Sicilia Antica e Moderna è il titolo complessivo che i curatori Emanuele Lelli e Maria Antonietta Sorci hanno dato al secondo volume della collana “Diachronion. Ricerche tra antico e moderno”. Il libro di 140 pagine raccoglie i contributi di studiosi siciliani, di materie diverse come ambiente, archeologia, storia, antropologia, folklore, musei. L’elencazione delle materie trattate, già di per sé, rende esplicito il tema portante del volumetto: identità/omologazione e diversità. In cosa siamo uguali tra di noi siciliani e in cosa divergiamo? Esiste una “sicilianità” omologante? Se esiste una cultura comune di fondo come si declina? I curatori precisano nella quarta di copertina che «Ogni territorio, nelle sue genti, porta il segno del tempo e delle culture che hanno viaggiato attraverso i secoli. Dai siti, dagli oggetti, dalla lingua, dalle espressioni artistiche di ieri e di oggi emergono storie affascinanti di continuità e discontinuità […]».
Tematiche capitali che impegnano da sempre studiosi di diverse discipline. Ma, come spesso accade, è l’antropologo culturale a inquadrare le tematiche di cui sopra utilizzando le armi e le tecniche che solo appunto l’antropologia culturale sa porre in campo: la comparazione delle strutture e la visione olistica. E chi meglio di I. E. Buttitta poteva con linguaggio chiaro e tecnico tentare di dare una risposta al tema capitale: “Chi sono i Siciliani?”. Buttitta lo fa nell’introduzione al volume, che non a caso prende il titolo di identità e culture. Immediatamente sin dalla prima parola egli affronta e prende da par suo il toro per le corna:
«I termini “sicilianità” o “sicilitudine”, assai ricorrenti in ogni discorso sulla Sicilia, mi hanno provocato un certo disagio. Questi sostantivi, intesi a perimetrare uno specifico e immutabile clima ambientale, umano e culturale e a definire un’indole e dei caratteri morali, fisici, intellettuali circoscritti […] incoraggiano necessariamente alla semplificazione e all’acritica riduzione della complessità culturale e antropologica di una realtà storicamente articolata e mutevole sin dai suoi esordi […]».
A seguire il Buttitta tenta di declinare i “temi” della “sicilianità”, quelli che gli storici definiscono i “caratteri originali”:
«Ci sono stati e ci sono molti modi di essere siciliani. C’è un essere siciliani che definirei istintivo, legato all’insularità e all’isolamento […] C’è un essere siciliani che è un’acquisizione politico culturale: è istituzionalizzata e decretata da uno Statuto autonomo […]. C’è anche un essere siciliani rivendicativo, apparentemente marginale […]. Ci sono, poi, dei fatti ineludibili e certamente peculiari: il sopraggiungere nel tempo di numerosi popoli e culture, […] il fenomeno mafioso nelle sue diverse espressioni otto-novecentesche e contemporanee – precisa perentorio, lo studioso – Dunque se la Sicilia possiede una peculiarità è proprio quella della varietà estrema. Sono le “cento Sicilie” di cui parlava Gesualdo Bufalino».
Il volume ne prende senz’altro atto, ma con i saggi che si susseguono dipana una Sicilia certo delle diversità, ma anche delle similarità identitarie. Lo stesso Buttitta riconosce nelle feste siciliane un fatto identitario in quanto “fatto sociale totale”. Lo confermano i saggi di A. Frenda (Miti e riti di San Calogero in Sicilia), G. Cannizzaro, A. Cucco (Le Madonie: inquadramento storico geografico, folklore, tradizioni musicali). Anche un esperto naturalistica e botanico come L. Aprile (Uomo, Natura e antiche favole negli Iblei) fa ricorso all’immaginario descrivendo le caratteristiche fisiche del territorio del Sudest della Sicilia caratterizzato dal sistema montuoso collinare degli Iblaei Colles, i monti Iblei, raccontando delle tradizioni dei Ciarauli, conoscitori maneggiatori di serpenti e guaritori (in fondo dei naturalisti ante litteram).
