CIP
di Francesco Del Casino
Sono le nove, facciamo una colazione veloce in un agriturismo che abbiamo trovato casualmente ieri sera sotto il paese di Santarcangelo (Matera). Fortunatamente si tratta di un vero agriturismo dove si mangiano i prodotti della fattoria. Siamo nella val d’Agri nel mezzo di una distesa di olivi. L’agriturismo è gestito da uno strano personaggio, rampollo di una nobile famiglia, che in passato, era proprietaria di gran parte delle terre della zona. Ieri sera, quando siamo arrivati, ha cominciato a raccontarci la storia della sua famiglia e a snocciolare il suo albero genealogico.Si chiama Decio. In un primo momento io, che sono molto diffidente, ho pensato che si trattasse di un chiacchierone e millantatore, invece mia moglie Francesca, che è molto più fiduciosa nel genere umano, si è messa a fargli domande su domande.
La storia della masseria parte da un antico insediamento di un monaco basiliano e il racconto, per arrivare ai giorni nostri, ha richiesto un bel po’ di tempo. Più tardi, facendo qualche ricerca sulla rete relativamente a questa famiglia, mi sono dovuto ricredere: era un po’ troppo loquace ma veritiero oltre che molto divertente. Se a tutto questo aggiungiamo poi il cuoco romano dalla vita avventurosa e dalle infinite risorse, possiamo davvero dire che non ci siamo annoiati.
Partiamo per Aliano. Basta svoltare a destra al primo incrocio e puntare verso la catena di calanchi grigi e bianchi che costeggiano il fiume Agri e subito ci appare abbarbicato ad una collina scoscesa Alianello: tutto intorno un mare di calanchi cretacei a perdita d’occhio.
Poco più avanti un cartello ci informa che siamo sulla ‘Strada dei Calanchi’, uno spettacolo veramente impressionante. Il confronto con le nostre crete toscane di S Quirico d’Orcia o di Asciano ci rivela che siamo in presenza di un paesaggio più duro e molto più selvaggio, non domato dall’uomo e dai suoi trattori. Quasi tutti i paesi della valle d’Agri hanno due insediamenti con lo stesso nome: Alianello vecchio e Alianello nuovo, Santarcangelo antico e Santarcangelo nuovo e così via.
Ancora sei o sette chilometri e, strabuzzando gli occhi nel passare da un paesaggio all’altro, siamo arrivati ad Aliano, il paese dove fu confinato lo scrittore e pittore Carlo Levi fra il ’35 e il 36. Dietro una curva il primo pezzo di paese ci appare sulla sinistra all’improvviso: una manciata di case su un cucuzzolo a strapiombo su un dirupo. Forse si tratta della “fossa del bersagliere” di cui parla Levi nel suo famoso libro Cristo si è fermato a Eboli. Più tardi scopriremo che lì c’è la casa in cui Levi ha abitato negli ultimi mesi del suo soggiorno ad Aliano.
Posteggiamo la macchina nella piazzetta che si apre un po’ più avanti sulla destra vicino alla “casa con gli occhi”. Si tratta di una bella casa in mattoni rossi con scale esterne, un po’ bizzarra. È stata restaurata accuratamente, forse anche troppo da sembrare quasi una casa colonica del Chianti. Sulla parete in basso c’è una targa in terracotta che riporta uno scritto di Levi con la descrizione della casa. Queste targhe in cotto sono murate in varie parti del paese e descrivono l’abitato con gli occhi dello scrittore.
Veniamo a sapere che c’è una ‘Pinacoteca Carlo Levi’, ma non è ancora aperta. Visto il grande caldo ci infiliamo dentro al primo bar che troviamo dove c’è un’aria condizionata a palla e vari giovani del paese che bevono Spritz e birra Ichnusa. Ci domandiamo se questi ragazzi sanno da dove proviene quella birra. Quando nel 1965, io arrivai ad Orgosolo in Sardegna, nei bar tutti bevevano birra Ichnusa dopo aver consumato tutta la produzione locale di vino, anche quello acetato. Francesca chiede al barista quanto sia lontana la tomba di Carlo Levi. Ci risponde distrattamente che si deve fare una bella scarpinata sotto il sole, non è certo una passeggiata!
Uscendo ci viene da pensare se questi ragazzi abbiano mai letto una pagina del Cristo si è fermato a Eboli e quale sia il loro rapporto con la presenza, forse un po’ invadente, del grande scrittore.
