Cento anni. Basta solo dirselo, fare risuonare queste due parole nella propria testa, per aprire voragini, sgomento, fantasticheria. Cento anni sembrano a noi oggi impensabili. Letteralmente. Cento anni nel passato, cento anni nel futuro. Il 10 giugno del 1924, cento anni fa, veniva rapito e ucciso Giacomo Matteotti. Cento anni fa iniziava il periodo più buio del nostro Paese e della storia d’Europa. Cento anni dopo sembriamo così lontani da quel mondo, eppure così vicini. Cento anni di incubi, sogni, speranze, tragedie. Cento anni di futuro da quel giorno. Cento anni nel futuro, oggi, è davvero arduo immaginarli. Qualcuno diceva che studiare la Storia fosse importante per imparare dagli errori del passato e non ripeterli. Qualcun altro aggiunge inoltre che l’incapacità di saper indagare il passato si traduce nell’incapacità di immaginare il futuro. Ed è questa, probabilmente oggi, la tragedia più grande.
Abbiamo infatti ormai abbandonato l’idea di poter fare tesoro del passato studiando la Storia – troppe cose sono accadute, accadono e accadranno, a dimostrazione del fatto che dalla Storia la nostra specie impara non molto, non quanto dovrebbe, almeno. La storia tutta dell’umanità lo testimonia: ci sono infatti cicli, modelli, crisi ricorrenti, catene degli errori, che si ripetono nelle traiettorie delle civiltà, delle storie locali, regionali, continentali e così via.
A questa banale annotazione si associa una considerazione sul presente storico occidentale europeo ossia il fatto che da un punto di vista geopolitico, abbiamo delegato determinati ruoli ad altre potenze e consorzi internazionali, alimentando la cosiddetta “fine della Storia” che coinvolge, per esempio, il nostro Paese. Il risultato di ciò è che cento anni fa appaiono lontanissimi, distantissimi da noi. I drammi del Novecento europeo, le due guerre mondiali, i genocidi, i conflitti, sembrano appartenere a un passato remoto, a generazioni avulse a quelle contemporanee. Poi, invece, basta guardare le ultime elezioni europee per renderci conto che alcuni retaggi così lontani non sono, e quelle generazioni che oggi si autoproclamano “nel futuro” e “per il futuro” hanno invece molto a che spartire con gli animi, gli istinti, gli errori, gli orrori, di quelle di cento anni fa. Perché appunto cento anni fa sono inimmaginabili, nel futuro, così come nel passato. Ed è proprio per questo che siamo chiamati a ricordare, rinnovare e celebrare chi cento anni fa si schierava già dalla parte giusta dell’umanità. Chi cento anni era capace di atti di coraggio, di onestà intellettuale, di valore morale e chi invece voltava lo sguardo dall’altra parte, chi era complice dell’incubo totalitario e chi, pur lottando contro, si perdeva in un bicchier d’acqua.
Pensare cento anni fa non come preistoria ma come passato-presente recente ci obbliga a riflettere consapevolmente su fatti, personaggi e fenomeni in stretta correlazione con l’oggi, dirottando la riflessione sulla storia verso una pratica del pensiero critico in senso storico e non come mera speculazione aneddotica. L’effetto, a volte, può essere disturbante. Rileggere certi eventi con la reale percezione che “cent’anni” sono cento anni e non duemila, può essere disturbante sì, e proprio per questo necessario. Questa recuperata vicinanza storico-culturale però non porta con sé solo una forma strana di straniamento ma getta anche una nuova luce sul prima e sull’adesso, aiutandoci a comprendere alcuni fenomeni e a sviluppare un pensiero più fine.
Oltre a ciò, la carica drammatica di certi eventi e fenomeni può essere percepita più precisamente poiché più intimamente. E se è proprio quest’ultimo fattore forse quello che più potrebbe portare al perturbante vuol dire allora che siamo sulla strada giusta per non farci cogliere poi impreparati, straniati e stupefatti quando certe cose accadono nell’oggi. Certo, cento anni non sono neanche pochi, soprattutto se in questi cento anni sono accadute cose come una guerra mondiale, due bombe atomiche sono state sganciate su popolazione civile, altre guerre hanno generato orrore e sgomento, l’arrivo di internet, delle tecnologie digitali e informatiche, la globalizzazione, la guerra fredda, i movimenti per i diritti civili e via dicendo. Nel nostro Paese poi in particolare, il dopoguerra ha attraversato il boom economico, il terrorismo, gli attentati e il maxiprocesso alla mafia, gli scandali politici, l’ascesa di Berlusconi e la crisi della sinistra. Processi e fenomeni che hanno plasmato l’Italia sul piano storico e culturale, ma ne hanno anche influenzato la narrazione di sé. Nonostante ciò, cent’anni sono pur sempre cent’anni. E cent’anni fa l’Italia viveva il momento più buio dalla sua nascita. Fino ad ora.
