di Jeremy Boissevain
«Il Mediterraneo è attraversato da frontiere culturali, principali e secondarie, tutte cicatrici che non vengono mai completamente guarite e ciascuna con un ruolo da svolgere» (Braudel 1972: 770). Sebbene Fernand Braudel abbia scritto sul mondo mediterraneo nell’età di Filippo II, le cicatrici non cicatrizzate a cui ha fatto riferimento ancora esistono. Sono cicatrici di odio e pregiudizi, una somma di stereotipi e di sospetti fino alla xenofobia. Alcune sono secolari, altre sono più recenti. Ma tutte inibiscono lo scambio culturale e contengono i germi purulenti del conflitto. Queste cicatrici una volta erano legate alle caratteristiche geografiche specifiche, perchè le caratteristiche fisiche forniscono la realtà di fondo della diversità etnica e religiosa in tutto il mar Mediterraneo. Alcune cicatrici hanno viaggiato con gli immigrati dal sud fino alle coste settentrionali, e da lì, insieme ad ancora altre cicatrici, trasportate poi verso il nord Europa [1 ].
Il mare Mediterraneo divide la regione in una sponda nord e una sud. La costa settentrionale è interrotta da penisole, montagne, isole e mari. Questi frammentano il territorio, generando e preservando una diversità etnica, linguistica e religiosa superiore a quanto non si trovi sulla riva meridionale. Lì il terreno più uniforme e la costa relativamente intatta hanno permesso una maggiore unità etnica e culturale favorevole allo sviluppo.
Si tratta di un paradosso della regione mediterranea, che in passato era molto più unita di quanto lo sia oggi. La separazione geografica causata dai mari è stata colmata dall’egemonia imperiale e coloniale. La comunicazione seguì la conquista. La guerra, l’occupazione e il commercio che fiorì lungo percorsi protetti furono il più grande stimolo per lo scambio culturale. La chiusura e il declino delle comunicazioni tra le due sponde seguirono alla fine dell’impero. Il mare Mediterraneo è diventato sempre più un diaframma, non un ponte. Il traffico commerciale e culturale tra la Spagna, la Francia e l’Italia e i Paesi del Maghreb è stato di gran lunga maggiore nel passato di quanto non sia oggi.
Poiché il focus del potere si spostò nel corso dei secoli tra le varie sponde, anche la cultura dominante è cambiata. Un tempo si irradiò dalla Fenicia, poi dalla Grecia. Roma unificò la regione come mai prima né dopo, con una unica lingua dominante e un’unica struttura politica, confinando diversi gruppi etnici entro aree specifiche. I Crociati penetrarono nella regione, attivando in breve tempo un corridoio attraverso il Medio Oriente. Poi è arrivata l’espansione araba lungo la costa nord africana verso l’Atlantico e verso gran parte della riva nord. I secoli di dominazione araba della regione portarono nuove tecniche agricole e, attraverso le loro università, la scienza e la filosofia. L’impero Ottomano aveva un focus orientale. Il loro sistema di governo relativamente tollerante incapsulò minoranze etniche e religiose, permettendo loro di sopravvivere per tutto il tempo in cui essi pagarono i tributi e riconobbero l’egemonia ottomana.
Il dominio relativamente mite di Costantinopoli fu infine sostituito da uno molto più duro poichè il centro del potere nel Mediterraneo si spostò ancora una volta, ed i Paesi europei cercarono di incorporare il Nord Africa e il Medio Oriente. Anche questa conquista trasferì lingue, architettura e tecnologia nelle coste meridionali e orientali e stabilì nuovi legami commerciali.
Gli imperi possono favorire lo scambio culturale e commerciale, pur creando dipendenza e sfruttamento. Certo l’egemonia coloniale lascia un retrogusto amaro. Ci può essere soggezione, persino rispetto, ma c’è poco amore dell’Europa nel Maghreb. La recente esperienza coloniale è una memoria condivisa da tutta la sponda sud del Mediterraneo. Questa storia compartecipata, insieme con una lingua e una religione comune, forniscono una unità alla riva nord africana che manca alla riva europea. Lo sfondo comune di dipendenza coloniale costituisce una delle cicatrici non ancora rimarginata.