Mentre ritorniamo verso la Pinacoteca passiamo davanti ad un gruppo di vecchie case semi-crollate dove dei muratori stanno lavorando. Ci domandiamo in che modo verrà ristrutturata questa casa. Si conserverà, almeno all’esterno, la fisionomia delle vecchie abitazioni o si farà piazza pulita di tutto e si costruirà un’anonima palazzina, fatta da un anonimo geometra come abbiamo visto un po’ più avanti dove il corso principale del paese è stato recentemente pianellato di pietra pregiata. Gli interventi urbanistici moderni in un ambiente antico, anche se povero, costituiscono un problema pressoché irrisolto. Speriamo bene, ma la trave in cemento armato gettata di recente non fa sperare niente di buono.
Arriviamo in un bel cortile di una grande casa che guarda la vallata dei calanchi. È la Pinacoteca Carlo Levi. Le due donne che gestiscono la struttura ci accolgono festosamente e con estrema gentilezza. Nella prima grande sala vi sono numerose foto che ritraggono lo scrittore-pittore nelle varie fasi della sua vita e un bellissimo quadro ad olio dipinto ad Aliano che rappresenta due giovani ragazzi. Si tratta di uno dei più bei quadri di Levi. Fa piacere che il comune di Aliano sia riuscito ad accaparrarselo e che sia qui, nel luogo in cui è stato dipinto nel lontano ’36.
La signora più anziana conosce benissimo tutto quello che riguarda la vita dello scrittore e ci dà tutte le spiegazioni possibili, anche quelle relative alla genesi della Pinacoteca. Noi, per non essere da meno, le raccontiamo che siamo di Orgosolo e che Carlo Levi venne due volte in paese, dove scattò una decina di fotografie e ci scrisse sopra il libro: Tutto il miele è finito. La signora conosce il libro e si entusiasma. Ormai siamo in famiglia. Francesca le dà del tu e le racconta di essere stata fotografata quando aveva pochi mesi in braccio a sua madre proprio dallo scrittore che stranamente aveva con sé una macchina fotografica ed era accompagnato da un suo parente di Orune, tziu Godewald Davoli (archeologo e allora acceso militante del PCI).
In tutto questo accavallarsi festoso di informazioni e ricordi, mi dimentico di chiedere alla nostra amica se conosce il nome del fotografo che ha scattato alcune foto di Levi quando era confinato. In una fotografia Levi appare mentre dipinge al cavalletto forse sopra la terrazza della casa dove abitava, in altre due o tre si tratta di foto di gruppo con gente del luogo dove lo scrittore appare con i pantaloni alla zuava, come andava di moda allora tra la borghesia cittadina. Mi sembra di ricordare di una visita della sorella di Levi ad Aliano e mi piace pensare che potrebbe essere stata lei la fotografa.
Più avanti, in un’altra foto, lo si vede in compagnia del pittore spagnolo Josè Ortega, fuoriuscito antifranchista che negli anni settanta viveva a Matera. Lo faccio presente alle nostre due amiche che però non sono mai andate a visitare la casa-museo di Ortega a pochi chilometri da qui nella parte più alta del Sasso Barisano. Anche Ortega venne ad Orgosolo in una sera di primavera e portava lo stesso mantello nero che si vede nella foto. Era accompagnato da Ignazio Delogu, allora responsabile per il PCI dei rapporti culturali con la Spagna e l’America Latina. Girovagarono fino a notte inoltrata per le case di Orgosolo trovando sempre una porta aperta: bei tempi!
Nelle altre stanze vi sono una ventina di quadri degli anni sessanta- settanta, almeno cinque o sei sono autoritratti, due degli ultimi anni di vita. Poi, in una stanza senza finestre, si trovano dieci litografie espressamente dedicate e regalate al popolo di Aliano. Proprio qui troviamo un’ultima chicca: una lettera vergata su un foglio di carta litografica scritta con calligrafia un po’ incerta, con varie cancellature che accompagnano la donazione delle litografie.
Ci abbracciamo e baciamo con le signore della Pinacoteca, scambiandoci gli indirizzi mail. Mentre stiamo per uscire arrivano due bellissime donne. Sentiamo che si informano sui percorsi di trekking nella vallata dei Calanchi. Viene risposto loro che con il caldo di oggi sarà dura camminare sotto il sole in percorsi che presentano molte difficoltà, ma le due donne non sembrano impensierirsi e intanto vanno a prenotare una camera nel vicino B&B.
Usciamo sotto un sole che batte sempre più forte, l’acqua della cannella è molto calda e non dà alcun refrigerio e, come ci succede spesso, non si sa per colpa di chi, ci perdiamo fra le poche case del rione. Quando ci ritroviamo Francesca mi racconta che ha trovato due signori anziani che cercavano un posto dove ci fosse un po’ di aria. Ha detto loro che il paese le è sembrato bellissimo e uno dei due ha replicato:”Signò… se lo vuole comprare noi lo vendiamo tutto in blocco, qua non ci stanno i servizi … vanno via tutti!”
