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Chi ha paura di Faro?

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il centro in periferia

di Lauso Zagato

Dopo la inattesa quanto apprezzata ratifica della Convenzione di Faro (CF), e il varo della legge contenente autorizzazione alla ratifica e ordine di esecuzione [1], si è diffusa una incertezza alquanto inquietante sui passi successivi. Assestati dietro le loro Maginot avversari, palesi o celati, riesaminano i passaggi del loro discorso di non accettazione, cercando di renderlo più saldo nei punti deboli, di adattarlo alla nuova situazione: se rigetto esplicito non può più essere, sia quanto meno banalizzazione dei suoi contenuti. Chi la ratifica l’ha voluta, sembra d’altro canto non dico pentito, ma preoccupato senz’altro. La ratifica non sarà da leggere allora come mero atto di forza, capriccio politico nel gioco dei poteri, che non va presa sul serio sul piano concreto? Qualche volta in questo ultimo mese, vecchietto paranoico che sono, mi viene il sospetto. Oppure, pur avendo le migliori intenzioni, l’esecutivo si è reso conto per strada di quanti avversari occulti conti la Convenzione, già nella ristretta cerchia dei membri del governo della cultura, anche tra coloro che si richiamano più o meno direttamente alle forze politico-culturali facenti capo all’attuale maggioranza? Oppure sarà la solita ansia di normalizzazione all’italiana, per cui ogni azione genera una controazione onde nulla si muova?

Resta che l’associazione Faro Venezia, cui appartengo, ha individuato/sta finendo di individuare un certo numero di quesiti richiedenti una spiegazione chiara, e sta elaborando ad un tempo le FAQ e le risposte. Ne sono fiero. Ciò significa peraltro che una serie di approfondimenti tematici mi sono al momento negati: si tratterebbe di scorretta appropriazione di un lavoro collettivo tuttora in corso, una sorta di insider trading. Nel contempo, è ancora troppo presto per un intervento collettivo dell’associazione, che spieghi cosa stiamo facendo e come. Il tema che dà il titolo a questo intervento, pur liberamente appropriabile, per così dire, non sarebbe d’altro canto sufficiente a giustificare un intervento in questa sede. Matura peraltro in me, alla luce di quanto dirò in seguito, il desiderio di prendere le misure di sagome ancora disegnate approssimativamente sull’orizzonte, di cominciare ad assumere confidenza con una narrazione che, quand’anche – temo – non fantasiosa, non può rientrare comunque nel qui ed ora del lavoro che stiamo facendo. Quello che segue è insomma un intervento fatto di due parti assai diverse, tenute assieme da un filo tenue.

Cominciamo con il tema che appartiene certamente al presente. Abbiamo (noi, quelli delle FAQ) un problema, qui ed ora. Il problema è il seguente: scelto un certo numero di domande chiave, sappiamo di dover semplificare le risposte. Ci è ben chiaro, ovviamente, che non possiamo produrre risposte adatte a delle dispense di un corso universitario di diritto internazionale, o qualcosa del genere.

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Ma quanti livelli di semplificazione produrre? E con quale target? Fare in modo che “chiunque” possa capire la Convenzione? Una tal scelta sarebbe generatrice a sua volta di quesiti. Limitiamoci al principale: chi diavolo sarebbe “chiunque”? Dove alligna questo “everyman/everyhumphrey” del XXI secolo [2]? Costui non è una mera astrazione, lo concedo: è però sicuramente una persona che non verrà, mai, a curiosare tra i nostri siti e le nostre bacheche virtuali (intendo Faro Venezia e gli altri siti di una rete in via di sviluppo che sta costruendo Faro Italia, piccola isola di positività nella situazione disperante in cui siamo immersi). Vivrà perfettamente a proprio agio tra televisione e smartphone, guidato da quei poteri forti dell’immateriale comunicativo che non possiamo più chiamare solo emergenti, dal momento che nella sin-demia [3] hanno conosciuto un ingigantimento del  proprio ruolo, operando al modo usato agli albori dell’allevamento dagli uomini nei confronti degli animali gregari: frantumazione del branco, sostituzione del capo branco con l’uomo, controllo soft, ma radicale, di un  individuo atomizzato, che vive isolato, de-socializzato.