È chiaro il senso della parola “favole” presente nel titolo, che equivale a tradizioni popolari, a lungo chiamate “le favole degli antichi”. Il saggio di Frenda si caratterizza per il rigore storico comparativo e per l’attenzione ai segni e ai simboli (non per nulla è studioso di scuola “buttittiana”). Nel loro saggio su “Le Madonie …” gli autori si soffermano sulle tradizioni musicali dell’area madonita, rilevando eredità e affinità con “melismi antichi”.
A questo punto il volume ci presenta le schede di quattro musei del territorio: due in provincia di Siracusa cioè “I luoghi del lavoro” di Buscemi, il Museo Nunzio Bruno di Floridia, Il Museo di Gesso “Cultura e Musica popolare dei Peloritani. E infine, last but not least una chicca museografica insolita ma preziosa: il Museo dei Viaggiatori di Palazzolo. Si tratta senz’altro di ottimi esempi di musei autoriali, che vivono con i loro autori, e si spera possano vivere un giorno con/per la collettività. La loro esistenza è certamente precaria, con pochi mezzi finanziari e molte difficoltà di gestione. Sono gli autori o gli animatori a presentarceli: i “luoghi del lavoro” sono descritti in una sapiente scheda del suo “autore” R. Acquaviva; il Museo “Nunzio Bruno” si avvale dello scritto di M. Loreno “tecnico informatico” (non so perché lo studioso ci tiene a sottolinearlo), uomo modesto e rispettoso, dietro cui si muove la famiglia degli eredi Bruno; il Museo dei Viaggiatori è una nobile creatura di Francesca Gringeri Pantano, autrice di libri odeporici che pongono la Sicilia come luogo del viaggio, della meta preferita di studiosi alla ricerca della purezza del mito e della classicità. La scheda di questa piccola, originale e preziosa istituzione culturale è firmata dai Carmelo Scandurra, archeologo sul campo, autore di pregevoli studi, che ci racconta il museo nel territorio (Palazzolo Acreide), una narrazione diacronica, storica, filologica.
Un approccio che caratterizza il saggio di M. Re sulla Palermo Bizantina, argomento poco trattato e che l’autore pone nel giusto rilievo. La civiltà bizantina fu ponte, infatti, tra Oriente e Occidente, e conservò per trasmetterli i fondamenti della cultura romana classica. L’autore sottolinea come anche sotto i Bizantini assolse un ruolo rilevante, custodendo un forte elemento ellenofono, culturalmente rilevante e operante nel settore artistico senza soluzione di continuità. In una nota afferma con decisione «come fuorviante risulta la denominazione di arte arabo-normanna, da tempo impostasi nell’uso, in quanto oblitera del tutto le altre componenti culturali di questa stagione artistica, prima fra tutte quella bizantina (S. Troisi, Arte in Sicilia. Dalle origini al Novecento, Palermo, 2022: 147-148).
Come dimenticare che la Sicilia è mare, come sottovalutare il ruolo che esso ha avuto nella storia della Sicilia. Ecco che l’articolo di Francesca Oliveri ti parla di archeologia subacquea, una branca dell’archeologia assolutamente nuova, che ha visto impegnato in prima persona il compianto Sebastiano Tusa che volle e difese la Soprintendenza del mare, la prima ad essere istituita (2004) in Italia.
In conclusione, come si fa ancora oggi a tavola, cioè lassannu u muorsu miegghiu pa fini (lasciando il boccone più saporito alla fine del pranzo), mi piace segnalare la scheda che Mario Sarica fa del “suo” Museo, “Cultura e Musica popolare dei Peloritani”. Un museo che canta e cunta, il più completo sul piano musicologico, tutto dedicato alle sonorità popolari dell’area peloritana, essendo Mario un esperto etno-musicologo e un valente demoetnoantropologo. «Antico e moderno» scrive Sarica «dunque si fronteggiano a viso aperto, senza pregiudizi e steccati accademici, alla ricerca di una memoria perduta». Che è poi la filosofia di fondo dell’intera collana curata dal Lelli, che ci auguriamo che continui, offrendo prodotti, come il presente volume, di facile lettura e di larga diffusione, nel format che mette a confronto antico e moderno, un obiettivo perseguito con costanza dall’Associazione italiana di cultura classica.
