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Che fine faranno i luoghi? La città del futuro fra turismo, credenze e conflittualità

Firenze

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di Giuseppe Sorce 

Giugno 2009. Il caldo cocente fra le vie di marmo. Il bianco e il verde delle basiliche di pietra. E poi il fiume tanto raccontato da molti, dividere in due un mondo. Un ragazzo che lì viveva mi disse così, in una formula istantanea di psicopaesaggio che ricordo più o meno: “da questa parte dell’Arno è la città vera, da quell’altra ci sono i turisti”.

Ora, oltre qualsiasi manicheismo, restò indelebile per me quella prima volta. La prima volta in cui ho visto con i miei occhi la turistificazione. La prima volta in cui vedevo una fiumana passeggera di gente dividere letteralmente in due una città millenaria dal valore storico incommensurabile. Era caldo, ricordo, caldissimo, mi bruciai viso e braccia in un solo giorno. Ricordo Santa Maria del Fiore e il battistero risplendere nelle vette e ai piedi ricordo una stuoia senza fine di cappellini e occhiali da sole, “americani”, mi disse il mio accompagnatore. Ricordo il bianco delle loro vesti e il biondo delle loro chiome come in un gioco di specchi con il candore del marmo. Ricordo che la cattedrale era come una nave all’orizzonte, riuscivo cioè a vedere solo le parti più alte pur avendola vicina perché in mezzo c’erano solo turisti, turisti a perdita d’occhio. Non era il luogo di cui avevo letto nei poeti e narratori. Sembrava di guardare una tigre in gabbia o gli obelischi dell’antico Egitto dentro un museo. Solo che la cattedrale era lì da sempre.

Qualche ora più tardi mi era tutto abbastanza chiaro e le parole del mio accompagnatore avevano acquisito senso. “Questa parte della città è una vetrina”. Ed era vero. Nessuna metafora. “Noi fiorentini viviamo dall’altra parte del fiume”. Vere o no, estreme o no, poco importa, quelle parole raccontavano qualcosa che fino a quel momento non avevo mai davvero realizzato essere possibile. In Sicilia infatti, in quegli anni, i turisti non avevano ancora inciso sulla geografia del paesaggio urbano così come lo avevano fatto a Firenze [1] ma era solo questione di tempo.

Firenze

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Elena Nicolai parla di “diaspora” a proposito degli abitanti di Venezia nel suo Venezia: dell’isola bucata e delle diverse sue ossessioni apparso sul numero di luglio qui su “Dialoghi Mediterranei” [2]. E di diaspora si può parlare nell’interpretazione delle parole del mio accompagnatore fiorentino così come per il destino di molti abitanti di centri di interesse turistico nel nostro Paese. Perciò, è inutile girarci intorno: ci siamo sbagliati. Il grande tormentone del “potremmo vivere di turismo”, che soprattutto al sud povero e impoverito sempre di più continua a fare clamore, è una bufala, una fake news, un grade autocomplotto e autosabotaggio cognitivo. Salvo un cambio di paradigma radicale nelle politiche e nella civiltà nostrana (che dubito fortemente accadrà), il turismo di massa non porta alcun tipo di ricchezza alla popolazione cittadina, fatta esclusione per quell’esigua percentuale di individui che possiede uno o più immobili per affitti brevi, chi ha la possibilità economica di acquistarne uno, o chi possiede un qualche locale e/o magazzino da poter trasformare in uno dei tanti ristorantini tutti uguali che servono roba precotta e spritz scadenti.

Salvo quindi queste eccezioni davvero irrisorie in termini di numeri, in una città come Palermo che negli ultimi dieci anni ha vissuto l’inizio della turistificazione, i soli risultati sono stati un aumento del costo degli affitti nel centro città causata dall’impiego di molti immobili per affitti brevi e case vacanza, la spersonalizzazione di alcune vie e mercati storici diventati oggi un enorme ristorante a cielo aperto, gentrificazione. Se quindi alcuni proprietari si sono arricchiti, quale sarebbe l’arricchimento per tutto il resto della collettività? [3]

