse alla città che le affittava annualmente, utilizzando il ricavato per la riorganizzazione urbanistica della cittadina. Esisteva anche uno stabilimento «con convenienti apparecchi per le stufe artificiali semplici o minerali a norma delle indicazioni mediche», diretto dal professor Assolini. Nel 1827, su progetto dell’architetto Catello Troiano iniziarono i lavori per   un nuovo stabilimento termale «al largo del Cantiere, dove  il Comune possedeva un terreno, fittando anche  l’acqua della Sulfurea che flui[va] sotto la strada di Pozzano nel luogo propriamente appellato le Calcaje»,  per  il quale nel 1830 il Comune aveva speso 9.200 ducati: lo stabilimento, inaugurato nel 1836, divenne subito un frequentato ritrovo mondano, «luogo di delizie alle opulente famiglie che ven[iva]no ivi a prendere i bagni termali»; ma la bella passeggiata era aperta a tutti i cittadini, anche quelli che non fruivano della cura delle acque  (Sirago, 2013).

Il nuovo stabilimento termale, descritto accuratamente da Francesco Alvino (1845), dotato di 12 bagni,   corredati da due stufe a vapore e altri 13 bagni di acqua dolce  «con una bella sala nel mezzo [usata] per trattenimento de’ bagnatori» e una sala da bigliardo, divenne ben presto uno dei luoghi più à la pàge frequentati dalla folta schiera di nobili villeggianti, che usufruivano anche della balneazione marina praticata in alcuni stabilimenti balneari costruiti nella “Strada Marina” a partire dagli anni Quaranta (Sirago, 2013).  

Perciò dopo l’apertura della ferrovia, la ridente cittadina diventò meta obbligata per quelli che volevano abbinare le cure termali a piacevoli soggiorni, circa 6000 villeggianti tra «nazionali … ed esteri, (tra cui) le più distinte persone civili e diplomatiche … e quelle di reale famiglia» che passeggiavano ogni giorno nei viali dello stabilimento termale e la sera affollavano i caffè ed i ristoranti sorti sul lungomare o prendevano i bagni di mare nei numerosi stabilimenti balneari costruiti nella “Strada Marina” da Antonio Cosenza. Castellammare diventò così uno dei luoghi “di loisir” più famosi della costa napoletana, frequentato dalla nobiltà e dalla ricca borghesia che alla cura delle terme alternava le passeggiate nel parco dove si esibiva un concertino e frequentava i locali alla moda (Sirago, 2013. La ridente cittadina diventò meta obbligata per quanti volessero abbinare le cure termali a piacevoli soggiorni, una fortunata combinazione che dava benefici frutti alla popolazione (circa 15.000 abitanti). Tra i vari caffè e ritrovi (circa 25) spiccava il “Caffè di Europa”, dove si dava appuntamento tutto il “bel mondo” che frequentava la ridente cittadina, aperto verso il 1850 alla “Strada marina”, poi spostato al pianterreno del “palazzo Spagnolo” e dai primi anni del ‘900 denominato “Gran caffè Napoli” (Parisi e Alvino, 1842).

Nella “Guida” redatta nel 1845 per i partecipanti al “Convegno degli Scienziati” svoltosi a Napoli si ricordava: «Castellammare è rinomata per la ricchezza della sua produzione, per l’affluenza degli stranieri, per l’amenità ed eleganza de’ suoi casini, e per la varietà de’ suoi villaggi dipinti di vari colori. Si veggono de’ bagni sul lido del mare dalla forma di tempii, di padiglioni e di Kioschi. Si passeggia lungo la marina respirando le fresche aure della sera nei colori di luglio» (Ajello, 1845, II:.528).

Fig. 15 Antiche terme

Antiche terme

Dopo l‘Unità nella società borghese, quando il datore di lavoro cominciava a stabilire un periodo stabilito di ferie, si sviluppò il concetto di “tempo libero”, il “leisure time”, (Rauch, 1996). Così anche il turismo termale e balneare si diffuse rapidamente negli ambienti borghesi, che scelsero delle mete divenute mitiche. Anche Castellammare entrò in questo circuito, attirando nella stagione estiva un variegato popolo di villeggianti, ospitato nei numerosi alberghi come l’Hotel Stabia, vicino al mare, il Continental e l’Hotel des Etrangeres, nel territorio di Quisisana (Palumbo, 1972:199).