Ci sono altre, più vecchie cicatrici che formano anche barriere alla comunicazione. Le guerre, le conquiste e i massacri del passato più lontano hanno plasmato ricordi popolari persistenti che modellano e orientano le emozioni. Come le conchiglie e i denti di uno squalo conservati per millenni nel calcare mediterraneo, i pregiudizi generati e trasmessi per secoli sono sostenuti e perpetuati nei rituali comuni, nei proverbi e detti popolari. Insieme con le barriere naturali del mare e delle montagne, queste memorie popolari e i pregiudizi conseguenti contribuiscono a spiegare perché i popoli sulle sponde del Mediterraneo continuano a guardarsi l’uno con l’altro con sospetto. Ci sono molti esempi di queste cicatrici ritualizzate.
Ogni anno, durante la celebrazione della Pasqua, ogni famiglia ebraica nel mondo commemora la sofferenza dei padri per mano degli Egiziani. Questo rituale rievoca la fuga miracolosa dei figli d’Israele dalla schiavitù e dall’oppressione in Egitto migliaia di anni fa. È responsabilità di ogni genitore ebreo raccontare questo evento ai suoi figli ogni anno (Esodo 13: 8). Nel corso della cena pasquale, il figlio maggiore chiede al padre perché questa notte di Pasqua sia diversa da tutte le altre. Perché mangiamo pane senza lievito e erbe amare? Il padre può rispondere:
“Il pane azzimo” perché i nostri antenati sono stati consegnati dall’Egitto; “le erbe amare” perché gli Egiziani resero amara la vita dei nostri antenati in Egitto. Quindi siamo in dovere di ringraziare, lodare …Colui che ha eseguito per i nostri antenati e per noi tutti quei miracoli; Egli ci ha portato via dalla schiavitù alla libertà, dalla tristezza alla gioia, dal lutto alla festa, dalle tenebre alla luce, dalla servitù alla redenzione; e diciamo davanti a Lui, “Lode ancora all’Eterno”[2].
Questo rito è celebrato da migliaia di anni. Ogni Ebreo cresce con l’immagine degli Arabi modellata e rinnovata ogni anno attraverso il rito della Pasqua. Questi sentimenti entrano nel subconscio e influenzano atteggiamenti e azioni. Si tratta di una dimensione culturale che è rilevante per l’attuale situazione in Medio Oriente. In un certo senso ha una somiglianza familiare col profondo, anche se generalmente inespresso, antisemitismo attestato tra i contadini in Sicilia, molti dei quali continuano a ritenere gli ebrei responsabili della crocifissione di Cristo.
L’egemonia degli arabi e dei turchi e l’incursione successiva delle loro squadre di razzie sono anche conservate nella memoria popolare del sud Europa. In Spagna, Malta, Italia e Grecia finte battaglie tra cristiani e turchi o mori si combattono ancora oggi, ogni anno, in festival e durante il carnevale. Questi incontri ritualizzati assumono varie forme, ma comune a tutti questi spettacoli è lo scenario di una battaglia tra le forze del bene e del male. Invariabilmente i turchi o mori sono ritratti come crudeli, perfidi, malvagi, lascivi, spietati e sub-umani. Essi sono la personificazione della barbarie, rappresentano il Male. I cristiani, naturalmente, sono presentati come l’incarnazione del Bene, della fede, dell’umanità e della salute spirituale. In breve, l’epitome della Civilizzazione (Driessen 1985: 112).
Sebbene tali finte battaglie sembrano essere niente di più che spettacoli colorati, spesso rappresentati da bambini, come nella Parata del carnevale di Malta, queste drammatizzazioni popolari incorporano una visione del mondo dicotomica. Sono modelli di e modelli per orientarsi e ordinare il disordine del mondo. Come Driessen (Ibid.) ha osservato:
Ogni società che pretende di essere civile ha bisogno di un modello di barbarie. I Mori hanno costituito il prototipo di tutto ciò che è stato sentito come estraneo e inferiore alla cultura e alla società spagnola. Sono serviti da modello contro il quale gli spagnoli potevano affermare e manifestare la loro religione, l’identità collettiva e lo stile di vita … [La] vicinanza degli «Altri» a sud della Spagna, ha contribuito a vestire gli «Altri» di fattualità. Oggi, los moros servono ancora come un modello di ciò che gli spagnoli non sono. Ai popoli disprezzati che vivono nella Spagna moderna sono comunemente attribuite origini moresche (o ebraiche) (cfr. Tax Freeman 1979: 244).