Oggi, cento anni dopo, Giacomo Matteotti può rappresentare la figura chiave attraverso la quale rileggere questi cento anni, sia nel passato che nel futuro. Ne ha scritto Massimo Salvadori in L’Antifascista, Giacomo Matteotti, l’uomo del coraggio, cent’anni dopo (1924-2024), che raccoglie anche scelta di scritti di Matteotti e una cronaca di Andrea Caffi sui dieci giorni dell’assassinio, edito da Donzelli (2023). Grazie a questo volume riusciamo a immergerci nel contesto dell’Italia di quegli anni e attraverso uno sguardo che si concentra sullo sviluppo della figura di Matteotti è possibile ricostruire una testimonianza dal di dentro ma che si proietta fino ai giorni nostri, fino al futuro della nostra Europa. Ci sono momenti infatti in cui si possono scorgere quegli scenari che condurranno alla traiettoria politico-culturale del continente oltre che quella del nostro Paese. Come riporta l’autore, era proprio Matteotti, alla luce della Prima guerra mondiale, a sostenere che
«Il militarismo, che è essenzialmente violenza, non può limitarsi a funzione di giustizia […]. La vittoria della Triplice Intesa preparerebbe inevitabilmente nuove guerre; il popolo tedesco non potrebbe non preparare la rivincita».
«Matteotti fu l’uomo del coraggio», scrive l’autore. Così l’esperienza eroico-tragica di Matteotti può configurarsi come una cartina tornasole per leggere i suoi e nostri tempi.
«Per questo il fascismo volle che fosse consegnato alla tomba, così da farne tacere la voce. Dopo la fine del fascismo il modo in cui gestire l’eredità di Matteotti costituì per decenni un capitolo difficile, controverso, persino imbarazzante per la maggioranza della Sinistra italiana».
Scopriamo che Matteotti, di una famiglia di commercianti e proprietari terrieri agiati
«obbedendo al sentimento umanitario che avevano – in passato e in futuro avrebbero animato quanti indotti ad abbracciare l’ideale socialista e a lottare per la sua attuazione –, egli sentì la propria condizione come frutto di un ingiusto privilegio misurandola con quella opposta dei poveri braccianti e contadini che vedeva intorno a sé occupati a guadagnarsi un difficile pane e a spesso subire le angherie e le prepotenze dei padroni».
Un “sentimento umanitario” che lo stesso Matteotti evoca in un suo intervento alla Camera dei Deputati dove disse «noi giovani, specialmente, provenienti dalle classi borghesi, abbiamo abbracciato l’idea socialista per un alto ideale di civiltà e di redenzione insieme delle nostre plebi agricole». Contro gli estremismi rivoluzionari, la bulimia degli scioperi e contro tutte le guerre, Matteotti costruisce una propria particolare interpretazione del socialismo che ne segnerà il suo percorso politico ma non intaccherà, anzi forse caratterizzerà ancora di più, il suo coraggio e la sua capacità di intercettare precocemente il pericolo fascista invocando una unità fra le forze socialiste e le neoindipendenti comuniste. È proprio il percorso ideologico, intellettuale, pragmatico e storico di Matteotti lo porrà al centro delle faide interne della sinistra italiana dell’epoca, scoprendo così, suo malgrado, il punto debole che caratterizzò e, possiamo dire, caratterizza la sinistra italiana. Come ci racconta Salvadori, anche attraverso il saggio di Caffi, perfino alcuni leader della sinistra dell’epoca riservarono parole amare a Matteotti e alla sua stessa morte.
Nonostante, come detto, le idee di Matteotti si dimostravano lontane da alcune espressioni rivoluzionarie dei comunisti (una fra tutti, la necessità di vedere nello Stato un nemico), egli stesso dichiarò, come ci riporta Salvadori, che «da buon riformista, io non ho mai negato le possibilità e necessità rivoluzionarie», così come si mostrava la sua contrarietà al nazionalismo che
«non si limita a promuovere lo sviluppo di una Nazione nella propria capacità di produzione o di coltura, ma assai più si fonda sulla forza materiale e sulla capacità di dominare altri popoli e di sfruttarli. […] Il socialismo, al contrario, vuole la libertà di tutti i popoli e non può ammettere che la libertà e il benessere di una Nazione si fondino su la schiavitù e lo sfruttamento di un’altra. Di qui per Matteotti – che si univa a chi, come Luigi Einaudi, auspicava che il vecchio continente si avviasse verso la formazione degli Stati Uniti d’Europa – la missione propria dell’Internazionale socialista».
