di Rosa Tinnirello
Sonno di Pietra di Enrico Sesto, pubblicato da Edizioni Lettere da Qalat (Caltagirone, 2024) con la pregevole introduzione di Tommaso Casini, è un viaggio inconsueto attraverso il territorio siracusano/ibleo in Sicilia. Luogo di enigmatiche culture arcaiche che ne hanno plasmato il paesaggio. Sesto ci fa riflettere sulla nostra natura polimorfica. Dopotutto, in origine, la Sicilia era abitata dai mostri e dai giganti, protetta dalle Grandi Madri e dalle divinità preolimpiche, di cui oggi abbiamo perso la memoria del culto.
Si tratta di uno scavo immaginale, alla ricerca di una cultura orale che ha lasciato tracce indelebili nel nostro territorio ma anche nei nostri usi e costumi. Sonno di Pietra è diviso in tre sezioni, livelli o ‘strati’: 1- Doppio passo 2- Infanzia dei Pupazzi 3 -Idoli e luoghi. La scelta di adottare modalità espressive e narrative di tipo differente non toglie che il testo risulti coerente e fortemente unitario, nello sforzo di rievocare e conferire una presenza sensibile alla medesima realtà immaginale e paradossale della nostra Sicilia. L’autore si racconta attraverso il suo io bambino e il suo io adulto per concludere il libro con la visionarietà mitopoietica degli Dèi nei luoghi. Le formule narrative, di volta in volta preferite, appaiono modulari e coese pur in assenza di un collante, proprio come le pietre dei muri a secco, dono di Ermes alla Sicilia.
Questo viaggio letterario ha inizio con la domanda di origine warburghiana ‘che ne è dell’antico?’ Sesto si pone questa domanda da molti anni e ha trovato la risposta nel suo territorio, nei luoghi di memoria della cultura rupestre siracusano/iblea. Proprio in questo momento del passaggio dall’analogico al digitale, rievocare l’antico ha una forza dirompente: quella di pensare l’impensato, per regalarci le radici pietrose che inutilmente cerchiamo nella volatilità del web, contenitore senza luogo e giocoforza senza memoria del sacro.
Il filo conduttore del libro è l’arte della memoria, il culto dell’immagine/anima che si occulta e si rivela, facendo del ricordo dell’antico il teatro di una ricerca conoscitiva. È l’immagine che testimonia la rinascita del paganesimo antico: lo fa attraversando la storia, plasmando i riti, i miti, le credenze degli uomini. Si inabissa e riappare attraverso l’inconscio, l’oro di una memoria mai sopita ma solo occultata.
Aby Warburg, fondatore dell’iconologia, è stato il primo a comprendere il senso e il valore dell’immagine come anima perenne della memoria. Il mistero del ritorno dell’antico fa capo al concetto di ‘sopravvivenza’ che ci permette di cogliere ‘il buon dio che si annida nei dettagli’. Quello di Enrico Sesto è uno sforzo archeologico, è un’opera di scavo nell’antichità che si risveglia grazie alla soluzione letteraria, che vivifica le immagini dimenticate, che, come fantasmi, riaffiorano dall’oblio per attraversare il presente.
Come ci insegna il grande storico dell’arte e della cultura immaginale Georges Didi-Huberman, il nostro presente è pur sempre lo spazio delle ‘Sopravvivenze’. Un ambito la cui persistente vitalità si deve alla forza sempre ritornante del passato, che, come la luce intermittente delle lucciole, ancora e di nuovo lo illumina, ne rinnova intelligibilità e senso. Il simbolo e l’archetipo sono figure permanenti del nostro immaginario. Le ‘Sopravvivenze’ invece sono ‘attraversamenti’, forze del passato che solo la creatività letteraria e artistica può risvegliare riportando luce e senso nella nostra contemporaneità. Sono le immagini degli Dèi nei luoghi, sono i fantasmi dei nostri antenati a permettere questo passaggio al mondo della memoria.
