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di Roberto Manfredi
Negli ultimi decenni si è consumato un enorme disastro ambientale che è rimasto quasi sconosciuto in Europa e in Italia. È stato definito il più grave tra quelli causati dalla specie umana; ancor più grave perché era stato ampiamente previsto fin dal 1964 da studi appositamente commissionati e di pubblico dominio e ciò nonostante scientemente perseguito.
L’Aral era un grande lago salato, il quarto nel mondo per l’estensione di 68.000 chilometri quadrati, quasi tre volte la Sicilia. Per la sua grandezza si era conquistato il titolo di “mare”. Possedeva due immissari, i fiumi Amu Darya e Sir Darya, ma non aveva emissari. Il livello dell’acqua era mantenuto costante dall’equilibrio tra l’evaporazione e l’acqua portata dai due immissari. Ed era un lago molto pescoso.
Il villaggio in cui sono state riprese molte di queste fotografie, Moynak, nelle repubblica autonoma del Karakalpakstan in Uzbekistan, era un tempo una ridente cittadina sulle rive del Mar d’Aral. Dico “era” perché non ride più e perché l’Aral non c’è più.
I suoi abitanti si guadagnavano da vivere grazie alla pesca e alla lavorazione del pescato, che veniva inscatolato sul posto in una fabbrica i cui prodotti rifornivano tutta l’Unione Sovietica, di cui allora faceva parte l’Uzbekistan.
Ma nel secolo scorso una folle idea fu adottata nei piani quinquennali per lo sviluppo economico dell’URSS: sviluppare l’agricoltura in zone semidesertiche attingendo le acque necessarie all’irrigazione dagli immissari dell’Aral. Una follia: coltivare il cotone, una pianta che necessita grandi quantità d’acqua, nel deserto. Ma il cotone rendeva bene, più della pesca. Si sapeva che l’Aral sarebbe morto, ma si pensava di sfruttare anche le nuove terre emerse per questa coltivazione.
Le acque cominciarono a ritrarsi nel 1960, dapprima lentamente, poi dal 1980 il prelievo idrico divenne sempre più massiccio. Nel 2007 la superficie del lago si era ridotta al 10% di quella originaria: il 90% dell’Aral era sparito e le sue coste si erano ritirate a centinaia di chilometri da Moynaq.
Nel frattempo la salinità dell’acqua era decuplicata, rendendo impossibile ogni forma di vita. La pesca era divenuta impraticabile già attorno al 1980, e la flotta di pescherecci fu abbandonata ad arrugginire sul fondo prosciugato del lago.
L’URSS non abbandonò i cittadini di Moynaq: l’attività economica fu concentrata nella fabbrica di pesce, che continuò a inscatolare il pescato del Mar Baltico, trasportato in Uzbekistan da migliaia di chilometri di distanza, per poi essere ridistribuito a migliaia di chilometri di distanza.
Ma questa soluzione assurda non poteva durare a lungo. La dissoluzione dell’Unione Sovietica rese insostenibile questo sistema e la fabbrica, privata della materia prima, smise di funzionare e fu abbandonata. Gli abitanti della cittadina rimasero così senza risorse.
Oggi Moynaq e la zona circostante, private della loro risorsa principale, se non esclusiva, sono cadute nella miseria. Anche l’agricoltura è impossibile, perché le acque dell’Aral, evaporando senza essere alimentate da acqua nuova, sono diventate un concentrato di sale, fertilizzanti e pesticidi che poi ritirandosi hanno lasciato sul terreno.
A queste si sono aggiunte le scorie gettate in acqua da una base militare sovietica, situata in quella che era un’isola in mezzo all’Aral, e in cui si conducevano ricerche su armi chimiche e batteriologiche.
Questa base abbandonata ora si può raggiungere via terra e in essa sono tuttora stoccati fusti contenenti antrace e altri agenti batteriologici. Quando il clima diventa caldo e secco, il che accade molto spesso, il terreno diviene polveroso e il vento solleva questa polvere tossica che si deposita sulla città e i suoi abitanti, ma arriva anche a centinaia di chilometri: è stata segnalata perfino sull’Himalaya.
Ora Moynaq vive di espedienti. L’unica cosa che cresce sono dei miseri sterpi, buoni solo per le capre e le pecore. E l’unica attività economica che si può ancora praticare è una povera pastorizia.
Per il resto si vedono uomini e bambini aggirarsi tra le macerie di quella che era la fabbrica dove si inscatolava il pesce, alla ricerca di qualche rottame di ferro arrugginito che forse riusciranno a vendere per pochi spicci. Non c’è acqua corrente, non ci sono fognature. I bambini che giocano per le strade polverose, sorridendo felici come tutti i bambini, sono l’unica nota di speranza.
Questa è la storia. È strano oggi andare a visitare l’Aral, perché quasi nessuno ci va. Si va in Uzbekistan per vedere la favolosa Samarkanda, per visitare le antiche città che costellavano la via della seta, come Khiva e Bukhara.
Pochissimi vanno a visitare L’Aral, perché significa visitare qualcosa che non c’è, è un non-luogo, anzi un non-mare, pieno di non-acqua. Da quella che era la costa si può ammirare il mare svuotato che ora è un deserto di sabbia, rocce e sterpi. Si percepisce un enorme nulla, un’immensità vuota.
La quantità d’acqua sottratta è impressionante, cercare di pensarci fa girare la testa. Da lì si può scendere: ho camminato sul fondo del non-mare, pieno di non-vita: una distesa di chilometri di conchiglie bianche in mezzo a un deserto. Non sono le conchiglie fossili che da noi si trovano anche in montagna: sono conchiglie che solo pochi anni fa ospitavano un essere vivente e ora sono lì a tappezzare quello che era un fondale.
Ho passeggiato in mezzo ai pescherecci arrugginiti: navi fantasma che solcano il deserto, guidate da un faro spento che sorge ancora lassù, dove c’era la costa. Sono entrato nelle case di Moynaq, vi ho dormito, vi ho mangiato. In una casa c’era, appeso al muro, un calendario ricco di fotografie di paesaggi alpini, verdi freschi, ricchi di ruscelli, quanto di più lontano si possa immaginare dai paesaggi che si vedono lì. Non oso pensare all’acqua con cui hanno cucinato ciò che ho masticato. I servizi igienici erano un buco per terra dietro alla casa, appena riparato alla vista da alcune assi di legno.
Eppure le condizioni di vita nel resto dell’Uzbekistan sono più che dignitose. Ma forse qualcosa sta cambiando. Nel vicino Kazakistan, che con l’Uzbekistan condivideva il Mar d’Aral si sono avviati dei progetti per “resuscitare” l’Aral, progetti che cominciano a dare qualche frutto, ma per ora il governo Uzbeko sembra fare orecchie di mercante. Chissà che un giorno questo non-mare possa rivivere, risorgendo dalla polvere.
Dialoghi Mediterranei, n. 47, gennaio 2021
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