Salvadori ci guida quindi alla riscoperta di un Matteotti-chiave, come detto, che già intercettava idee, timori e speranze tutte contemporanee, cent’anni fa. Leggere oggi queste pagine può essere emozionante, così come può essere destabilizzante rileggere gli scritti di Matteotti stesso, le lettere alla moglie, il resoconto botta e risposte del discorso che lo portò ad essere ucciso, che l’autore sapientemente raccoglie in questo volume, prezioso anche per cogliere il Matteotti-uomo di cento anni fa oltre il Matteotti-eroe di oggi, in tutta la sua verticalità storica. Un personaggio che riscopriamo visionario, moderno, ma allo stesso tempo radicato in un mondo di idee e di eventi propri di quell’epoca, con una forte tensione morale e una cristallina vocazione al “fare la cosa giusta”. Il saggio di Caffi è inoltre essenziale ritratto dei giorni successivi al rapimento, al dibattito creatosi, alle reazioni della stampa, dei fascisti, dell’opinione pubblica, degli uomini della sinistra. Caffi parla di “assassinio premeditato” ricostruendo le minacce precedenti, l’omertà, il silenzio, la corruzione e la connivenza dei giorni seguenti.
A proposito del Matteotti uomo moderno, il volume ci permette altresì di scorgere anche la particolare attenzione che dedicava alla Scuola, della sua esperienza di confino in Sicilia, dove si cimentò lui stesso, a sue spese, ad essere maestro per scolari in difficoltà, commilitoni di una certa età. Scrive Salvadori:
«la scuola aveva da essere ai suoi occhi il luogo che, dai banchi delle elementari fino alle sedi universitarie, seguendo un percorso progressivo e diversamente funzionale, doveva da un lato istruire a vari livelli i giovani dall’infanzia all’età adulta, dall’altro educare e preparare al loro inserimento nella vita delle professioni. Alla scuola spettava il compito, dunque, di attrezzare le menti e dotare degli strumenti necessari a favorire lo sviluppo economico, sociale e civile. Ruolo fondamentale della scuola era poi quello non già di indottrinare in maniera unilaterale ma di dotare i giovani della capacità di capire in quale tipo di società vivessero, ponendoli in grado di compiere le proprie scelte personali anche in campo politico».
La scuola per Matteotti doveva essere al servizio dei lavoratori, volendoli «più istruiti affinché diventino cittadini più consapevoli, maggiormente in grado di combattere per i propri diritti e per gli obiettivi propri del socialismo»:
«Il socialismo non sta per noi in un aumento di pane e in un più alto salario; benché anche questo sia sacrosanto e indispensabile a ogni altro elevamento […]. Il Socialismo parte dalla realtà dolorosa del lavoratore che giace nella abiezione e nella servitù materiale e morale, e intende e opera a sollevarlo e a condurlo a miglioramenti economici e intellettuali, a Libertà sociale e a Libertà Spirituale, sempre più alte. Vuole cioè formare e realizzare in lui l’uomo che vive, fratello e con lupo, con gli Uomini, in una umanità migliore, per solidarietà e per giustizia».
Cento anni sono pur sempre cento anni. Lo si è detto. Ma alla luce di questa piccola riflessione su questo L’Antifascista di Salvadori, un libro breve, scorrevole, eppure densissimo, verticale, viene voglia di rimettersi proprio sulle sue pagine, ritornare a scorrerlo al contrario, leggere prima le lettere all’amata moglie che si trovano in appendice, o uno dei suoi scritti scelti, e ricominciare poi dall’introduzione. Poiché cento anni fa e l’oggi presentano assonanze e divergenze, peculiarità e similitudini da rintracciare, evidenziare, sondare, e con inquietudine e apprensione scoprire. Quando leggiamo di quel “sentimento umanitario” di cui parla Salvadori e poi ci guardiamo attorno, nel nostro presente, quando ripercorriamo gli aspri dibattiti in seno alla sinistra del tempo e ci sentiamo spaesati nel nostro presente, quando immaginiamo il clima di oppressione fascista e di angoscia dell’epoca e sentiamo forte l’urgenza della Resistenza, cento anni fa e nel nostro presente. E fra cento anni ancora.
Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024
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Giuseppe Sorce, laureato in lettere moderne all’Università di Palermo, ha discusso una tesi in antropologia culturale (dir. M. Meschiari) dal titolo A new kind of “we”, un tentativo di analisi antropologica del rapporto uomo-tecnologia e le sue implicazioni nella percezione, nella comunicazione, nella narrazione del sé e nella costruzione dell’identità. Ha conseguito la laurea magistrale in Italianistica e scienze linguistiche presso l’Università di Bologna con una tesi su “Pensare il luogo e immaginare lo spazio. Terra, cibernetica e geografia”, relatore prof. Franco Farinelli.
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