Anche Francesco de Bourcard (1853) ricordava l’abitudine ormai consolidata di trascorrere i mesi estivi in luoghi ameni ed alla moda come Castellammare, popolata da 20.000 abitanti, dove nella “stagione de’ bagni” giungevano numerosi villeggianti che si dedicavano alla “cura delle acque”. Egli consigliava ai villeggianti anche di visitare l’antico porto di Stabiae, «qualche avanzo dell’anfiteatro nel luogo ora detto Varano e i ruderi di un ginnasio presso l’“Osteria del lapillo”.

Fig. 16 Bagno Moderno

Bagno Moderno

La città, in continuo sviluppo, a fine ‘800 era considerata una “stazione igienica e di villeggiatura di prim’ordine”, con vari e grandiosi Hotel, tra cui il Quisisana. Nel 1885 venne bandito un concorso per rendere Castellammare una “dimora comoda e ricercata per i bagnanti e i villeggianti”, per cui si decise di costruire nella Villa Comunale una cassa armonica in stile ispano-moresco come quella di Napoli. Ancora ai primi del ‘900, quando il termalismo attirava 15000 frequentatori annui si studiava il modo di rendere la cittadina sempre più accogliente e prospera. Così fu costituita una società anonima per azioni, la “Società Anonima Stabia per lo sviluppo climatico e termale di Castellammare” (Sirago, 2013).

Nei dintorni furono costruite eleganti abitazioni come la villa Petrella, del ministro plenipotenziario di Russia, Alessandro di Lieven, ceduta da lui nel 1868 ai principi di Moliterno, Giuseppe Gallone e Antonietta Melodia, che ne fecero il principale centro mondano cittadino. Poi il figlio, Giovanbat­tista, principe di Marsiconovo, a fine secolo la trasformò nell’Hotel du parc. Lo stesso principe nel 1881 fondò il Circolo Canottieri Stabiani, l’attuale Circolo Nautico Stabia, dove ogni anno organizzava “Regate a vela e a remi” (Sirago, 2013).

Fig. 16 Bagno Moderno

La Cassa Armonica

Castellammare  diventò così uno dei luoghi di villeggiatura più “à la pàge” della costa napoletana, frequentato a fine ‘800 da scrittori famosi (Dikens, Flaubert, Gautier, Ibsen), dai reali (nel 1870 Umberto di Savoia ospitato nella lussuosa villa del principe di Moliterno)) dalla nobiltà (nel 1877 alloggiò all’Hotel Quisisana l’Imperatrice di Francia) e dalla ricca borghesia; e tutti i villeggianti alla cura delle terme alternavano le passeggiate nel parco dove si esibiva un concertino e frequentavano i locali alla moda dove si svolgevano anche splendidi balli

Nel 1902 la “Commissione per la Villeggiatura” di Castellammare, per rilanciare il turismo stabiese, bandì un concorso per la creazione di un manifesto pubblicitario che illustrasse la ridente cittadina e le numerose attrattive di questa famosa “Stazione Climatica e Balneare”. Inoltre per la “stagione” del 1903 si proponeva di riorganizzare i locali dello “Stabia Hall” e dell’annesso “Teatro Moliterno”, allestire un’”orchestrina di dame” nello stabilimento balneare termale, ripristinare le regate, indire un concorso a premi di canzoni popolari. Allo stesso tempo si scriveva a Montecatini per avere notizie sulle attività che si svolgevano in quelle terme, in modo da poter fruire di quella consolidata esperienza. Poi nel 1906 fu costituita una società anonima per azioni, la “Società Anonima Stabia per lo sviluppo climatico e termale di Castellammare”. E nel 1909 la cittadina, che si era ormai consolidata nel campo turistico, partecipò alla “Esposizione Imperiale Internazionale di Londra” come “Importante Stazione Climatica e balneare”.

Hotel Royal Quisisana

Hotel Royal Quisisana

Per incrementare l’afflusso dei villeggianti, si continuavano a fare varie proposte per abbellire la città, utilizzando al meglio anche gli impianti per la luce elettrica e costruendo locali “per il pubblico divertimento”. Infine nel 1921 e nel 1926 si tennero due congressi di idrologia e climatologia, il che testimonia l’importanza del termalismo nello sviluppo economico della cittadina campana (Sirago, 2013).

