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“C’è ancora domani”: cronache dal genere femminile del secondo dopoguerra

C'è ancora domani, i protagonisti

C’è ancora domani, i protagonisti

di Valeria Salanitro 

Raccontare le donne del dopoguerra attraverso una lente caleidoscopica, che svisceri trame narrative in­trise di verità, di violenza e di identità di genere, oltre che politica, è stata la sensazione percepita in pri­ma istanza, dopo avere osservato con attenzione la pellicola cinematografica, che vede esordire Paola Cortellesi nelle vesti di regista nel film “C’è ancora domani”.

Scene di vita quotidiana segnano il tessuto linguistico di questo contro-racconto di genere. Molte don­ne rappresentate (e meta-rappresentate) in una cornice, che rimanda bene alla disobbedienza sofoclea di Antigone e che oscilla tra affermazione della violenza femminile/stereotipi di genere e ribellione, per scardi­nare, oltre che reificare, quella dialettica padre-padrone di hegeliana memoria, che può esistere solo in ter­mini dialogici e, per contro, che può desistere solo attraverso la riconfigurazione dei ruoli sociali. 

La macro-cornice all’interno della quale si colloca questa pellicola è quella del patriarcalismo e della mi­soginia più tradizionalista del periodo bellico e post-bellico, in una Roma che ricorda bene i racconti di vita di Pierpaolo Pasolini. Un contesto storico segnato dalla guerra e, successivamente, dall’istituzione della Repubblica: gli alleati americani giunti in salvo e una grave crisi economica in cui versava la città; ambienti domestici e spazi sociali legati alla dimensione privata dell’individuo, ma anche pub­blica, come la piazza con le “prefiche” (donne)  pronte a elargire commenti e spergiuri di ogni sorta nei confronti delle altre donne inserendo il racconto in una dimensione antagonistica del genere femmini­le, peraltro, estremamente realistica e contemporanea –  nonché vicine di casa; soggetti di una didascali­ca rappresentazione vestale al femminile di quel focolare domestico di epoche trascorse. Sono le determin­anti di questa narrazione metastorica e anacronistica in cui sguardi costruiti-decostruiti di donne molteplici permettono al telespettatore di addentrarsi in un mondo “reale”, che fa da sfondo ad una or­dinaria e, ironicamente pungente, volontà di verità di ispirazione foucoultiana.

La dimensione intima della donna – concepita come “Altro da sé”, in linea con i paradigmi femministi del Secondo sesso di cui raccontava Simone de Beauvoir, frutto di quel determinismo biologico che ha guidato ideologie e correnti politiche per tutta la prima metà del ‘900 e oltre – è emblematicamente rac­contata attraverso due ruoli principali, che vedono madre e figlia (Delia e Marcella), impegnate in una continua subordinazione/abnegazione del sé, che ben rimanda alla violenza simbolica rintracciata da Bourdieu tra le donne dei cabili algerini [1], emblema di una società androcentrica. Una stereotipizzazione del genere in cui ritrovare offese reiterate del tipo: “Quella ritardata di tua madre” e “Non sei buona nemmeno per fare la serva”. Epiteti e anatemi, in contrappunto a scene di violenza domestica, i cui tempi narrativi raccontano una coppia di coniugi: Delia (Paola Cortellesi) e un persuasivo Ivano (Valerio Mastrandrea), che oltre a rappresentare i ruoli del pa­triarcalismo più crudo e violento del dopoguerra, orientano gli spettatori attraverso un duplice codice comunicativo, il binarismo linguistico che segna la narrazione del film sulla violenza di genere che qui analizziamo.