Ne parla Elena Nicolai. C’è infatti tutta una dimensione urbana di vita cittadina, odori, colori, suoni, botteghe, visi, vite, che la turistificazione porta via. Ed è chiaro. In termini di identità, i centri di interesse turistico in Italia la stanno perdendo o l’hanno già persa. Sulla scia della deriva cognitiva capitalista il fenomeno della turistificazione viene però spesso deviato verso quello dell’overturism ove l’oggetto di critica quindi non è il concetto stesso di turismo di massa bensì semplicemente il suo eccesso in termini quantitativi. “Ci sono troppi turisti” pare quindi sia il problema. Vari sono i tentativi per arginare questo fenomeno [4], tutti pressoché inutili o inefficaci.

Il nocciolo della questione, a mio avviso, è infatti un altro. Non si tratta più di sperare che qualcosa accada nella politica, nelle amministrazioni, nelle scelte di singoli imprenditori che possano elaborare soluzioni per contenere l’overturism o semplicemente renderlo più profittevole per chi ne può già sfruttare i guadagni. Non si tratta più nemmeno di utilizzare la turistificazione per incentivare opere pubbliche che abbelliscono il territorio senza però restituirne un reale beneficio per chi la città la vive e la abita nel quotidiano. Il rischio di ritrovarsi l’ennesima vetrina nel deserto è molto alto mentre la cittadinanza stessa parallelamente si defila, in cammino verso agglomerati periferici altrettanto spersonalizzanti e spersonalizzati. 

Palermo

Palermo

Prendiamo, per esempio Palermo appunto. Ha ancora senso continuare a chiedersi qual è il destino dei luoghi, del luogo e dell’abitare, in seno alla turistificazione? I luoghi esisteranno sempre se esistono individui e comunità. Quindi il punto è provare a intercettare che tipi di luoghi oggi si stanno formando lì dove prima c’era una comunità radicata che li abitava. I luoghi non esistono per-sé ma in una relazione con l’umano che li abita. Nel nostro caso quindi a cambiare prima di tutto è l’abitare. Un abitare fugace, di passaggio, un transito bulimico che si appaga della vista e di sapori presi in prestito. Il turismo di massa corrode qualsiasi altra forma dell’abitare [5]. Se a fare la magia dei luoghi oggi d’attrazione è il residuo della vita che in passato vi scorreva senza scampo, una turistificazione violenta sviscera proprio quella magia che si esaurirà lentamente fino a scomparire.

Abbiamo un piano alternativo a questo lento prosciugarsi del valore della meta turistica stessa? No. Se a rendere interessante allo sguardo è l’incrostarsi del tempo sulle mura degli edifici, l’intonaco staccato dei pilastri, il ferro mangiato dal sale sui balconi, la decadenza delle luci, dei mattoni, delle finestre, una volta gentrificato tutto, rinnovato, abbellito, moltiplicatone il valore commerciale, cosa resterà da guardare? Il rischio è di una omologazione diffusa che rende indistinguibili, per esempio, tutte le città mediterranee. I mercati storici, ormai stracolmi di tavolini e aperitivi di pesce, hanno perciò perso la loro identità, il loro essere luogo? Sì. Sono diventati altro però. Per ora il gioco funziona, i mercati conservano il loro essere mercato in certe ore del mattino, ma fra qualche tempo non ci sarà più nessun mercato in cui andare a mangiare perché mercato non lo sarà più. Nessuno scandalo. Nessuno shock. Nessun lutto. Nessun “turist go home” [6].

I luoghi cambiano. I luoghi sono conflittuali. I luoghi sono le relazioni dell’umano nello spazio. Nessun ritorno al passato è possibile in maniera forzata, dall’alto. Nessun decreto, legge, tassa, farà cessare questo processo. I luoghi cambiano perché cambia la società, cambiano le comunità, cambia l’antropologia di chi li abita, anche solo per un fine settimana, e di chi ci vive attorno. Bisogna quindi iniziare adesso a pensare non al luogo in sé, che è narrazione, bensì agli attori che attuano e popolano la narrazione e al suo contesto narrativo.