Per l’Europa del Sud, l’Altro è l’arabo-il turco-il moro-il nero, l’abitante della riva appena oltre l’orizzonte. Questo “altro” non è solo personificato una volta l’anno in una sfarzosa cerimonia di finte battaglie. La sua persona crudele, brutta, assetata di sangue, vile e malvagia è incorporata, almeno a Malta, nella prima letteratura volgare (Cassola 2000: 54-77). Il Nord africano “Altro” è ancora presente nelle leggende e nei detti che fanno parte della tradizione con cui i bambini vengono iniziati alla socializzazione. Tutti i fanciulli maltesi hanno sentito o letto la leggenda della bella fanciulla Mosta che è stata catturata dai pirati turchi. Le madrii ancora ammoniscono i figli a comportarsi bene spaventandoli con il Turco: Ara gej it-Tork ghalik! (Attento! Il Turco sta arrivando per te). Quando piove e brilla il sole al tempo stesso, i maltesi dicono twieled Tork (un turco è nato). Gli adulti quando sono adirati si gridano ancora a vicenda Mur sib xi Tork! (Vai a cercare un turco!) (Cassar Pullicino 1948: 189; Cassola 1997). Le madri andaluse invocano anche la minaccia di el moro nell’istruire i loro figli (Driessen 1985: 112). In Andalusia i commercianti ambulanti nordafricani sono trattati con disprezzo e sfiducia (ibid.). A Malta i bambini erano soliti schernire i fornitori tunisini che passavano attraverso i loro villaggi, gridando Alla Kbir. Mawmettu hanzir (Allah è grande. Maometto è un maiale). Tra i popoli del Mediterraneo, e in particolare tra gli arabi, riferirsi a qualcuno come un maiale è un insulto estremamente offensivo. Anche se dopo la seconda guerra mondiale questi fornitori non vengono più a Malta, gli insulti non sono stati dimenticati, come mostra il seguente episodio.
Qualche anno fa un amico presso l’Università di Malta ha raccontato che alcuni giorni prima il figlio aveva giocato a calcio con un vicino di casa, figlio di un diplomatico nordafricano. A quanto pare il ragazzo maghrebino prese in giro il modo in cui il figlio del mio collega si faceva il segno della croce prima di un calcio di punizione. Veloce come un lampo, il ragazzo maltese gridò: Alla Kbir. Mawmettu hanzir! Il mio amico fu sorpreso, per non dire scioccato nel sentire queste parole, che suo figlio non aveva imparato da lui ma da sua nonna. Gli insulti apparentemente rotolarono alle spalle dei giovani calciatori, anche se avrebbero potuto causare una zuffa se i giovani fossero stati più avanti negli anni. Tali pregiudizi profondamente incorporati che emergono inaspettatamente in momenti di rabbia possono innescare delle crisi violente.