Il luogo, diventato famoso, era segnalato da Matilde Serao (1883), che consigliava alle fanciulle anche “l’attrezzeria” (il guardaroba) da portare: tra i vari abiti era compreso anche il «costume da bagno… di tela azzurra oscura. ricamato con filo rosso, le ancore rosse, il nome in rosso, la cinta rossa» corredato dal «grande cappello di paglia col suo gruppo di papaveri» e dalle «scarpettine di tela di paglia». Difatti a fine secolo erano stati costruiti eleganti stabilimenti balneari lungo la marina, a partire dalla Villa, lungo il Corso Garibaldi, elegantemente arredati, dotati di ogni comfort, spesso arricchiti da una terrazza dove la sera si organizzavano “serate danzanti”, o di luoghi idonei per allestire spettacoli teatrali. In quello di Antonio Corrado, al Corso Garibaldi, presso la “Strada Bonito”, vi era una «sala d’aspetto, abbastanza ampia, [che] cont[eneva] un palcoscenico, ed alla sera diventa[va] un teatro, ove si da[vano] svariati spettacoli piuttosto affollati». E durante le regate ed altre “feste a mare” si assisteva alle evoluzioni dalle terrazze dello stabilimento del Corrado. Ed in quello di Giuseppe Fusco, il “Villa Stabia”, al Corso Vittorio Emanuele, di fronte alla Sottoprefettura, vi erano una sala e loggetta a mare. Ancora dopo la Prima guerra mondiale «da ogni parte d’Italia forestieri di ogni ordine» venivano per le acque termali o per le benefiche «onde opaline del … magnifico mare», specie nell’elegante stabilimento balneare lo di Pozzano, descritto con entusiasmo da Matilde Serao ne “Il Giorno”.

Fig. 19 Hotel Royal Quisisana

Spiaggia di Pozzano

Fino agli anni ’30 la ridente cittadina ha continuato ad animarsi nelle lunghe estati, attirando i numerosi forestieri dediti alla gioiosa vita balneare. Ma non ha beneficiato della legge sulla costituzione delle “Aziende Autonome di cura soggiorno e turismo”, promulgata nel 1926, in quanto nelle procedure di riconoscimento di uno status di territorio turistico non è stata ritenuta idonea per la mancanza di adeguate strutture e è stata lasciata a languire miseramente. In realtà le potenzialità turistiche sin dal primo dopoguerra sono state sacrificate allo sviluppo industriale (in particolare per il cantiere navale); e ciò si è acuito nel secondo dopoguerra, sia a causa delle distruzioni arrecate dai bombardamenti, sia dall’inquinamento, che ha distrutto tutto il litorale. Perciò si è prodotta una urbanizzazione disordinata che non ha tenuto conto di una possibile ripresa del settore turistico (Sirago, 2009, 2010 e 2013).

Solo nell’ ultimo decennio si è cercato di studiare il “problema Castellammare” per formulare valide proposte atte ad una ripresa del turismo nella cittadina e nei territori vicini (che ospitano le antiche città di Pompei ed Ercolano). Finalmente nel  luglio 2007, dopo un decennio di ingenti lavori, è stato inaugurato il “Marina di Stabia”, un nuovo porto turistico capace di 1400 posti barca, uno dei più grandi del Mediterraneo. E per i prossimi anni sono previsti altri lavori di riattamento degli antichi edifici portuali che saranno trasformati in alberghi, cinema, centri commerciali, luoghi  di ritrovo, centri benessere, ristoranti, ecc, fruibili non solo dai diportisti ma anche dalla cittadinanza, il che potrà creare un notevole indotto, come si è già sperimentato per gli antichi porti di Barcellona e di Genova, oggi riconvertiti in poli turistici di grande attrattiva (www.marinadistabia.it).

Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024 
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Maria Sirago, dal 1988 è stata insegnante di italiano e latino presso il Liceo Classico Jacopo Sannazaro di Napoli. Dal primo settembre 2017 è in pensione. Affiliazione: Nav Lab (Laboratorio di Storia Marittima e Navale), Genova. Membro della Società Italiana degli Storici dell’Economia, della Società Italiana degli Storici, della Società Napoletana di Storia Patria, Napoli, della Società Italiana di Storia Militare. Ha scritto alcuni saggi e numerosi lavori sulla storia marittima del regno meridionale in età moderna. Tra gli ultimi suoi studi si segnalano: La scoperta del mare. La nascita e lo sviluppo della balneazione a Napoli e nel suo golfo tra ‘800 e ‘900, edizioni Intra Moenia, Napoli, 2013; Gente di mare Storia della pesca sulle coste campane, edizioni Intra Moenia, Napoli, 2014; Il mare in festa Musica balli e cibi nella Napoli viceregnale (1503-1734), Kinetés edizioni, Benevento, 2022.

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