Chi utilizza google come motore di ricerca del cellulare si accorgerà come più volte all’anno gli vengano presentate nuove condizioni, ogni volta più stringenti, soffocanti, ma sempre in forma gentile, tese – e come dubitarne? – ad aiutarlo. Per quanto mi sforzi di scrutare, non compare mai alla fine l’alternativa “ne riparliamo” oppure “per il momento andiamo avanti così, grazie”. C’è solo “accetto/non accetto”, sì o no [4]. E leggendo il documento, tra le righe, ti fanno capire con minaccia neppure tanto velata le disfunzionalità cui vai incontro nel secondo caso. D’altro canto, fino a quando non hai risposto, l’aggeggio torna ad essere un cellulare di vecchia generazione, buono solo a telefonare .. Nel tempo sindemico, 75enne bloccato a casa, li maledico, prefiguro fantastiche vendette e rese dei conti, ma poi finisco per cliccare su accetto. O almeno l’ho fatto finora; ho appena letto (ieri) ulteriori condizioni, e provo a rifiutare il clic, mi pare troppo. Ma per quanto resisterò?

Sto divagando, ma in ogni caso non vorrei essere equivocato. Non sono tra quanti vedono prossima la dittatura dei signori della comunicazione in quanto tali, in un mondo da incubo asettico, come in alcune proiezioni della vecchia fantascienza. Mi sembrano piuttosto i nuovi pastori, nuovi allevatori al servizio di nuove aristocrazie transnazionali. Dei signori dell’algoritmo temo piuttosto il valore aggiunto che essi portano in dote nella costruzione di tali poteri. Rimango, con eccellenti ragioni, fedele al pensiero marxiano che in una società capitalista da qualche parte ci deve essere estrazione del plusvalore assoluto; insomma, popolazioni di schiavi da pronto consumo. E in effetti, come sappiamo, ci sono, tutto attorno a noi, basta cercare. La grande differenza con il riformismo europeo della seconda metà del XX secolo, tra anni ’60 e anni 80’ diciamo, è proprio qua. Il regno dell’estrazione del plusvalore assoluto era “altrove”, la socialdemocrazia europea prometteva una società del plusvalore relativo sempre più socializzato, blando, impalpabile, sereno .. per l’Europa occidentale. Anche quando le grandi lotte operaie di fine anni ’60 cominciarono a scuotere la irreale narrazione imposta fino a quel momento, restava che il regno del plusvalore assoluto rimaneva altrove; un altrove in cui, alle sterminate distese degli uomini che vivevano in terre lontane, si aggiungevano le periferie del territorio metropolitano.

Adesso invece questo mondo altro è in mezzo a noi, in ogni luogo fisico del mondo. Mi spiego: a due chilometri (o anche meno) da dove, sulla costa turca, profughi, popolazioni in fuga dagli altri Paesi del Medio Oriente vengono accalcati, c’è il grande albergo, le risate dei ragazzini della borghesia locale fanno tacere i rari rumori degli avviati sull’altro percorso. E della differenza del dopo-approdo (sempre che le barche arrivino ..) già sappiamo tutto. Con una novità, a proposito di signori dell’immateriale: i giocattoli di queste bambine e bambini sono una versione povera di quelli dei nostri: sulla spiaggia turca [5] è rimasto qualche Mazinga Ufo-Robot, qualche versione meno cerulea di Barbie. Sarebbe come se nel Sud schiavista i “negretti” avessero giocato con una versione povera dei giocattoli dei loro padroncini: la spietata quanto sapiente colonizzazione dell’immaginario anche delle vittime è tratto saliente del nuovo dominio.

Insomma, tornando al punto di partenza, questo chiunque, questo mitico quisque de populo è esattamente il residuo impalpabile del trattamento ad opera dei “nuovi allevatori”. Non appartiene a comunità vecchie e nuove, non consulterà i nostri siti, non gli serve e non gli interessa. Escludendo questo chiunque, vogliamo dire allora che intendiamo parlare solo ai nostri? Sarebbe troppo semplice.