tourists-go-homeSi deve pertanto incominciare a immaginare l’impatto del cambiamento climatico nelle città e nell’abitare la città. Seppur esteticamente suggestivi, i centri storici sono spesso i più torridi, i più bisognosi di energia costante (aria condizionata, acqua corrente ecc.) e con le classi energetiche più basse. Nella città del futuro è quindi impossibile non immaginare conflitti. Diaspore, zone liminali, gated comunity [7]. La diaspora dei cittadini porterà alla formazione di nuovo luoghi di interesse. Ed è qui che, a mio parere, il margine di azione politico, amministrativo, culturale, può essere più determinante. E in assenza di una forma di intervento, ci penseranno le naturali relazioni degli abitanti con i nuovi spazi.

La turistificazione dei centri più grandi potrebbe essere un mezzo per contrastare lo spopolamento di alcune aree se ciò viene supportato adeguatamente da un’amministrazione attenta e lungimirante (una prospettiva poco realistica, a guardar bene). Cosa fare perciò se non rifugiarsi nel pensiero magico confidando che lo spirito di alcune città possa resistere e opporsi a tutto questo? È una domanda a cui non so rispondere. Ma se, come a Palermo, la scelta spesso che ci si prospetta è scegliere fra incuria e decadenza o rinnovamento per soli ricchi scesi dalle crociere un attimo prima, allora in cuor mio questa volta saprei la risposta.

Questa riflessione, che voleva essere appunto una riflessione geo-antropologica su paesaggio urbano e turismo di massa, si è trasformata più un grido d’allarme, un appello, un memoir militante, un’invettiva morale. Proprio perché i luoghi sono conflittuali. I luoghi riguardano la memoria, gli affetti, le emozioni, la Storia, le storie, i sogni, il cuore, l’utopia. 

Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024 
Note
[1] Con qualche eccezione ovviamente. Qualche anno dopo, infatti, andai a Taormina e mi resi conte che lì la turistificazione era avvenuta da tempo. Non sembrava più un paese bensì un set cinematografico.
[2] https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/venezia-dellisola-bucata-e-delle-diverse-sue-ossessioni/
[3] Possiamo al massimo parlare di un processo di impoverimento dovuto all’aumento di costi di affitti, cibo, servizi ecc.
[4]https://www.ilsole24ore.com/art/affitti-brevi-il-tar-toscana-divieto-firenze-non-e-piu-valido-AFwKFYiC; https://www.repubblica.it/venerdi/2024/02/01/news/airbnb_firenze_nardella_affitti_brevi-422029246/; https://www.wired.it/article/venezia-biglietto-ingresso-contribute-date-sito-ticket/#:~:text=Da%20quest’anno%2C%20chi%20vorr%C3%A0,di%20ingresso%20da%205%20euro; https://www.repubblica.it/viaggi/2024/06/21/news/barcellona_no_case_vacanza_dal_2029-423269237/;https://www.repubblica.it/viaggi/2024/07/26/news/santorini_lassalto_di_crocieristi_e_instagrammer_al_gioiello_delle_cicladi_numero_chiuso_dal_prossimo_anno-423415030/
[5] Nicolai fa riferimento nel suo articolo al rumore costante dei trolley che oggi popola i vicoli di Venezia a qualsiasi ora (cfr. nota 2).
[6] Le scritte sui muri contro i turisti e il turismo “turist go home” sono onnipresenti anche nelle capitali europee e nelle città di interesse storico e culturale in Italia, ossia la maggior parte dei centri.
[7] Ne discute ampiamente Nicolai (cfr. nota2).

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Giuseppe Sorce, laureato in lettere moderne all’Università di Palermo, ha discusso una tesi in antropologia culturale (dir. M. Meschiari) dal titolo A new kind of “we”, un tentativo di analisi antropologica del rapporto uomo-tecnologia e le sue implicazioni nella percezione, nella comunicazione, nella narrazione del sé e nella costruzione dell’identità. Ha conseguito la laurea magistrale in Italianistica e scienze linguistiche presso l’Università di Bologna con una tesi su “Pensare il luogo e immaginare lo spazio. Terra, cibernetica e geografia”, relatore prof.  Franco Farinelli.

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