Alcuni potrebbero dire che questo piccolo episodio offre anche la prova che tale pregiudizio sta morendo. Dopo tutto, il ragazzo aveva imparato l’insulto dalla nonna, non dai suoi genitori. Temo che questo non sia il caso. L’antipatia per il “turco-arabo-nero”, sebbene spesso silente, è profonda e ancora diffusa in Malta. Questo pregiudizio è stato dormiente dagli anni ‘40 fino agli anni ’70. È emerso di nuovo quando i turisti e gli studenti libici hanno cominciato a frequentare Malta come conseguenza della politica estera filo-araba del governo socialista (1971-1987), che guardava ai libici come a Fratelli di Sangue. Gli anni ’90 hanno portato un flusso crescente di richiedenti asilo dalla pelle scura, di clandestini, di studenti di scambio e turisti dal Medio Oriente e dall’Africa. Questo afflusso ha esacerbato pregiudizi esistenti. Rapporti di prima mano e resoconti della stampa hanno informato come gli uomini arabi molestassero o addirittura aggredissero donne maltesi. Queste cronache, diffusamente raccontate e impreziosite, sono servite a confermare e nutrire stereotipi presistenti, duri a morire. Essi dimostrano che la discriminazione contro gli arabi e i neri è molto viva e sembra essere in aumento. Alcuni esempi:
- Un direttore d’albergo maltese rifiutò l’alloggio ad un uomo d’affari arabo. Alla richiesta di spiegazioni, il direttore ha dichiarato, in un linguaggio dai toni forti, che era la politica dell’hotel di rifiutare l’ingresso agli arabi. In seguito ha chiesto scusa spiegando che «Non eravamo a conoscenza delle norme del l972 …» (it-Torca 2 giugno, 1991).
- Una donna inglese indignata che viveva a Malta, commentando il crescente razzismo, ha riferito che durante un recente viaggio in autobus, vide un giovane turista inglese nero sedersi accanto a una donna maltese di mezza età che poi «subito si alzò come se fosse stata colpita dalla peste e si spostò in un posto il più lontano possibile dall’offensore» (The Times, 3 marzo, 1998).
- Un professore francese di matematica di origine araba si lamentava di avere avuto ripetutamente rifiutato l’ingresso a locali notturni a Paceville a causa del suo aspetto arabo (The Times, il 23 novembre 1998).
- A tre danzatori britannici neri, membri di una compagnia di danza inglese, presente a Malta per esibirsi al teatro nazionale, venne vietato l’ingresso in un club da un buttafuori che permise invece agli altri membri, bianchi, della società di entrare (The Malta Independent on Sunday, 20 febbraio, 2000).
Le leggi non eliminano il pregiudizio, ma semplicemente lo camuffano. Il noto scrittore jugoslavo e politico liberale Milovan Djilas ha dato nel 1958 un resoconto agghiacciante e profetico di come l’incorporata visione del mondo di pregiudizi detenuti da un gruppo etnico possa assumere forma concreta e terrificante. Egli ha descritto le gesta di un montenegrino che ha preso parte al massacro di musulmani dopo la prima guerra mondiale:
Sekula che tagliava i legamenti dei talloni dei musulmani … odiava i Turchi … [Egli] considerava i musulmani, che chiamava turchi, come naturalmente responsabili di ogni male, e riteneva ugualmente essere suo dovere ineludibile seminare vendetta su questo credo alieno ed estirparlo (Djilas 1958: 210-11, citato in Simic 1991: 29).
Queste stesse cicatrici e sentimenti hanno dato origine alle orrende atrocità commesse durante la Seconda guerra mondiale. Per diversi decenni dopo, questi sentimenti violenti furono contenuti dalla ferrea disciplina del maresciallo Tito. Dopo la sua morte, le cicatrici si aprirono di nuovo e innescarono l’orgia ampiamente riportata di spargimento di sangue e stupri tra musulmani e cristiani e tra i cristiani, stragi consumate nel corso degli anni ‘90 (Bax 1995, 1996, 1997; Glenny 1992).
Differenze religiose ed etniche sono tutte troppo spesso accompagnate da cicatrici di vecchia data. I leader politici utilizzano queste differenze come risorse per rilanciare pregiudizi profondamente radicati e ricordi popolari in tempi di crisi, amplificandoli ed enfatizzandoli emotivamente. Le differenze etniche e religiose in sé non causano conflitti. I politici usano queste differenze come leve simboliche a cui affidarsi per orientare la manovra e la propaganda in direzione religiosa e/o nazionalistica. La realpolitik è pertanto legittimata dalla religione e dal nazionalismo.