La gran parte delle persone, per fortuna, vive (ancora?) organizzandosi in comunità, attraversandole: effimere, cangianti, stabilizzate, irrigidite e pronte a ri-frantumarsi, creative, residuali, tutto un po’.  La Convenzione di Faro parla di comunità patrimoniali, intendendo – art. 2 b – (un insieme di) «persone che attribuiscono valore a degli aspetti specifici del patrimonio culturale, che essi desiderano, nel quadro di un’azione pubblica, sostenere e trasmettere alle generazioni future». A me pare che la nozione sia congrua a dar vita ad una radicale innovazione teorica: certo, questa evoluzione della vecchia idea di comunità è emersa non a caso all’interno dell’attuale processo di heritagization della cultura, ne è un prodotto. In questo senso la sua emersione è tipica espressione di attualità. Ma una volta elaborata, la nozione di comunità patrimoniale si applica sia in senso diacronico – molti eventi passati e comportamenti risalenti di gruppi più o meno variamente articolati possono trovare spiegazione in termini di comunità patrimoniali – sia in senso sincronico – molte comunità patrimoniali agenti non hanno la più pallida idea di esserlo. La nozione accende torce sul passato, offre squarci su possibili futuri. Le nostre FAQ, in prima istanza, parleranno a costoro.

8Abbiamo escluso i signori della comunicazione immateriale, il loro gregge, dobbiamo ovviamente aggiungere i poteri forti nel campo della cultura. Un paio di anni fa, non dico dove, venni invitato a parlare ad un convegno sul patrimonio culturale, e alla sventurata persona che aveva fatto il mio nome alle organizzatrici per l’evento, proposi di fare un intervento sulla Convenzione di Faro. Mi  accorsi che la ragazza non era entusiasta, ma non ebbe la forza di dissuadermi. Poi, nella sala, in verità bellissima e raffinata, capii presto il perché: già l’accenno alle nuove convenzioni UNESCO su patrimonio intangibile e diversità culturale aveva fatto corrugare un po’ di fronti, ma quando mi misi a parlare di Faro, comunità patrimoniali, approccio bottom up, sentivo senza vedere le signore alla presidenza mormorare, scandalizzate. Chiusi velocemente prima che con una scusa mi bloccassero, ma per punizione me ne dovetti stare per un’altra oretta al tavolo, creatura invisibile, non citata da alcuno degli intervenuti successivi, occhi/occhiali/voci mi che mi passavano attraverso. Queste persone non è che non avessero capito, avevano anzi capito fin troppo; non sono destinatarie dirette delle nostre FAQ.

Abbiamo finito con la lista? Nessun altro ha paura di Faro?

La patrimonializzazione della cultura, su cui non posso trattenermi, ha (predominanti) aspetti positivi, ma può creare anche mostri, identità irrigidite, chiuse ed ostili ad ogni valore: anche i suprematisti bianchi, per capirci, sono una (rete di) comunità patrimoniali. Ovviamente non lo sono nel senso indicato dalla Convenzione di Faro. È probabile che vari tra costoro una sbirciatina alle nostre domande e risposte la daranno, per leggervi la conferma della propria ostilità.

Aggiungo: dobbiamo porre dei quesiti (e sapervi rispondere) utili alle comunità plurime, portatrici di identità e saperi, individuali e collettivi, che stanno dentro già questi percorsi, essendone consapevoli; come pure a quanti stanno dentro simili percorsi, ma senza averne contezza. Orbene: non tutti coloro che aiuteremo a riconoscersi come comunità patrimoniale, cosa che prima ignoravano, si riconosceranno anche nel percorso e nei valori indicati dalla Convenzione di Faro; su alcuni l’effetto sarà contrario, insomma soggetti ed entità che hanno paura di Faro, avendone, dal loro punto di vista, eccellenti motivi, non solo ne troveremo senz’altro, ma inevitabilmente contribuiremo a crearne di nuovi. Non ci spaventiamo. A tutti costoro la (eventuale) lettura delle nostre FAQ+risposte, chiarirà le idee nel senso di prepararli meglio a combattere quella che a diversi tra loro apparirà manifestazione pericolosa di relativismo culturale. Ma sarà in ogni caso meno avvilente per la qualità del dibattito che, anche sfruttando la possibilità di leggerci senza sforzo (lo faranno, lo faranno) gli avversari della Convenzione possano smettere di ragliare sull’asservimento all’islamismo radicale e simili sciocchezze e, lungi dal venire a più miti consigli, dicano cose altrettanto inaudite nei contenuti (su ciò non mi illudo) ma più raffinate, più congrue a ciò di cui si parla. 