C'è ancora domani, Ivano e Delia

C’è ancora domani, Ivano e Delia

Una dialettica che si rintraccia nei gesti simbolici che fanno da contorno/collante alle scene rappresentate: quel rossetto cancellato con le dita dal fidanzato della figlia, emblema del possesso e di una retorica puritana, imposta dal virile uomo cui era promessa la giovane Marcella; segno, ancora una volta, di arcaismi misogini, che ben rimandano alle restrizioni di cui sono vittime a tutt’oggi le donne dei Paesi extra-occidentali; alla scena principale di violenza domestica, in cui il marito di Delia, come si conviene, elargisce ceffoni e colpi di ogni sorta sul corpo della moglie, caden­zato da un paesaggio sonoro affidato alla voce di Mina che con la canzone “Nessuno ti giuro, nessuno” ria­pre varchi sottili delle inferenze più recondite e dualismi significativi: ballate con le donne, piuttosto che picchiarle! Al gesto conclusivo del film in cui le donne, finalmente, hanno diritto di voto, e, per sigillare la scheda elettorale, devono cancellare il rossetto dalle labbra. Una simbologia del silenzio e della narra­zione, racchiusa nelle labbra delle donne. Ora tacciate, ora interpellate; in quel metalessico gioco di tem­pi e spazi narrativi, politico-simbolici ed emancipativi, in cui il tempo storico (Kairos) evocato è quello del voto, e della rivalsa antigoniana dell’identità politica di donna. 

Ma tutta la pellicola sembra un romanzo a pieno di titolo, i cui protagonisti hanno dei ruoli specifici: il nonno paterno, maschilista per antonomasia, il cui figlio altro non è che il mero prolungamento; i par­goletti maschi a cui era concesso imprecare ad ogni occasione; la donna emancipata della merceria cui De­lia rammendava gli indumenti intimi, e il giovane bamboccione (collega di Delia), che in ombrelleria non distingue un cecio da un martello, ma viene pagato di più solo perché “Uomo”. Nonché il simbolo del vero amore, dell’uomo protettivo e rispettoso, rappresentato da Nino meccanico impoverito (ex fidan­zato di Delia), che fugge al nord per trovar fortuna, con le scarpe avvolte tra le pagine di un vecchio giornale. Infine, i promessi consuoceri etichettati come provinciali arricchiti, stereotipo nello stereotipo, rappresen­tanti la famiglia altolocata nella scala sociale dell’epoca e invidiata da molti.

Le musiche hanno fatto da collante alle scene in maniera impeccabile: da Lucio Dalla – voce narrante delle scene di indipendenza femminile e libertà – a Fabio Concato; nonché Daniele Silvestri che chiude la pellicola con questa scena catartica in cui le donne vanno a votare, tra le note di “A bocca chiusa”; en­nesimo ossimoro e, al contempo, sinestesia di una contro-narrazione del reale.

“C’è ancora domani” è un film profondamente ironico e veritiero. Nudo e denso al tempo stesso. Che non ha ricevuto fondi istituzionali, ma che ha sbancato ai botteghini. Segno che, anche stavolta, la politica ha messo il suo zampino, ma invano. Una perfetta decostruzione del reale, in cui il cuore di donna e madre passa dal risparmiare il denaro per il matrimonio della figlia al pagamento degli studi; uno scardinamento conti­nuo e una ribellione silente, ma audace. Contro ogni forma di costruzione sociale e politica che quel contesto così desolato, racconta una Roma vera che risorge come un’araba fenice. 

la Ceccherini in un murales

Giulia Cecchettin in un murales

Il racconto della violenza sulle donne: Giulia e il Narciso 

Quella che è stata apostrofata come “un’opera di scarso valore”, in realtà, è la più immediata narrazione che, denunciando fenomeni di violenza e stereotipi di genere, infastidisce certi perbenisti retrogradi, figli di un patriarcato sempre più radicalizzato e androcentrico, con l’unico intento di ingaggiare battaglie legate al monito della “obbligatorietà dell’eterogeneità” e di quel binarismo categorizzato e normativizzato nelle menti e nelle culture dell’Uomo. Illuminanti, in tal senso, le decostruzioni elaborate da Judith Butler, la filosofa politica statunitense, che sviscera le coordinate di genere legate ad una conce­zione deterministica ed evoluzionistica dell’essere, dichiarandone, piuttosto, la natura squisitamente cul­turale e socialmente costruita [2].

Parlare di violenza sulle donne, attraverso linguaggi plurali e meta-rappresentazioni iconiche e destruttu­ranti, quel 26 ottobre nelle sale cinematografiche, è stato profetico e lungimirante, poiché, raccontando la violenza sulle donne, preannunciava l’ennesimo femminicidio avvenuto un mese dopo, in cui Giulia Cecchettin, giovane donna 22enne, pronta a conseguire la sua laurea, diventa oggetto/soggetto di una bru­tale carneficina. Quello che nel film è interpretato da Ivano, marito di Delia, l’uomo “premuroso”, anni­chilente, ossessivo, padre-padrone, è emblematicamente rappresentato da Filippo Turetta, il 20 enne omicida, fidanzato “perdutamente innamorato” di Giulia.

