All’inizio del ‘900 Luigi Pirandello, in occasione di un’ordinanza del sindaco di Roma avversa all’uso delle parole straniere nelle insegne dei negozi, intervenne con un articolo, antipurista, ironico già nel titolo, Un trionfo nazionale, apparso sulla «Gazzetta del popolo» del 26.I.1906 (riedito col titolo Per l’ordinanza d’un sindaco nel 1908, rist. nei suoi Saggi e interventi, Mondadori 2006: 713-17, 1565-67).
Pirandello fa riferimento in particolare a termini quali chauffeur (il miglioriniano autista risalendo al 1932), frack («marsina»), pardessus («soprabito»), passe-partout (dei quadri «sopraffondo»), salon («barbiere, barbieria»), tout-de-même («vestiario completo»), vient-de-paraître (‘novità libraria’), bijouterie («bigiotteria»), chemiserie. Il tono di Pirandello è di pungente ironia verso l’ordinanza. Nella brillante chiusura dell’articolo, a proposito di chemiserie («camiceria»), con ironico gioco dichiara infatti di non voler affatto sostituire tale termine.
«Consiglio, infine – scrive Pirandello – a quel negoziante di camicie […] di non toccare affatto […] la sua insegna francese, che è un vero monumento! Francese sì, ma si può leggere benissimo anche in italiano, senza alterare il senso […]. L’insegna dice: Che miserie».
È quello che ci è subito venuto in mente quando i mass media hanno puntato i riflettori sulla proposta di legge (A.C. n. 734) di 23 deputati, risalente peraltro al 23 dicembre 2022 (ma identica a quella presentata da 31 deputati il 31 maggio 2018, A.C. n. 678), primo firmatario sempre il vicepresidente della Camera, Fabio Rampelli, di Fratelli d’Italia, che riguarda le “Disposizioni per la tutela della promozione della lingua italiana e istituzione del Comitato per la tutela, la promozione e la valorizzazione della lingua italiana” (“Istituzione del Consiglio superiore della lingua italiana” nel titolo del 2018), costituita da 8 articoli.
Il “clou” della proposta è costituito dall’art. 8 che prevede “Sanzioni”, ovvero:
«La violazione degli obblighi di cui alla presente legge comporta l’applicazione di una sanzione amministrativa consistente nel pagamento di una somma da 5.000 euro a 100.000 euro».
Il testo della proposta è preceduto da un commento sulla legge, che lascia come vedremo non poco perplessi. Da tener ancora presente che entrambe le proposte del 2022 e del 2018 riprendevano “perfezionandola” la proposta di legge n. 2689 del 15 settembre 2009, promossa da 52 deputati, primo firmatario Frasinetti, intitolata “Istituzione del Consiglio superiore della lingua italiana”, costituita da 4 artt.: Art. 1 “Istituzione e composizione del Consiglio superiore della lingua italiana” (con 7 cpv); Art. 2 “Finalità e competenze del CSLI” (in 5 cpv, e ulteriori suddivisioni), con indicazioni analoghe a quelle delle successive proposte di legge del 2018 e 2022. Il tutto preceduto da un commento non poco contestabile, ma con rinvii a linguisti noti come Claude Hagège e Giovanni Nencioni 1999. Da rilevare altresì che l’art. 4 riguardava la “Copertura finanziaria” prevista come «spesa annua di 1 milione di euro a decorrere dall’anno 2009», sostituita nelle proposte del 2018 e 2022 dalle sanzioni pecuniarie.
Gli otto articoli della proposta del 2022 in prevalenza si soffermano su quello che si può definire il problema della “macrofedeltà linguistica”, peraltro condivisibile, ovvero sull’obbligo dell’uso della lingua italiana non sostituibile da nessun’altra lingua, in particolare dall’anglo-americano che non viene qui mai menzionato, così:
Art. 2. “Utilizzo della lingua italiana nella fruizione di beni e di servizi”;
Art. 3. “Utilizzo della lingua italiana nell’informazione e nella comunicazione”;
Art. 4. “Utilizzo della lingua italiana negli enti pubblici e privati”;
Art. 5. “Utilizzo della lingua italiana nei contratti di lavoro”; o
Art. 6. “Utilizzo della lingua italiana nelle scuole e nelle università”.
