Quasi una decina di anni fa mi sono imbattuta in un saggio del sociologo francofortese Hartmut Rosa dal titolo Accelerazione e alienazione: Per una teoria critica del tempo nella tarda modernità, edito da Einaudi. Si tratta di un piccolo ma denso volume che, in linea con la tradizione della cosiddetta “teoria critica della società” affronta il tema dell’alienazione, mantenendo una continuità interpretativa nei confronti dei suoi illustri predecessori ma mostrando anche originalità e capacità di lettura di quegli aspetti peculiari dell’oggi che la generazione di Horkheimer e Adorno non avrebbe potuto immaginare fino in fondo. La sua riflessione prende in esame il nostro rapporto sociale e individuale con il tempo, indicando in esso la causa principale dell’alienazione contemporanea. È proprio per questo correlare la qualità della vita al nostro rapporto con il tempo che la visione dell’ultimo lungometraggio di Wenders, Perfect Days, mi ha evocato il volume di Rosa, del quale rappresenta l’exict, ovvero l’unica vera risposta che, tuttavia, non può che essere trovata dal singolo individuo. Wenders non prospetta infatti una soluzione sociologica ma indica una possibilità dello spirito.Per proseguire con il confronto, Rosa, opponendosi ad ogni lettura quantofrenica e ritrovando uno slancio teorico di ampio respiro, parte da una semplice ma fondamentale domanda: che cos’è una «buona vita» e perché di fatto non l’abbiamo? La domanda connette la riflessione scientifica generale alla concreta vita delle persone. Si tratta esattamente della stessa domanda che traspare attraverso il film. Hirayama, il protagonista, ci dipana la sua risposta in due ore, quasi del tutto silenziose, di luminosi sorrisi offerti alle sue ripetitive ma godute giornate. Wenders ci offre, grazie al suo straordinario protagonista, un film luminoso che rappresenta una proposta e una sfida al fondato pessimismo di molti: artisti, politici, scienziati e uomini comuni.
Secondo la lettura della condizione tardo-moderna che ci offre Rosa, l’uomo contemporaneo si trova a vivere su un metaforico tapis roulant che continua ad aumentare la propria velocità costringendolo ad aumentare a sua volta il passo, pena la violenta, dolorosa espulsione dalla folle corsa che, però, è la corsa di tutti, il ritmo sociale fuori dal quale si resta soli, persi. La metafora del tapis roulant – che non è di Rosa ma che ho trovato io per offrire agli studenti una immediata visualizzazione del concetto – non è stata scelta a caso. Infatti questo genere di attrezzo si muove e ci muove senza condurci da nessuna parte. Esso rappresenta un progresso sempre più veloce che però ha perso ogni fine, che ha perso la capacità di portarci ad un risultato spendibile, ad un maggior benessere. A causa dell’accelerazione tecnologica, sociale e dei ritmi di vita, nel tardo capitalismo la condizione dominante è di sofferenza per la cronica penuria di tempo.
La promessa della tecnologia di produrre cambiamenti da metabolizzare per velocizzare e facilitare le molteplici attività umane è paradossalmente tradita dalla crescita indefinita delle aspettative di performance. Se oggi, ad esempio, le mail e la telefonia mobile, che hanno comportato uno stress di adattamento per le generazioni che si sono trovate a cavallo di questa innovazione, consentono una significativa diminuzione del tempo impiegato per la realizzazione di molte incombenze, noi perlopiù non godiamo del tempo risparmiato. Nella tipica logica capitalistica, esso rappresenta un surplus da reinvestire, portandoci a dilazionare costantemente il momento in cui potremo percepirlo come un guadagno. Analogamente, se le conquiste delle nuove tecnologie della comunicazione ci permettono di prescindere dalla dimensione locale per lo svolgimento di moltissime attività, la compenetrazione tra dimensione privata e pubblica, tra tempo lavorativo, familiare e libero, prima distanziate dai differenti luoghi deputati, non ci rende più liberi ma, al contrario, privi di vie di fuga, di spazi e tempi di recupero.