I Genii dei luoghi, mai sopiti, attraverso il teatro di memoria tornano a parlarci. Questo è il merito del libro. Sonno di pietra, amplifica dei segni che fanno parte della normalità, della quotidianità ma li ripulisce dalle incrostazioni dell’ignoranza e, per così dire, li estrae dal fondo plumbeo dell’ordinario, la cui banalità non suscita interesse né attira l’attenzione. Sesto così rievoca la nota cultura di origini rinascimentali della ‘dotta ignoranza’ che estrae l’oro della Sophia dal piombo del sonno di pietra attraverso la paradossalità, il pensiero obliquo, con l’obiettivo esplicito di un ritorno all’antico come all’età dell’oro, luogo della compiutezza dell’esistenza e della felicità per quanto essa è alla portata del vivente.
Ne emerge il ricordo di una cultura arcaica e feconda come spazio del sacro che ha mantenuto il rapporto con il non essere, quel non che Sesto ritrova negli esempi di tanta architettura ‘negativa’ del cavare invece che erigere, attitudine territoriale che nella sua scrittura diventa cifra compositiva e stilistica. Questo sacro arcaico nel paesaggio si legge in tracce e spie come segni di un paradigma indiziario, per dirla con il grande storico Carlo Ginzburg. A partire da indizi, resti, impronte e segnali, si può ricostruire l’insieme del paesaggio immaginale della Sicilia, la sua anima culturale. Le tracce racchiudono il passato, ma, come nella mantica, anticipano il futuro, e ci insegnano a prevederlo; dopotutto sono le orme e le scie delle prede, lasciate sul terreno, a permettere al cacciatore di catturarle. La scrittura di Sesto riesce attraverso lo scavo a rinnovare il ricordo, a riportare la luce del senso nel presente; dal punto di vista poetico è l’ispirazione dell’impensato che entra di nuovo nel mondo, che torna a conferirgli il senso obliato.
Nel paesaggio rupestre la memoria torna a rivestire il significato e l’importanza che ha da sempre avuto: ecco la culla nella tomba di cui tanto studiò le origini arcaiche il grande Bachofen, trovando nel culto dei morti l’origine della civiltà. Certo, il ‘sonno di pietra’ è segno di inattualità perché disegna un’archeologia del futuro nello sviluppo della genialità e della possibilità del sacro in loco. Nel libro di Sesto troviamo delle sorte di pellegrinaggi lungo il percorso dei quali è di nuovo possibile che la memoria diventi immaginazione. La doppiezza è rimasuglio di un pensiero antichissimo. Tutti i paradossi che vengono enunciati sono sempre a un tempo la ricerca e la premessa della congiunzione degli opposti. Nel sonno di pietra siamo trasportati nel mondo delle profondità ctonie, così poco nominate e così spesso occultate dal concetto dominante della solarità: la Sicilia è (ovviamente) sole, mare, luce e splendori architettonici di varie epoche; è sincretismo di diverse culture, tutte in qualche misura debitrici dei principi della bella forma, della levigatezza solare. È terra del mito e dei miti che l’hanno di tempo in tempo scoperta, colonizzata e abitata, ma non solo questo.
Sesto, invece, ci svela che è soprattutto terra di Misteri, di culture rurali di cui si conserva la Memoria immaginale attraverso i sogni portati dalle anime dei morti. I tesori di Ade sono i sogni: per interpretarli ci vuole la doppia vista, lo sguardo obliquo riflesso nello specchio. Le donne in particolare sono capaci di capire e smorfiare queste immagini, dono degli antenati per i loro cari e oro della fortuna. Ade fa in modo di non farci dimenticare i sogni e per questo ha inventato l’arte della memoria con la complicità del dio Ermes, protettore delle soglie, creatore delle pietre della memoria nell’aldiquà, per non dimenticare mai i messaggi dall’aldilà. I muri a secco, così caratteristici del nostro paesaggio rurale, sono le pietre della memoria, incastrate tra loro e non legate da nessun collante: è quella porosità che lascia spazio al passaggio delle immagini del ricordo. Le pietre, opportunamente disposte ed assemblate, sono unite tra loro senza l’uso di alcun legante o malta, come nella legge ermetica secondo la quale “come il pieno, così il vuoto, come il secco così l’umido”. Nell’incastro delle pietre secche c’è lo spazio dell’umido, lo spazio per il passaggio dell’acqua e delle anime dei morti, incarnate dai serpenti ctoni.