Una esagerazione invece è il comma 2 dell’art. 3, vista anche la sanzione di 5.000/100.000 euro:
«Per ogni manifestazione, conferenza o riunione pubblica organizzata nel territorio italiano è obbligatorio l’utilizzo di strumenti di traduzione e di interpretariato, anche in forma scritta, che garantiscano la perfetta comprensione in lingua italiana dei contenuti dell’evento».
L’art. 7 prevede poi un “Comitato per la tutela, la promozione e la valorizzazione della lingua italiana” che, come indicato al comma 5 in 6 punti (a-f), svolga compiti diversi, senza però poter disporre di fondi da investire, ovvero tutti “a costo zero”. En passant, il Comitato prevede la presenza di «un rappresentante dell’Accademia della Crusca», che ha peraltro lamentato per bocca del suo presidente Claudio Marazzini la mancata previa consultazione.
Alcuni compiti sono decisamente banali e generici. Così: «a) la conoscenza delle strutture grammaticali e lessicali della lingua italiana»; «c) l’insegnamento della lingua italiana nelle scuole di ogni ordine e grado e nelle università». Altri sono estremamente problematici, così «b) l’uso corretto della lingua italiana e della sua pronunzia nelle scuole, nei mezzi di comunicazione, nel commercio e nella pubblicità». Cosa sia l’uso “corretto” dell’italiano e “della sua pronunzia” è una questione estremamente complessa, legata alla variazione sociolinguistica dell’italiano, posta qui in maniera a dir poco semplicistica.
Più comprensibile è il compito di «promuove[re]» «e) nell’ambito delle amministrazioni pubbliche, forme di espressione linguistica semplici, efficaci e immediatamente comprensibili, al fine di agevolare e di rendere chiara la comunicazione con i cittadini anche attraverso strumenti informatici». Ciò sembrerebbe una ripresa della politica del Codice di stile delle comunicazioni scritte ad uso delle amministrazioni pubbliche, promosso dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, nel 1993, Sabino Cassese essendo ministro della Funzione pubblica, e Tullio De Mauro l’ispiratore. In questo caso, bisognerebbe riprendere corsi di formazione degli amministrativi a tale fine.
Anche il problema «f) [del] l’insegnamento della lingua italiana all’estero, d’intesa con la Commissione nazionale per la promozione della cultura italiana all’estero, di cui all’articolo 4 della legge 22 dicembre 1990, n. 401», è certamente importante. Ma con quali fondi a disposizione della Commissione non è detto.
Nel commento che precede gli artt. della legge si ricordava che la Svizzera «Nel progetto sulla cultura 2016-2020 ha stanziato fondi per rafforzare la presenza della lingua e della cultura italiane nell’insegnamento e nella formazione bilingue, anche attraverso una serie di manifestazioni culturali».
Invece, il punto che prevede «d) l’arricchimento della lingua italiana allo scopo primario di mettere a disposizione dei cittadini termini idonei a esprimere tutte le nozioni del mondo contemporaneo, favorendo la presenza della lingua italiana nelle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione», ‘olezza’ di neo-purismo, data l’implicita esclusione dei prestiti di altre lingue, soprattutto l’anglo-americano portatore di un innegabile prestigio culturale e scientifico mondiale. Così come di neo-purismo e di logicismo alla Tappolet ‘puzza’ nell’art. 4 comma 2 il riferimento a «Le sigle e le denominazioni delle funzioni ricoperte nelle aziende che operano nel territorio nazionale [che] devono essere in lingua italiana», mentre «È ammesso l’uso di sigle e di denominazioni in lingua straniera in assenza di un corrispettivo in lingua italiana».
Il “livore” neo-puristico è invece lampante, come anticipato, nel commento relativo alla legge. Infatti in termini ‘terroristici’ si dichiara che:
- «l’infiltrazione eccessiva di parole mutuate dall’inglese, [...] negli ultimi decenni ha raggiunto livelli di guardia. Questi forestierismi ossessivi rischiano, però, nel lungo termine, di portare a un collasso dell’uso della lingua italiana fino alla sua progressiva scomparsa, e, in particolare, l’uso e l’abuso di termini stranieri rischiano di penalizzare l’accessibilità alla democrazia partecipata».