Torniamo un po’ indietro, passiamo davanti al busto in bronzo di Levi. Come succede sempre l’hanno fatto un po’ più bello. Ci dirigiamo verso la casa dove ha abitato, credo, per sei mesi. La casa è a strapiombo sulla “fossa del bersagliere”. Al piano terra c’è un vecchio frantoio dove hanno sistemato il museo della maschera e della civiltà contadina- La maschera di Aliano è una maschera in cartapesta un po’ demoniaca. Forse è per questa ragione che, come ci è stato detto, sono venuti qui i “mammuthones” di Mamoiada. Sopra c’è la casa dove viveva Levi e al piano superiore una bella terrazza con una vista incredibile sulla vallata dell’Agri. Qua e là si trovano murali eterogenei fatti da studenti delle scuole sempre ispirati alle opere pittoriche di Carlo Levi.
Riprendiamo l’auto che nel frattempo è diventata un forno e ci dirigiamo verso la parte alta del paese dove si trova il cimitero. Troviamo una statua in bronzo di Padre Pio che ci guarda accigliato dal bordo della strada. Gli hanno messo intorno al collo una lunga corona del rosario. Abbiamo visto una statua ancora più grande all’entrata di Diamante. Possiamo sicuramente dire che in questi quindici giorni di vacanze, fra la Calabria e la Basilicata, lo sguardo di questo frate non ci ha mai abbandonato!
Appena entrati al camposanto, ci dirigiamo verso sinistra dalla parte che guarda lo strapiombo dei calanchi e troviamo la tomba. È una tomba semplice con il nome e cognome dello scrittore e un mucchietto di sassi sopra, secondo la tradizione ebraica. Chissà perché ma questa tomba di tradizione ebraica mi fa venire in mente un grande cimitero musulmano che ho visitato alcuni anni fa in Libia. Anche in quel caso vi era un’estrema semplicità: solo una pietra conficcata in terra e qualche sasso. Potrebbe essere un segno dell’origine comune di queste due religioni.
Salutiamo il nostro caro Carlo e ce ne andiamo a vedere se, alle due del pomeriggio, riusciamo a trovare un posto dove mangiare qualcosa. Una persona del luogo ci dice che oggi è di turno il ristorante dietro la chiesa. Visto che siamo vicini, diamo un’occhiata all’interno della chiesa. Non si sa mai. Ieri a Sinise nella chiesa di S Francesco abbiamo trovato uno straordinario polittico in stile tardo-quattrocentesco di un pittore toscano attivo nel Meridione d’Italia, certo Simone da Firenze, sconosciuto ai più ma di grande mano. Questa volta però non abbiamo avuto fortuna: la chiesa è un’anonima chiesa neoclassica senza niente di interessante.
Però c’è la solita statua di Padre Pio e l’altrettanto immancabile quadro del Cristo di foggia zeffirelliana con i raggi che gli escono dal cuore. Mi ricordo che l’ultima volta che siamo andati in Messico, in una chiesa di Querèretaro, ho visto una statua in cartapesta dello stesso Cristo con i raggi fatti con i tubi di neon colorati: davvero il massimo del cattivo gusto.
Alle due in punto entriamo in questa semplice trattoria. L’ambiente è fresco e si sta bene. Alle pareti vi sono due foto di quadri di Levi. Ci viene portato il menu ma è praticamente inutile: c’è solo un primo e due secondi. Accettiamo tutto quello che ci propone il padrone di casa. La scelta è stata ottima, la cucina veramente buona e genuina e il conto più che modesto. Quando usciamo la padrona. che è anche la cuoca, ci saluta dalla cucina con giovialità.
Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024
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Francesco Del Casino, Maestro d’arte prima all’Istituto d’arte di Siena, poi al magistero di pittura dell’Istituto d’arte di Firenze. Dal 1963 affianca l’attività pittorica all’insegnamento di educazione artistica. Nel 1965 si trasferisce ad Orgosolo e al lavoro di pittore unisce il ruolo di militante politico e operatore culturale. Inizia la produzione di manifesti e, dal 1975, la realizzazione di murales a Orgosolo e in altri paesi della Sardegna. Nel 1991 rientra in Toscana e avvia un’intensa attività di ceramista. Nel 2003 dipinge il drappellone del Palio di Siena. Mantiene tuttora stretti rapporti con la Sardegna attraverso la sua attività di muralista, ceramista e pittore.
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