Anche in Sicilia come nella Grecia olimpica, le potenze ctonie e il culto dei morti erano tenuti ben separati dalla devozione per gli Dèi olimpici. Le divinità immortali del regno della luce erano disgustate dal regno dei morti. Lo stesso Ade era innominabile e non gli era associata nessuna forma di pratica devozionale, pur essendo il fratello di Zeus. Eppure, come scrive Burkert nell’imprescindibile La religione greca, il nutrimento viene dalle profondità ctonie, ‘il grano è l’oro dei morti’, ed è il dono di Plutone per l’umanità. Anche per questo Ade è soprannominato il ricco. E non solo per questo. Come scrive Sesto, il Signore e padrone del regno dell’oltretomba è in primis custode della memoria, in quanto protettore delle anime dei morti. Nel suo forno misterico Egli purifica gli spiriti dei caduti dall’umore vitale per renderli anime, messaggeri benevoli che come tali possono tornare nel mondo degli uomini.
Enrico Sesto ci ha aperto nuove prospettive sui Misteri di Sicilia, con la sua scrittura mitopoietica e suggestiva. Lo fa ad esempio reimpiantando i Misteri di Eleusi ai Campi Leontini. Per Sesto la Sicilia tradizionale della Grande Madre è anche l’oro di Ade in senso vitalistico. Il nihil di Ade non è sterile ma fecondo. Si tratta di una identità paradossale non fondata sul simile e sul medesimo ma sulla legge ermetica dell’analogia degli opposti. Questa immagine di Ade in Sicilia non è mai nominata, se non accennata da qualche importante studioso del mito, che poi lascia sempre la questione in sospeso per mancanza di fonti scritte e attendibili. Sesto, invece, grazie allo scavo letterario e a una sensibilità in grado di captare il non detto ci svela molto di più.
La natura ctonia della Sicilia si manifesta nei Genii dei luoghi: ninfe, naiadi, divinità marine e fluviali portatrici delle forze orizzontali, della liquidità mentale che si oppone alla linea retta, al verso composto, all’ordine apollineo. Per questo, ci spiega Sesto, la missione di Apollo a Siracusa si sarebbe rivelata fallimentare, perché il dio della luce e della bella forma armoniosa non avrebbe tenuto in debito conto le forze ctonie e refrattarie all’ordine geometrico che circondavano la città, dominando in particolare a Pantalica, necropoli arcaica abitata dagli antenati, capitale dei serpenti e delle divinità preolimpiche.
Nel suo insieme l’opera costituisce il succo estremamente sintetico di una lunga e approfondita ricerca, condotta da un uomo colto, raffinato, eccentrico. È frutto degli studi di una vita, di immagini che si sono fatte parole, di un lento pensare a piedi per scavare nell’anima dei luoghi.
Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025
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Rosa Tinnirello laureata in Lettere moderne all’università di Catania, ha conseguito un master in management culturale presso l’università Lumsa di Roma. Si occupa di social media management in ambito culturale. Ha scritto sul Giornale dell’Arte e ha collaborato con il portale Teknemedia.net. Scrive articoli e saggi critici seguendo il metodo warburghiano, alla ricerca delle ‘sopravvivenze’ dell’antico nella contemporaneità. Su Warburg ha pubblicato il saggio “Lo stile della ripetizione. Una lettura warburghiana” nel volume collettaneo Sullo stile, singolarità e formularità di un concetto edito da Lettere da Qalat nel 2019.
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