In passato l’uomo di successo era colui che riusciva a mettere radici, specializzarsi rimanendo fermo per tutta la vita personale e lavorativa. La stabilità gli serviva per crescere e portare a maturazione gli sforzi e le relazioni. Il lavoro a tempo indeterminato, un buon matrimonio e il mutuo della prima e spesso unica casa sono rappresentativi di quella che, dal secondo dopoguerra fino ai primi anni Novanta del Novecento si è considerata una buona vita. Oggi l’uomo di successo è il più mobile, colui che oppone la maggior resilienza possibile al cambiamento, che riesce più rapidamente degli altri a reinventarsi. E che spesso è costretto all’improvvisazione istrionica che tanto piace al mondo della comunicazione.
Siamo nell’epoca dei cambiamenti non goduti. Il nuovo sembra intrinsecamente desiderabile, preferibile. Il nuovo è diventato una pseudo qualità morale. Ma Hirayama sembra non saperlo. Gli sceneggiatori del film, lo stesso Wim Wenders e Takuma Takasaki, hanno scelto per il protagonista un lavoro significativo, tanto concreto quanto, per certi versi, spirituale. Hirayama infatti pulisce le toilette pubbliche. Spesso, mentre lui vi sta ancora lavorando, vengono riutilizzate dagli avventori che ne vanificano la fatica. Ma il suo sguardo verso la vita resta fresco e sereno. Hirayama vive la propria ritualità come uno di quegli artisti che scolpiscono la sabbia bagnata creando opere straordinarie, consapevoli dell’onda, pronti a rifare tutto perché amano quel fare, perché vogliono vivere dentro quel fare. Da illuminato, vive per vivere e non per morire bene. Al contrario dell’uomo di successo contemporaneo che sembra caratterizzato da un movimento senza scopo, vive una stasi creativa e gratificante. Crea ogni giorno il suo rapporto con il mondo e con gli altri che spesso è un rapporto indiretto, implicito, fatto di empatica osservazione.
Tokyo, città veloce ed ipertecnologica, sembra ricambiare la sua gioia offrendogli squarci di dolcezza sotto i grandi alberi dei parchi urbani. Sembra davvero che a lui offra una lentezza speciale, un sole che gli altri non conoscono. Relazionarsi con gli altri esseri umani attraverso i loro escrementi richiede attitudine alla verità e gioiosa accettazione. Hirayama sembra sorridere senza un motivo, come se vivesse in un suo mondo senza sapere della corsa degli altri. Poi però la storia, fatta di pochi fatti e tantissime, piccole emozioni che brillano sullo schermo come lucciole magiche, ci rivela che la sua è una scelta anche sofferta, che ha conosciuto e abbandonato altre chance e che è da questo che trae la gioia di tutti i suoi riti. È da questo che trae la forza di mettersi a giocare di fronte alla morte. L’amore di Hyrayama per il mondo ha sfumature meravigliose, che solo grazie alla scelta di prendersi il tempo e cancellare dalla propria vita ogni senso di attesa, può percepire e far percepire allo spettatore.
Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
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Anna Fici, docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi per i Corsi di Laurea di Scienze della Comunicazione presso l’Università di Palermo, ha coltivato parallelamente alla carriera accademica la pratica fotografica, che l’ha portata a vincere nel 2002 l’Internazionale di Fotografia di Solighetto (Tv), con il lavoro «Facce di Ballarò». A partire da quell’anno ha ricevuto numerosi riconoscimenti e ha svolto diverse mostre personali, prevalentemente nell’ambito dei Festival della Fotografia italiani. Oggi coordina dei laboratori di Fotogiornalismo per i corsi di Scienze della Comunicazione. È inoltre Direttore artistico di Collettivof – http://collettivof.com – un collettivo di fotografi di recente costituzione. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Nella giostra della Social Photography, Mondadori (2018); La linea spezzata. Una ricostruzione critica dell’attuale deficit di coerenza, Libreriauniversitaria.it Editrice (2021).
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