Nel commento a pag. 2 della precedente proposta di legge del 2018, la formulazione era ancora più radicale:
- «Questa anglicizzazione ossessiva rischia, però, nel lungo termine, di portare a un collasso dell’uso della lingua italiana, fino alla sua progressiva scomparsa, che alcuni studiosi prevedono nell’arco di ottanta anni».
E poi:
- «L’uso sempre più frequente di termini in inglese o derivanti dal linguaggio digitale è diventato una prassi comunicativa che, lungi dall’arricchire il nostro patrimonio linguistico, lo immiserisce e lo mortifica»;
- «l’“itanglese”, ovvero l’intrusione di vocaboli inglesi nella nostra lingua [...] spesso, rasenta l’abuso»;
- «il rischio ancora più grande è che si perda la bellezza di una lingua complessa e ricca come la nostra o che il suo inquinamento provochi una seria preoccupazione per il suo “stato di salute”»;
- «l’anglomania si riflette nelle scelte di istituzioni come la scuola e l’università, con ripercussioni sull’intera società»;
- «Non è più ammissibile che si utilizzino termini stranieri la cui corrispondenza italiana esiste ed è pienamente esaustiva»;
- «Occorre porre un argine al dilagare dell’utilizzo di termini stranieri al posto di quelli italiani».
Insomma, il naturale contatto interlinguistico con conseguente arricchimento è del tutto ignorato, anzi combattuto.
Ora, la posizione sopra espressa sulla difesa della lingua italiana e nei riguardi dell’anglo-americano non può non richiamare La politica linguistica del fascismo (titolo di un famoso testo di Gabriella Klein, il Mulino 1986); o Le parole proibite. Purismo di stato e regolamentazione della pubblicità in Italia (1812-1945) di Sergio Raffaelli (il Mulino 1983), o ancora Le parole straniere sostituite dall’Accademia d’Italia (1941-1943) di Alberto Raffaelli (Aracne 2010), per ricordare solo alcuni nomi.
La posizione presente in questa proposta di legge del dic. 2022, ci sembra però “più realista del re”, perché le normative fasciste non prevedevano sanzioni pecuniarie. Il che ha fatto scrivere a Guia Soncini nella rubrica “L’avvelenata” de “Linkiesta.it” (3 aprile): «Non sarà che con le multe per l’utilizzo delle terminologie forestiere ripianiamo il debito pubblico in un fine settimana?».
Dialoghi Mediterranei, n. 61, maggio 2023
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Salvatore Claudio Sgroi, già ordinario di Linguistica generale nel Dipartimento di Scienze umanistiche dell’Università di Catania, si è occupato in chiave teorica, storica e descrittiva, di storia della terminologia linguistica, di storia della grammatica, di sintassi, della formazione del lessico, della lingua italiana nelle sue varietà, di educazione linguistica, di divulgazione scientifica in varie sedi, da ultimo nel blog di Fausto Raso (<https://faustoraso.blogspot.com/>). È autore di circa 600 pubblicazioni, tra cui Per una Grammatica ‘laica’. Esercizi di analisi linguistica dalla parte del parlante (Utet 2010), Scrivere per gli Italiani nell’Italia post-unitaria (Cesati 2013), Dove va il congiuntivo? (Utet 2013), Il linguaggio di Papa Francesco [e la lingua degli Italiani] (Libreria Editrice Vaticana, LEV 2016), Maestri della linguistica italiana (2017), Maestri della linguistica otto-novecentesca (2017), Saggi di grammatica laica (2018), (As)saggi di grammatica laica (2018), tutti editi dalle Edizioni dell’Orso, Gli Errori ovvero le Verità nascoste, Centro di studi filologici e linguistici siciliani 2019), Dal coronavirus al covid-19. Storia di un lessico virale (Edizioni dell’Orso 2020); Trittico sciasciano con “giallo”. Quaquaraquà, mafia, pizzo (UTET Università, De Agostini 2021).
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