Oggi Filippo è in carcere e attende la sentenza definitiva, i legali della ragazza presentano elementi pro­batori per chiedere l’aggravante della pena. I genitori dell’imputato non hanno la forza di incontrarlo e, nella giornata di oggi – 1 dicembre 2023 – sarà disposta l’autopsia sul corpo della giovane donna. Colpi brutali sferrati con una ferocia inaudita, percosse e urla, che allarmano un vicino, il quale, pronta­mente, chiama il 112; una cena pagata da Giulia che, nella logica del non-sense e della contraddittorietà, deter­mina l’emancipazione di comodo per il sesso debole”, l’uomo, in questo caso; oppure, frutto di un pensiero retoricamente paritario, che sfocia nell’uccisione dell’io incompleto, in una dialettica dell’auto­referenzialità misogina.

Ci si interroga continuamente sulle determinanti di queste pratiche tanatoprassiche, nella speranza di coglierne un’epistemologia dell’individuo ma, di fatto, né approcci biologico-riduzionisti, né teorie cro­mosomiche varie, sembrano sufficienti a spiegare simili obbrobri ontologici. Una lettura persuasiva è quella di Massimo Recalcati, psicanalista lacaniano, che così argomenta il femminicidio di Giulia, che tra le pagine di Repubblica: 

 «Presupposto del maschilismo è l’idea che la donna sia afflitta da una minorità ontologica, morale, e cogniti­va, oggetto passivo nelle mani dell’uomo […] Che quando esprime la sua soggettività femminile può provoca­re reazioni violentissime». 
C'è ancora domani,

C’è ancora domani

Ciò, continua Recalcati, è imputabile ad una «dipendenza anaclitica primaria», vale a dire: «La violenza diventa un’alternativa al lutto: ti uccido perché non accetto di non essere niente sen­za di te» [3]. Un Narciso contemporaneo, che attualizza i suoi complessi edipici riversandoli sulla vittima, poiché non riesce a identificarsi con la sua immagine riflessa tra le acque della coscienza. 

Sembra ragionevole convenire sul fatto che, al di là di categorizzazioni aprioristiche e paradigmi esplica­tivi, ciò che conta oggi è educare al genere e sollevare spiriti critici, per sopprimere forme di acquiescen­za supina, che si tramutano in standardizzazione del pensiero e omologazione illegale dei comportamen­ti sociali. 

Del resto: “C’è ancora domani!”. 

Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024 
Note
[1] Cfr. P. Bourdieu, La domination masculine, Seuil, 1998., trad. it. di A. Serra, Il dominio Maschile, Feltrinelli, 2014.
[2] Cfr. J. Butler, Questione di genere. Il Femminismo e la sovversione dell’identità, Roma-Bari, Laterza, 2023.
[3] M. Recalcati, «Il peso del fallimento e la ferocia di Narciso», in La Repubblica, 24 novembre 2023.

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Valeria Salanitro, ha conseguito una laurea magistrale in Scienze della Comunicazione Pubblica, d’Impresa e Pubblicità (curriculum Comunicazione Sociale e Istituzionale), presso l’Università degli Studi di Palermo; nonché un diploma in Politica In­ternazionale (ISPI) e uno in Studi Europei (I. Me.SI.). Ricercatrice indipendente, redattrice e autrice di molteplici contributi inerenti la Politica estera, le Scienze Umane e i Gender Studies. Ha collaborato con diversi Istituti e testa­te giornalistiche. Il suo ambito di ricerca verte sui Visual and Culture Studies e sulla Sociologia dei fenomeni Politici; si oc­cupa di immagini declinate in senso plurale, nonché dell’uso politico delle medesime nel contesto internazionale. Tra le sue pubblicazioni scientifiche annoveriamo: La rappresentazione mediatica dello Stato Islamico, edito da Aracne 2022 e Immagini di genere. Donne, potere e violenza politica in Afghanistan, Aracne 2023.

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