Bene. Come dicevo questa conversazione su chi ha paura di Faro era l’unico contributo che potessi dare in questa fase, per il motivo che ho detto all’inizio. E probabilmente non ne sarebbe valsa la pena. Resta però che fino a questo punto, il discorso sviluppato potrebbe essere risalente al 2019, quando nei mesi iniziali dell’anno pareva si andasse verso la ratifica; in tal caso si sarebbe aperto un dibattito, con inevitabili suggestioni o inviti a intervenire, probabilmente Faro Venezia avrebbe comunque scelto la via delle FAQ, insomma quanto è avvenuto in questi mesi si sarebbe sviluppato un anno prima. Quindi tutto eguale? Ma davvero quanto avvenuto nel 2020, lo sviluppo di una epidemia, che l’OMS ha deciso di chiamare pandemia, non influisce per nulla?

medical-journal-lancet-study-flagging-covid19-drugs-riskSu questo fronte è avvenuto dopo l’estate un fatto veramente significativo. La rivista scientifica The Lancet, attraverso il suo direttore, ha sostenuto la necessità di non applicare il termine pandemia, fuorviante, ma piuttosto sindemia. Questo è il termine forgiato negli anni ’90 dal medico americano Merrill Singer, e indica la necessità di prendere in esame non solo il fatto infettivo, ma anche una serie di fattori di contesto (era il tempo dell’AIDS). L’obiettivo dello studioso americano era definire un «modello di salute che si concentra sul complesso biosociale», nel senso che in determinate situazioni sociali due o più malattie interagiscono in forma tale da causare danni maggiori della somma delle singole malattie e l’interazione con gli aspetti sociali ci fa dire che non si tratta di semplice compresenza di morbi.

Orbene, oggi Horton – il direttore di The Lancet – sostiene la necessità di riprendere quel termine perché, mentre in una pandemia il contagio colpisce in modo indistinto tutte le persone e si manifesta con uguale pericolosità, in una «sindemia» il contagio colpisce in modo grave soprattutto le persone che presentano certe patologie e versano in particolari condizioni socioeconomiche. L’aggravamento della salute della popolazione ha certo una causa scatenante (il Covid), ma è poi dovuto all’intreccio con fattori biologici e sociali. Riporto la traduzione italiana di un passaggio dell’editoriale [6]: «Due categorie di malattie stanno interagendo all’interno di popolazioni specifiche, l’infezione causata dal coronavirus Sars-Cov-2 e una serie di malattie non trasmissibili (MNT). Queste condizioni si raggruppano in categorie sociali rispetto a strutture di disuguaglianza profondamente radicate nella nostra società. L’aggregazione di queste malattie su uno sfondo di disparità economica e sociale inasprisce gli effetti avversi delle singole malattie».

L’approccio sindemico incoraggia una visione più ampia, che comprende anche dimensioni del vivere reale, dalle condizioni materiali sia dei singoli (casa, impiego, istruzione) che del vivere insieme (ambiente, cibo). È un approccio di grande respiro, che consente tra l’altro di scrollarci in parte di dosso (espressione non corretta, diciamo ridimensionare il ruolo di) questa asfissiante pletora di virologi che ci parla giorno e notte nelle orecchie, e ciò senza cadere nel tranello dei negazionisti. Al contrario, ci conferma nella certezza che il negazionismo è, intrinsecamente, espressione di una cultura reazionaria, che non sa vedere e deve cercare nei complotti più strani la spiegazione dell’orribile presente che sta sotto gli occhi di tutti.