Saddam Hussein nel 1992 descrisse la resistenza alla sua annessione del Kuwait come un attacco all’Islam, affermando che lui, come Saladino, stava difendendo l’Islam e il mondo arabo contro i (neo-)infedeli coloniali europei. Ha funzionato in parte, anche se in ultima analisi, non è riuscita. La tecnica è antica quanto la storia stessa. Si è spesso pensato che il turismo mette insieme le culture. Ma è improbabile che l’aumento del traffico turistico tra e lungo le coste del Mediterraneo stimolerà gli scambi culturali. Come MacCannell (1984: 387) nota in modo arguto:
[Il] rapporto tra i turisti e la popolazione locale è temporaneo e disuguale. Ogni relazione sociale che è transitoria, superficiale e diseguale è un terreno fertile principale per l’inganno, lo sfruttamento, la mancanza di fiducia, la disonestà e la formazione di stereotipi.
Numerosi studi dimostrano, inoltre, che nel corso del tempo, la prima accoglienza entusiasta dà il via al mercantilismo. Le relazioni sociali diventano mercificate. Descrivendo l’impatto del turismo sui valori e le credenze tradizionali in Tunisia, Bouhdiba ha osservato,
Ciò che una volta sarebbe stato considerato come freddezza imperdonabile, indegna del carattere e della tradizione tunisina, diventa una necessità … L’ospitalità è diventata solo un’altra tecnica di vendere una serie di beni e servizi standardizzati al miglior prezzo [3].
I turisti portano a buon fine affari con i loro ospiti, non sostituiscono la loro cultura. Inoltre, troppo spesso i turisti sono i rappresentanti poveri della propria cultura. Hanno fatto qualche passo per divertirsi fuggendo dalla routine consolidata, dai vincoli di tempo e di luogo e da codici di comportamento che normalmente regolano la loro vita quotidiana. Per molti lo status di turista diventa un permesso per impegnarsi in comportamenti licenziosi. Quindi i turisti spesso si comportano in modi che sarebbero inaccettabili nella loro stessa società. Ad esempio, molti degli abitanti della piccola città medievale di Mdina Maltese (ab. 350), che è visitata da quasi un milione di turisti ogni anno, si lamentano che i visitatori spargono rifiuti nelle loro strade, sono troppo rumorosi, urinano in pubblico e vanno in giro in abbigliamento da spiaggia. Sono particolarmente offesi quando i turisti entrano nelle loro chiese non adeguatamente vestiti o fanno irruzione nelle loro case e nei cortili, non invitati, per dare un rapido sguardo intorno (Boissevain 1996a; Boissevain e Sammut 1994).
Alcuni turisti sono condiscendenti, e utilizzano la povertà dei loro padroni di casa, un comportamento insolito o rituali esotici per confermare i propri pregiudizi e il senso di superiorità. Un’esperienza personale ha dimostrato con forza questo assunto. Diversi anni fa sono stato a Malta ad osservare la processione del Venerdì Santo a Naxxar. Una coppia di turisti stava nelle vicinanze a filmare l’evento. Improvvisamente l’uomo si chinò al suo partner e mormorò in olandese, «Jezus! Wat heidens een gedoe!» (Gesù! Che spettacolo pagano!). Ovviamente il fasto colorato serviva soltanto per rafforzare il pregiudizio anti-cattolico che è ancora molto diffuso nei Paesi Bassi e, di conseguenza, il sentimento di supponenza. Tale comportamento insensibile da parte dei turisti è tutt’altro che raro (vedi Abbink 2000: Boissevain 1996a). Ulla Wagner si chiede con sagacia come il turismo possa eventualmente portare alla comprensione culturale, quando i turisti si comportano in modi che offendono profondamente le persone in mezzo alle quali essi si trovano (1981, citato in Crick 1989: 328).