Lo scritto del Sarica chiude il volume e lo fa mettendo in rilievo «quello straordinario presidio di legame con le civiltà più antiche del Mediterraneo, attestate dalle ricche collezioni di beni demoetnoantropologici del Museo Cultura e Musica Popolare dei Peloritani di Villaggio Gesso, realtà etnografica unica nel suo genere in Sicilia, per il suo carattere spiccatamente interdisciplinare, perché plurali sono state le culture assorbite nelle forme di cultura siciliana di tradizione orale, in una koiné davvero singolare. Il nostro sguardo si [posa] non a caso, dal momento che il Museo si affida al suono per introdurci nei diversi orizzonti di vita siciliana di origine agropastorale, facendo così emergere la millenaria centralità del codice di comunicazione sonoro musicale, e dunque delle ricche famiglie etnorganologiche, soprattutto in riferimento agli strumenti musicali a fiato della cultura pastorale peloritana (flauti, clarinetti, oboi, zampogne a ‘paro’), evidenziando gli stretti legami con gli antichi “aulos” e la pratica musicale rituale cantata da Teocrito […]».
Qui mi fermo senza però non ricordare che da bambini imparavamo a “suonare” per mezzo della sampugna (zampogna). Non tragga in inganno il nome: essa era il culmo di una canna, lavorata nel modo come racconta un mio informatore più di 60 anni fa:
«I carusi pi si fari i sampugni pigghiàvanu i cimi ténniri di canni e tagghiàvanu pi traversu e pi longu ‘a cannuzza; u tagghiu pi traversu era facili, ma chiddu pi longu era difficili, chi, si non era fattu drittu e pulitu, ‘a sampugna non sunava. Ma mentri a facevanu ci dicevanu:
Sampugna, sampugnedda / pi la santa luriedda / m’ha’ a’ sunari ‘na canzunedda/. S’iddu tu-nn-a vo sunari / a pizzudda t’hàiu a struncari / e -ppoi ti iettu a-mmari» (Zampogna, zampognetta per la santa glorietta, mi devi suonare una canzonetta. Se tu non la vuoi suonare, a pezzetti ti devo ridurre, e poi a mare ti butto).
Visitando il museo di Mario Sarica per la prima volta mi si risvegliò questo ricordo. Chissà perché mi venne in mente uno dei giochi più semplici e significativi del nostro diventare adulti: suonare uno strumento, riprodurre il suono stesso della natura, dal filo di erba posto tra i due pollici a mo’ di ancia, alla sampugna ricavata dal culmo di canna o dai cannici. A pensarci bene, i musei, in fondo inducono, quando sono “belli”, un po’ a tornare bambini, cioè a essere ricettivi, ingenui e curiosi.
L’antico che è in ciascuno di noi diventa moderno attraverso un processo memoriale fondamentale e assolutamente insopprimibile: le discipline demoetnoantropologichene sanno delineare forme e contenuti, per trasmetterli alle generazioni future. Una delle forme è certamente anche il libro Sicilia Antica e Moderna unitamente alla benemerita collana “Diachronion”.
Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023
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Luigi Lombardo, già direttore della Biblioteca comunale di Buccheri (SR), ha insegnato nella Facoltà di Scienze della Formazione presso l’Università di Catania. Nel 1971 ha collaborato alla nascita della Casa Museo, dove, dopo la morte di A. Uccello, ha organizzato diverse mostre etnografiche. Alterna la ricerca storico-archivistica a quella etno-antropologica con particolare riferimento alle tradizioni popolari dell’area iblea. È autore di diverse pubblicazioni. Le sue ultime ricerche sono orientate verso lo studio delle culture alimentari mediterranee. Per i tipi Le Fate di recente ha pubblicato L’impresa della neve in Sicilia. Tra lusso e consumo di massa (2019); Taula matri. La cucina nelle terre di Verga (2020); Processo a Cassandra (2021); Taula matri. Il vino del Sudest Sicilia (2023).
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