chtulucene-donna-harawayPochi mesi prima che si diffondesse l’epidemia e si trasformasse in qualcosa di ben più complesso e pericoloso, che ora abbiamo capito essere sindemia, usciva l’edizione italiana del nuovo volume di Donna Haraway, Chthulucene [7]. Il testo contiene un caveat preciso: «La terra dello Chthulucene in divenire è simpoietica, non autopoietica». I sistemi autopoietici, per quanto interessanti, non si adattano al mondo degli esseri che vivono e che muoiono. Questo mondo «non è un sistema chiuso, le sue zone di contatto sono ubique, sempre intente a proiettare filamenti che le riavvolgono a spirale». L’autrice si rifa’ ad una opposizione già nota (Dempster 1998): con il termine simpoiesi ci si riferisce a sistemi «che producono in maniera collettiva, che non hanno al loro interno sistemi spaziali o temporali definiti. L’informazione e il controllo sono distribuiti tra tutti i componenti. I sistemi sono evolutivi e possono generare cambiamenti sorprendenti. Al contrario i sistemi autopoietici sono unità singole che si auto-riproducono, dotate di confini temporali e spaziali autodefiniti che tendono al controllo centralizzato, all’omeostasi e alla prevedibilità»[8].

Se il problema è sopravvivere su un pianeta infetto, ma che forse può ancora essere salvato, reso nuovamente vivibile, riabilitazione e sostenibilità si possono generare, dice ancora Haraway, «tra i tessuti porosi e i confini aperti» di mondi danneggiati ma ancora vivi e in divenire, quali il pianeta con tutti i suoi abitanti (non solo umani, ovviamente). Questa è la via della salvezza, il suo simbolo è il ragno, che tesse la ragnatela del vivente, ne sostiene i fili e i nessi. Dall’altra parte l’autopoiesi [9] ripercorre i sentieri dell’individualismo, e correggendo e rendendo più raffinato il tratto maschilista e razzista (aspetto già colto e attaccato a suo tempo dalla migliore critica femminista americana), ci permette al contempo di vederne meglio il tratto qualificante, neoliberista. Ci conduce insomma su un sentiero mortale.

 Il discorso di Haraway, sia ben chiaro, sta in piedi anche da solo; ma la riflessione avanzata a livello scientifico, su un foglio autorevole quale, The Lancet, ci suggerisce l’accostamento di un doppio passaggio: (epidemia)-pandemia-sindemia; autopoiesis-simpoiesis. In una rappresentazione dei terreni di confronto a venire, alla fine, sarà sindemia v. simpoiesi. Insomma, il percorso simpoietico come via di salvezza dalla catastrofe, nel mondo piagato quasi mortalmente dalla sindemia, quella che c’è e quelle che verranno. Uno scenario drammatico, non ancora maturo né certo, ma in relazione al quale unica possibile prefigurazione adeguata di un soggetto agente è quella di una rete (di reti) che potrebbe, davvero, prendere intanto l’abbrivio dalla rete di comunità patrimoniali [10] di cui oggi parliamo.

Questo intendevo dire all’inizio: sagome ancora disegnate approssimativamente sull’orizzonte, di cui pur cominciare a prendere le misure.