È anche discutibile come la politica dello Stato sia in grado di stimolare lo scambio culturale. Maggiore interazione con gli Altri non necessariamente genera comprensione ed empatia o riduce gli stereotipi. Un governo può incoraggiare il dialogo, anche la cooperazione, ma non può sradicare il pregiudizio incorporato nella cultura. Gli studi hanno dimostrato che il contatto reale con gli Altri finisce solo per confermare e aggravare i pregiudizi già detenuti (cfr Brewer 1984; Khattab 1997; Abbink 2000: 8-14). Questo sembra essere in atto a Malta. L’atto politico di ridefinire i libici come “fratelli di sangue” non ha portato al riavvicinamento culturale che il governo socialista di Malta aveva sperato. Né il costante aumento degli arrivi di turisti, i richiedenti asilo e gli immigrati clandestini hanno aumentato la tolleranza maltese dell’Altro. Piuttosto il contrario. Un recente studio ha documentato nel corso degli ultimi due decenni un forte aumento dell’intolleranza rispetto ai turisti e a gruppi di altre etnie. Nel 1999 il doppio dei residenti del 1991 hanno dichiarato che non volevano musulmani né migranti come vicini di casa (30% e 15% rispettivamente), e rispetto al 1984, quattro volte di più che nel 1999, hanno riferito che non volevano che turisti abitassero nelle vicinanze (3 % e il 12% rispettivamente) (Abela 2000: 219-220) [4]. La massiccia immigrazione di nordafricani in Spagna sta anche provocando reazioni xenofobe. Tanto che la moglie del premier regionale della Catalogna ha recentemente perso la sua tradizionale calma. Gli immigrati musulmani, ha affermato, sono stati i principali beneficiari dei pagamenti di sicurezza sociale alle famiglie numerose. «Questi benefici vanno a persone che non sanno nemmeno cosa sia la Catalogna» ha esclamato irata, aggiungendo che le chiese della Catalogna sarebbero state presto oscurate da moschee (The Guardian, 1 marzo, 2001: 6).
L’allargamento dell’Unione europea potrebbe unire i Paesi mediterranei europei in un mercato unico. Ma a causa delle cicatrici non rimarginate di lunga data, aggravate dai recenti sviluppi, è molto improbabile che questa unione li saldi in una unità culturale. D’altra parte, la divisione del Mediterraneo in due blocchi commerciali ineguali può rafforzare, e quindi intensificare, le differenze culturali, religiose, etniche, politiche e, naturalmente, economiche esistenti.
(Traduzione dall’inglese di Giuseppa Ripa)
Dialoghi Mediterranei, n.13, maggio 2015
Note
- Alcune di queste idee sono state prima presentate ad un convegno su ’Il Mediterraneo: ponte o diaframma?’, Accademia mediterranea di studi diplomatici, Università di Malta 14-14 maggio 1991 e alla conferenza su “Stereotipi e alterità: percezioni di Alterità nel Mediterraneo”, UNESCO e Fondazione di studi internazionali, Malta, 27-29 novembre 1997. I miei ringraziamenti a Franklin Mamo per le sue utili osservazioni. Successivamente è stato pubblicato in Lindo, Flip & Mies van Niekerk, eds. Dedication and Detachment. Essays in Honour of Hans Vermeulen, Amsterdam: Het Spinhuis/Aksant (2001): 61-70 e ristampato con il permesso di Het Spinhuis.
- Rabban Gamaliel, citato in Blackman (1965: 219).
- Bouhida (1976), citato in De Kadt (1979: 63-64). Pi Sunyer (1978) e Greenwood (1978) hanno fatto osservazioni simili circa l’impatto del turismo in Spagna. Cfr. anche Pi Sunyer (1989).
- L’aumento della xenofobia può anche essere stata stimolata dal ripetuto avvertimento del partito laburista di Malta che l’adesione all’Unione europea avrebbe aperto Malta ad un’invasione sgradita di membri dell’UE, i quali avrebbero sparso l’Aids, preso i lavori dei maltesi e in generale avrebbero minacciato i valori tradizionali.
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Jeremy Boissevain, è professore emerito di Antropologia Sociale presso la Scuola di Amsterdam per Social Science Research. Ha successivamente insegnato presso le Università di Montreal, Sussex, Malta, New York, Massachusetts, la Columbia University e l’Università Jagellonica di Cracovia. È autore di diversi studi sugli italiani di Montreal, su religione e politica a Malta, su dinamiche parentali e reti amicali. Nessuna sua opera è stata fino ad oggi tradotta in lingua italiana, salvo alcuni interventi in volumi collettanei e atti di convegno.
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