Dialoghi Mediterranei, n. 47, gennaio 2021
Note
[1] Legge 133/2020 del 1 ottobre 2020 contenente autorizzazione alla ratifica e ordine di esecuzione della Convenzione-quadro di Faro sul valore del patrimonio culturale per la società, in Gazz. Uff. (Serie Generale) n. 63 del 23 ottobre 2020.
[2] Mi riferisco, scusandomi per la divagazione, all’immortale vignetta comparsa su Linus prima delle elezioni del 1968, in cui i democratici americani sceglievano il candidato da opporre (?) ai repubblicani (Nixon) dopo la morte di Robert Kennedy; per farlo provavano a produrre al tavolo da disegno i lineamenti del candidato ideale, l’uomo qualunque, ma più qualunque che si possa immaginare .. e magicamente , cancellando ogni possibile tratto saliente del volto di ogni maschio americano bianco, ciò che restava e compariva nel foglio, era Hubert Humphrey, “ognihumhprey” nella versione italiana della vignetta.
[3] Non è un errore, spiegherò oltre.
[4] Non più. L’alternativa oggi è : accetto/ ulteriori informazione. E se premi la seconda, alla fine c’è sempre e solo accetto.
[5] La meravigliosa mostra fotografica di Stefano Rondinella, ospitata in primavera ai Magazzini del sale di Venezia, intitolata Shipwrech Crime e patrocinata dall’ UNHCR e da Unicef Italia, mostra appunto due punti vicini della spiaggia turca, caratterizzati da destini e percorsi umani contrastanti.
[6] V. Bilotta F. “Sindemia. La febbre di un mondo malato”, ne: L’extraterrestre,  settimanale ecologico de Il Manifesto, supplemento al numero del 10 dicembre 2020.
[7] Haraway D., Chthlucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Nero, Roma, 2019, trad. it. di Claudia Durastanti: 54-55.
[8] Dempster, M. Beth, A Self-Organizing Systems Perspective on Planning for Sustainability, Tesi per il Master in Studi Ambientali, Università di Waterloo, 1998. Il testo è poi stato rielaborato dall’autrice: Sympoietic and Autopoietic Systems: A New Distingtion for Self-Organizing Systems, 2000, al sito https://www.researchgate.net/publication/228566588_Sympoietic_and_autopoietic_systems_A_new_distinction_for_self-organizing_systems
[9] Concordo pienamente con l’Autrice, senza dimenticare peraltro il valido contributo che a suo tempo il libro di Maturana e Varela ha dato allo sviluppo del pensiero materialistico: Maturana H.R., Varela F., Autopoiesi e cognizione. La realizzazione del vivente, Marsilio, Padova, I ed., 1985. Resta che si rivelò in itinere  una strada colma di promesse non mantenute; alla fine di un percorso diabolico, come dice Haraway, l’autopoiesi si svela come rappresentazione figurativa del neo-liberismo dominante.
[10] Al cuore delle reti simpoietiche non potrà che esservi un rapporto affatto diverso e nuovo con il vivente, cosa di là da venire, la più difficile di tutte da costruire. Quindi non intendo assolutamente porre in capo alle comunità patrimoniali e alle loro reti ruoli non praticabili, tanta è l’odierna inadeguatezza diffusa. Voglio solo constatare che le reti di Faro in via di costruzione in vari paesi europei sono oggi, insieme alle reti delle ong, in particolare umanitarie, e a nuove forme di cooperazione solidale che emergono, le uniche realtà tendenzialmente congrue, per quanto su scala assai ridotta, rispetto al futuro che (temo) ci aspetta.  

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Lauso Zagato, giurista, già docente di Diritto Internazionale e Diritto dell’Unione Europea all’Università Ca’ Foscari di Venezia, è stato anche titolare del corso di Diritti umani e politiche di cittadinanza presso il Corso di laurea specialistica in Interculturalità e cittadinanza sociale della stessa Università. Si è occupato in particolare di problemi legati ai profili internazionali e comunitari della protezione della proprietà intellettuale, di diritto umanitario e di tutela dei beni culturali nei conflitti armati, nonché del patrimonio culturale intangibile e delle identità culturali delle minoranze e dei popoli indigeni. Tra i suoi lavori: La politica di ricerca della Comunità europea (1993); La protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato all’alba del secondo Protocollo 1999 (2007). Ha curato il volume collettaneo Verso una disciplina comune europea del diritto d’asilo (2006) e, più recentemente: Le culture dell’Europa, l’Europa della cultura (2012 con M. Vecco); Citizens of Europe. Culture e diritti (con M. Vecco); Cultural Heritage. Scenarios 2015-2017 (con S. Pinton); Il genocidio. Declinazioni e risposte di inizio secolo (2018); Lezioni di diritto internazionale ed europeo del patrimonio culturale (2019, con S. Pinton e M. Giampieretti). È stato tra fondatori, e poi Direttore, del Centro studi sui diritti umani. Attualmente coordina il gruppo di ricerca su “La difesa del patrimonio e delle identità/differenze culturali in caso di conflitto armato”, che opera sotto l’egida della Fondazione Venezia per la ricerca sulla pace.

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